mercoledì , 16 Luglio 2025
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201. Recensione a: Byung-Chul Han, Contro la società dell’angoscia. Speranza e rivoluzione, trad. it. di A. Canzonieri, Einaudi, Torino 2025, pp. 112. (Angelica Ruscetta)

Il libro di Byung-Chul Han, intitolato Contro la società dell’angoscia. Speranza e rivoluzione, pubblicato nel gennaio 2025 dalla casa editrice Einaudi, è il nuovo saggio del filosofo coreano-tedesco, pensatore lucido del nostro tempo. Si presenta come un’opera nella quale il richiamo all’utopia, alla rivoluzione possibile solo con affilati strumenti di pensiero, vuol essere un tentativo di dare fiducia alle capacità umane di affrontare una situazione esistenziale in apparente stallo. Il prolificissimo filosofo ci regala un’acuta riflessione partendo da una cruda analisi della società contemporanea, permanentemente faccia a faccia con fenomeni apocalittici. L’essere umano si troverebbe assorto in questo clima di confusione ed angoscia, volgendo lo sguardo verso un futuro tetro. La descrizione della società esposta da Han nel preludio dell’opera pare non essere per nulla confortante per l’uomo contemporaneo, dove la sua vita è atrofizzata e il suo vivere si trasforma in un sopravvivere: «Al cospetto del volume sempre crescente di problemi da risolvere e di crisi da gestire, la vita si atrofizza. Vivere si trasforma in sopravvivere. L’affannata società della sopravvivenza è simile a un ammalato che con tutti i mezzi cerca di schivare una morte che si fa sempre più vicina» (p. 11).
Dunque, il diffuso clima di angoscia, al quale sembra che l’uomo sia condannato, soffoca e schiaccia ogni seme di speranza. Conseguentemente si accompagna all’angoscia il risentimento, incrementando lo stato d’animo depressivo umano. L’angoscia e il risentimento, secondo la trattazione dell’autore, «spingono le persone tra le braccia delle destre populiste e alimentano l’odio» (p. 11). L’angoscia è assolutamente incompatibile con la democrazia, essendo uno strumento di controllo molto potente, che rende le persone ubbidienti e ricattabili. Questa dilagante angoscia collettiva sembra essere estremamente deleteria, in quanto a causa di essa è anche il pensiero a venir meno. A questo proposito, la tesi di Han continua affermando che l’uomo contemporaneo prova angoscia perfino per l’attività di pensare (ed è proprio l’attività di pensare in senso enfatico a consentirci l’accesso a ciò che è completamente Altro), spingendo l’uomo al conformismo e all’inferno dell’Uguale. Citando le parole di Han: «In un clima d’angoscia persiste l’Uguale e si impone il conformismo. L’angoscia preclude ogni accesso all’Altro. L’Altro si sottrae alla logica dell’efficienza e della produttività in quanto logica dell’Uguale» (p. 12).
Un’ulteriore caratteristica peculiare dell’angoscia è di non poter accedere al discorso, non saper farsi racconto. Infatti, andando ancor più in profondità, il termine «angoscia» (medio alto tedesco: angest; antico alto tedesco: angust) significa originariamente «strettezza». Perciò l’angoscia sopprime ogni ampiezza, riduce il nostro campo visivo, dà all’uomo la sensazione di trovarsi in una strettoia. L’autore ci enuncia, di conseguenza, che l’angoscia intesa in questi termini porta l’uomo a sentirsi come imprigionato e il mondo stesso appare come una prigione. Infine, essa preclude il futuro, perché rende inaccessibile il possibile, il nuovo. L’angoscia si aggira come uno spettro nel nostro tessuto sociale. Questa preclusione psichica, filosofica ci preclude la possibilità di intraprendere qualsiasi nuovo percorso capace di farci uscire dalla situazione di stallo nella quale ci troviamo.
La speranza, di contro, è l’esatto contrario dell’angoscia. Nell’angoscia non c’è la possibilità di formare una comunità, non è possibile angosciarsi insieme, ciascuno è lasciato a sé stesso. La speranza, di contro, ha dentro di sé una dimensione del Noi. Nel primo capitolo del libro, dedicato al rapporto tra speranza e azione, viene esposto come nell’immaginario comune la speranza è stata da sempre contrapposta all’agire. Per alcuni genererebbe illusioni. Di questo avviso è anche Albert Camus. Nietzsche invece intende la speranza in maniera opposta, come «un risoluto Sì alla vita, come un tuttavia» (p. 23). Han qui precisa che occorre fare una distinzione tra la speranza passiva, inerte e debole, e la speranza attiva, agente e forte. La speranza passiva equivale ad un desiderio senza forze, quella attiva e forte, al contrario, spinge le persone a compiere qualcosa di creativo insieme: «È l’ostetrica del nuovo. Senza speranza non vi è nessuna partenza, nessuna rivoluzione» (p. 29). Perciò possiamo affermare che la speranza, intesa come speranza attiva, non si può separare dall’agire. Solo la speranza, sintesi fra vita activa e vita contemplativa, può salvarci dalla pandemia di angoscia, dalla catastrofe della ripetizione dell’Uguale. Solo la speranza può far recuperare quel vivere ridotto ora al sopravvivere. La speranza apre l’orizzonte della sensatezza che nuovamente anima e mette le ali alla vita. La speranza intensifica il senso del possibile. Chi spera si apre a nuove possibilità, che senza di essa non sarebbero pensabili né riconoscibili. Essa ci dona futuro, pre-dispone alla rivoluzione. Molto interessante è la visione di Nietzsche che fa notare Han, secondo cui possiamo intendere la speranza come una condizione particolare dello spirito, analoga alla gravidanza, infatti: «Sperare significa essere pronti alla nascita del nuovo» (p. 29). L’attenzione per il ciò-che-non-è-ancora è decisiva.
Il sogno ad occhi aperti è un ulteriore punto degno di interesse sviluppato dall’autore in questo primo capitolo. I sogni ad occhi aperti si protendono verso il futuro, mentre i sogni notturni si volgono solo all’indietro. Freud in Introduzione alla psicoanalisi declassa i sogni ad occhi aperti, facendone semplici momenti preparatori a quelli notturni, mentre Bloch attribuisce loro una specifica rilevanza. Essi sono portatori di una dimensione del Noi. Hanno una dimensione politica, un potenziale utopico, e sono capaci di innescare una rivoluzione. I semplici sogni notturni invece rimangono ancorati alla mera dimensione privata, e sono privi di ogni ampiezza e slancio utopico: «I rivoluzionari sognano durante il giorno, sognano protesi in avanti e lo fanno in comune con altri. I sogni che delineano un miglioramento del mondo sono sogni a occhi aperti generati da una forte speranza. Nei sogni notturni la speranza non trova posto» (pp. 32-33).
Il secondo capitolo prende in esame il rapporto tra speranza e conoscenza, iniziando con un focus sul pensare: «Pensare ha una dimensione affettiva, corporea. La pelle d’oca è la prima immagine di pensiero. Le immagini di pensiero hanno le loro radici profonde nella corporeità. Senza sensazioni, emozioni o affetti, in generale senza un esser smossi non sussisterebbe alcuna conoscenza. Sensazioni, emozioni e affetti innervano il pensare» (p. 52). Ed è per questo che Han esprime l’inadeguatezza dell’intelligenza artificiale, in quanto non si possono riprodurre in modo algoritmico sensazioni e affetti. L’intelligenza è capace solo di calcolare e non crea nulla di nuovo. È attraverso il pensare che si può arrivare al totalmente Altro. È appassionante l’interpretazione che ci dona Deleuze del pensare, definendo chi pensa come un idiota. Ed è proprio chi è in grado di fare l’idiota che può perseguire un nuovo inizio, può eseguire una rottura radicale con tutto ciò che è stato fino ad ora: «Solo un idiota può sperare» (p. 52). Per quanto riguarda la conoscenza, Han ci regala una visione interessante e se vogliamo originale: essa non avviene sopprimendo gli atti emozionali, piuttosto è l’attenzione guidata dall’amore che determina i passi della conoscenza: «L’amore non ci rende ciechi, ma vedenti. Solo gli innamorati aprono gli occhi. L’amore non distorce la realtà ma apre alla sua verità, intensifica lo sguardo. Tanto più forte è l’amore, quanto più profonda è la conoscenza» (p. 52). Già in Platone si è riscontrata questa tendenza di pensiero, per cui l’amore è costitutivo per la conoscenza, e il filosofo sarebbe un essere erotico. Di conseguenza, è proprio per questo motivo che l’intelligenza artificiale non è in grado di pensare, perché non ha alcun amante.
Sempre nel secondo capitolo bisogna evidenziare il pensiero di Benjamin, in particolare per quanto riguarda il sogno, secondo cui il sogno sarebbe un utile strumento conoscitivo. Egli sposta le cose su un profondo piano sognante e il significato delle cose provenienti dal passato non si esaurisce nel loro esser state in una posizione temporale. Sognando, cioè sperando, esse eccedono la loro delimitazione storica. Possiamo dire allora con certezza che sogno e speranza si trovano fortemente collegati. Ma sembrano collegati anche passato e futuro, poiché nello spirito della speranza noi riusciamo a scorgere il venturo anche in ciò che è passato: «Il venturo in quanto veramente nuovo, in quanto Altro, è sogno, il sogno a occhi aperti di ciò che è passato. Senza lo spirito della speranza siamo imprigionati nell’Uguale» (p. 59).
Nel capitolo conclusivo, intitolato Speranza come forma di vita, Han richiama la filosofia di Heidegger, specialmente il concetto di essere-nel-mondo. La critica di Han alla modernità si radica in una perdita di connessione autentica con il mondo. L’umanità moderna, secondo il nostro autore, non è più in grado di essere veramente “presente” al mondo, immersa com’è in una realtà dilatata e dominata dall’urgenza del fare. La riflessione heideggeriana sull’essere, che invita a un’esistenza più autentica e meno frenetica, viene quindi distorta da una realtà che spinge l’individuo a “essere sempre qualcosa”, riducendo il tempo per una riflessione più profonda sulla propria condizione esistenziale. In Essere e tempo ha una grande importanza la tonalità emotiva, infatti, ancor prima di orientare la nostra azione verso qualcosa, noi ci troviamo già all’interno di una tonalità emotiva: «Il trovarsi emotivamente situato precede qualunque trovare qualcosa. Noi siamo già da sempre gettati in una tonalità emotiva. Non è la conoscenza, ma la tonalità emotiva a dischiudere originariamente l’essere-nel-mondo» (p. 64). Han si rifà ad Heidegger per discutere la possibilità di un ritorno a una forma di vita più autentica. Secondo Heidegger, l’essere umano ha la possibilità di vivere una vita autentica se è in grado di confrontarsi con la propria finitezza e con la propria morte. La consapevolezza della propria finitezza è in un certo senso, liberatoria: l’individuo non è più schiavo del tempo lineare e produttivo, ma è capace di abitare il proprio tempo in modo pieno e significativo. La critica di Han alla società dell’angoscia si fonda proprio su questa riflessione heideggeriana: l’individuo moderno, alienato dalla frenesia e dalla prestazione, è incapace di esserci autenticamente nel mondo. La vera libertà consiste nel liberarsi dal giogo dell’auto-sfruttamento e nella capacità di vivere una vita che non sia dominata dalla logica della performance, ma che si radichi nella riflessione sul proprio essere.
In conclusione, Contro la società dell’angoscia è un’opera che offre una visione provocatoria e radicale della condizione umana contemporanea. Han non si limita a descrivere i mali della società neoliberale, ma suggerisce anche una possibile via di fuga: il recupero di “spazi di silenzio” e di momenti di riflessione. La lentezza e la capacità di distacco dalla pressione performativa sono, secondo Han, strumenti necessari per rientrare in contatto con l’autenticità dell’esistenza. Tuttavia, questa “salvezza” appare come un’utopia difficile da realizzare in un mondo che sembra governato dall’accelerazione e dalla continua produzione di sé stessi. Il libro di Han si configura quindi come un contributo fondamentale alla critica filosofica della società contemporanea, ma anche come un monito verso le pericolose derive di un capitalismo che non solo sfrutta l’individuo, ma lo costringe anche a diventare il suo stesso carnefice.

(30 maggio 2025)

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