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179. Recensione a: Gabriel Marcel, Il filosofo di fronte al mondo d’oggi, a cura di G. Scarafile, Morcelliana, Brescia 2024, pp. 96. (Andrea Allegra)

Giovanni Scarafile presenta la traduzione inedita del testo francese di Gabriel Marcel Le philosophe devant le monde d’aujourd’hui del 1951, un testo che, potremmo forse dire, ha l’intenzione di presentare l’“identikit” del filosofo, della sua attività, di ciò che dovrebbe fare. Questo testo nasce certamente da una necessità impellente che Marcel evidenzia fin da subito quando scrive che «Nella stragrande maggioranza dei casi, il filosofo del XIX secolo si è ridotto a un professore di filosofia» (pp. 26-27), e ne illustra le caratteristiche – con rimprovero –: «Troppo spesso, il professore di filosofia è uno specialista […] intossicato dalla propria specializzazione, al punto da offrire ai suoi studenti […] il proprio sistema filosofico – se ne possiede uno – oppure una miscela di teorie diverse o ancora, in maniera meno impegnativa, un’esposizione storica dei sistemi precedenti» (p. 27). Quindi, tutto l’assetto pensato, nell’epoca contemporanea, per la “professione filosofica”, viene da Marcel smantellato. Chi fa il filosofo fa un’altra cosa; il professore di filosofia rischia di cadere – troppo spesso cade – nella perdita di «contatto con la realtà vivente, sostituendola gradualmente con un mondo ideale che assomiglia a un giardino segreto e ben curato, dal quale le influenze esterne sono accuratamente escluse» (p. 27): questa attività viene definita – non a caso – da Marcel «giardinaggio intellettuale» (p. 27).
Marcel aspira a una concretezza-pratica dell’attività filosofica, rifiutando ogni mera astrazione che fugge dalla reale complessità del mondo o, meglio, dalla complessità della situazione nella quale l’uomo-filosofo vive ed è direttamente coinvolto. Per tale ragione è importante che il “vero” filosofo “entri nel mondo” attraverso una riflessione critica – diversa dall’astrattezza alla quale è stato abituato il mero professore di filosofia – che è dimensione di pensiero volta a scoprire sempre meglio gli intrecci complessi che creano le realtà in cui viviamo e che, proprio perché viste soltanto dalla loro superficie, spesso le si riconduce a una semplificazione estrema e ingenua. Il filosofo deve quindi rimanere sempre in contatto con la realtà in cui vive ed è chiamato a scoprirne – seppur non in senso assoluto – la complessità (questo è il compito principale del filosofo, secondo Marcel) per poter dire la sua – laddove ci riesce, nei limiti dell’umiltà – in merito a situazioni delicate. Il filosofo deve evitare assolutamente «di prendere posizioni teoriche piuttosto che concrete, basandosi talvolta sulle adesioni a manifesti più che su una conoscenza approfondita dei fatti, una pratica che si traduce in realtà in un’ignoranza mascherata» (p. 36). Marcel a tal proposito cita anche Proudhon quando sostiene che «Gli intellettuali sono persone superficiali» (p. 37), per poi continuare il suo discorso giustificando questa asserzione: «una constatazione tristemente accurata dato che, a differenza di operai e contadini, che si confrontano con la resistenza della realtà materiale, gli intellettuali operano nel regno delle idee, dove tutto sembra possibile sulla carta» (p. 37). Il distacco dalla realtà materiale, concreta, conduce troppo spesso all’errore di «applicare in modo precipitoso a casi specifici principi generali astratti, senza tenere conto che, oltre al fatto che questi principi vengono talvolta elevati indebitamente a verità assolute, il caso in questione è frequentemente poco conosciuto nelle sue particolarità e implicazioni» (p. 36).
Parlare, proporre, sostenere senza conoscere: sono tutti atti deplorevoli, soprattutto quando compiuti da un filosofo che è chiamato al pensiero critico, e un pensiero critico ha anche un compito da svolgere: «avere chiarezza sui limiti del proprio sapere e riconoscere che esistono ambiti in cui la sua incompetenza è assoluta» (p. 37). Marcel fa un esempio concreto – che vale la pena riportare per intero – per chiarire al meglio il suo pensiero: «Un chiaro esempio di questa imprudenza ci è fornito dalla richiesta, avanzata da alcuni intellettuali in Francia, di un ritiro immediato dall’Indocina. Questi intellettuali partivano dall’assunto che il colonialismo fosse incompatibile con la loro interpretazione dei diritti umani. Tuttavia […] la questione centrale era determinare se tale evacuazione fosse fattibile e se non avrebbe lasciato le popolazioni locali esposte alla violenza dei gruppi terroristici sostenuti dall’imperialismo sovietico. Di fronte a tali complessità, emettere giudizi basati sull’ignoranza o su posizioni ideologiche è un abbandono delle fondamentali responsabilità del pensiero critico» (pp. 36-37).
Il filosofo è quindi chiamato a conoscere i fatti storici, sociali, la società in cui vive, per poter poi agire concretamente, ma senza cadere nel tranello della sistemazione formale, astratta della totalità, che implica sempre riduzione della complessità dei fatti in favore della catalogazione e della lettura personale di essi eretta a visione assoluta, in cui i vari pensatori moderni e contemporanei – soprattutto gli idealisti – sono caduti. Il filosofo, secondo Marcel, è chiamato a muoversi fenomenologicamente, cioè attraverso una modalità d’indagine che non lo conduce al di là del suo posto finito – senza però cadere nel soggettivismo – ma allo stesso tempo lo porta in certo qual modo, ed entro certi limiti, a distaccarsi da esso per cogliere complessivamente e al meglio la realtà che lo circonda: perciò esiste un rapporto dialettico in seno alla fenomenologia proposta da Marcel quale indagine del reale; un rapporto dialettico di una dualità indefinibile che circoscrive l’indagine filosofica stessa: «il filosofo è allo stesso tempo immerso nel mondo e distaccato da esso, vivendo una dualità paradossale che definisce la sua stessa natura» (p. 57). Ciò vuol dire che, a partire dalla propria prospettiva, dal proprio “essere-nel-mondo”, l’uomo-filosofo è chiamato a una riflessione sulla propria esistenza e su ciò che lo circonda; ciò è possibile solo a condizione che il filosofo prenda coscienza del suo «essere in situazione» (p. 56). Non si tratta di «pretendere di raggiungere una comprensione totale, come quella attribuibile a un oggetto di studio scientifico» (p. 57); il filosofo è chiamato a riconoscere che non deve avere pretese di conoscenza: «riconoscere implica un processo diverso dal conoscere» (p. 57).
Riconoscere significa anche sapersi muovere nella complessità del sociale con la consapevolezza che la complessità non si riduce mai a un’unica visione complessa – cioè la propria –: significa, anzi, ammettere che la complessità implica pluralità di prospettive che devono essere assimilate riconoscendole. Anche per questo, Marcel apprezza la nascita, nella storia del pensiero, di uno dei prodromi del pensiero complesso che è il pluralismo fatto proprio da William James, con la consapevolezza del fatto che, però, il pluralismo non basta; è un punto di partenza ma non di arrivo. Marcel è cioè consapevole del fatto che la complessità va sempre approfondita per non rischiare di cadere nuovamente nel tranello della visione riduzionistica della realtà pensandola come totalità ingabbiata in una spiegazione come, ad esempio, quella panteistica, citata dallo stesso Marcel. Riconoscere la complessità del reale significa anche vivere criticamente le interazioni che conduciamo nella quotidianità: far proprio il pensiero complesso significa anche fare un passo indietro rispetto al giudicare: vizio che spesso abbiamo parlando di altri.
Pensare la realtà come “struttura” dinamica e complessa significa anche riconoscere l’insufficienza di categorie come quelle di quantità: «È vano immaginarsi che il pensiero possa arrestarsi alla categoria dei “molti”. […] Appare evidente che dobbiamo superare tutte le categorie legate al concetto di quantità» (p. 59). Il pensiero non può quindi accontentarsi di «catalogare e analizzare le differenze» (G. Scarafile, p. 59, nota 6). Anche il concetto di relazione sembra essere insufficiente per Marcel: la realtà complessa non è riconducibile meramente alla somma delle parti e, quindi, a questo tipo di relazione. Marcel utilizza invece il termine super-relazione: «non posso concepire una totalità assoluta senza, in qualche modo occulto, sostituirmi a essa, ma riconoscendo pienamente la mia natura di essere finito, comprendo di trovarmi tra e con gli altri. Tra di noi si instaura qualcosa che va oltre le relazioni in senso stretto, una sorta di super-relazione che non posso ridurre a un oggetto ideale manipolabile» (p. 62). Osservare la realtà fenomenologicamente entrando in profondità, con la consapevolezza della propria finitezza, significa riconoscere il mistero delle relazioni che determinano la complessità del reale. Relazione è forse un concetto troppo generico per Marcel che non rende giustizia al mistero e alla profondità dei legami intersoggettivi; perciò è bene indicare questo mistero con il termine “super-relazione”. Termine che, secondo Marcel, «assume un significato ancora più profondo se elevo il mio pensiero all’idea di Dio, o meglio, se riconosco la presenza divina» (p. 62). Come scrive Scarafile: «Questa “super-relazione” non è qualcosa che possa essere pienamente spiegato […] è una dimensione dell’esistenza umana che riconosce una profondità e una ricchezza nelle interazioni umane che superano la mera somma delle parti» (p. 62, nota 1).
Il filosofo non è quindi chiamato ad aderire a slogan per attirare l’attenzione del grande pubblico – come ha fatto Sartre dichiarando: “Signori, Dio è morto” (p. 32), riducendo a slogan un pensiero complesso come quello nietzschiano – o a ideologie che servono al filosofo come rifugio da un mondo complesso. Il filosofo, per Marcel, è chiamato a riconoscere la complessità della realtà senza ridurla a un’unica visione dalle tendenze onnicomprensive – nefaste –. E deve, sulla base di approfondimenti e riflessioni non superficiali, aderire e proporre sempre la via che conduce alla pace, alla civiltà, all’umanità da riscoprire, valutando bene gli effetti di certe scelte: emerge, così, la natura cristiano-cattolica del pensatore francese, che lo conduce a pensare criticamente la realtà per proporre, sempre e comunque, percorsi che aspirano alla realizzazione della pace.

(28 agosto 2024)

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