mercoledì , 12 Novembre 2025
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207. Recensione a: Davide Susanetti, Quei discorsi d’amore. Leggendo il Simposio di Platone, Carocci, Roma 2025, pp. 184. (Federico Nicolosi)

Di fronte a un’opera-monumento come il Simposio platonico è sempre lecito chiedersi cosa possa aver reso un dialogo corale di modesta estensione il pilastro fondante dell’intera cultura occidentale. La risposta non può ricadere (non per intero, almeno) nella teoria dell’amore ivi esposta, per quanto essa rimanga il punto di partenza ormai imprescindibile per chiunque voglia accostare la questione da una prospettiva teoretica. Infatti, al netto delle vicende narrate dal simposiasta Aristodemo per bocca di Apollodoro, «non è storia né resoconto quel che la scrittura e il racconto offrono» (p. 12) e neppure, a ben guardare, una proposta speculativa. Il Simposio – il suo svolgersi, le plurali e imprevedibili direzioni che di continuo esso prende – è la filosofia, ovvero il distendersi stesso dell’essere umano. In ciò consiste la ragione del successo di tale dialogo, la sua intramontabile fecondità: non si tratta di filosofia “su” o “dell’“amore, nemmeno di filosofia della filosofia o di “metafilosofia”; il Simposio è pensiero in atto. È perciò cangiante, plurivoco, irrequieto come lo è l’esercizio del pensare.
Quei discorsi d’amore nasce da questa presa d’atto, dalla consapevolezza che «quei “discorsi”, di per sé, non contengono alcuna verità e, alla lettera, non affermano nulla. Ma agiscono secondo la virtù che è loro. Virtù di vertigine e incanto in cui l’esistenza si scioglie e si trasforma» (p. 19). La parola dei personaggi dei dialoghi platonici è pura irripetibilità, è estasi, affaccio sul divino aion attraverso lo squarcio fuggevole di kairos. La scrittura platonica è un dire sempre sofferto perché, come già notava Heidegger, «i “discorsi” della philosophìa [e della metafisica in particolare] impegnano la vita e sono differenti da ogni altra parola» (p. 18). Anche qui risiede l’originalità della scrittura di Platone, che risuona attraverso lo stile vibrante – talora rasente il sontuoso – di Susanetti: nel suo essere radicata nella vita, nell’immanenza di quel drama che si consuma ad ogni istante e a cui solo il morire può porre un limite, il dramma dell’esserci.
L’eco di questa tonalità affannosa che innerva costantemente l’esistenza si chiama eros, il quale non è che l’altro nome del pensiero. Esso «è simile a un fluido che si travasa e trapassa, come in un gioco di vasi comunicanti nella prossimità e nell’abbraccio. Ciò non significa, tuttavia, che per la sapienza possa avvenire lo stesso, poiché essa – diversamente da come ritengono i più – non è propriamente un oggetto o un dato e nemmeno un liquido che possa essere trasferito e introdotto da un recipiente a un altro. Non è qualcosa che due corpi, nel loro essere corpi e nel loro essere distinti, possano togliere e prendere l’uno dall’altro» (p. 27). L’amore (che sia sessuale, amicale, familiare o di altra natura) è – possiamo dire – il corrispettivo fenomenale di questa tensione costante che attraversa i corpi e che li sopravanza, rendendoli vivi. Eros, come afferma Erissimaco, è forza cosmica, phaos che penetra gli enti e li trae dall’oscurità della notte alla radura del senso. In questa misura, la volontà di tessere un elogio degno del dio da parte dei simposiasti appare certamente come un escamotage retorico per discorrere di qualcosa di assai più primitivo, ossia dell’essere stesso. «Perché l’amore è molto di più di un argomento filosofico all’altezza delle questioni più importanti: in fondo, in poche parole, è ciò che rende possibile la filosofia stessa» (M. Cruz, L’amore filosofo, Einaudi, Torino 2012, p. 3). Ecco dunque, prima dell’amore e oltre esso, i veri temi del Simposio di Platone: l’essere, il pensiero, la verità.
L’agile saggio di Susanetti lascia trapelare questa esegesi del dialogo platonico con sobrietà, mettendone in luce le ispirazioni metafisiche e le tradizioni letterarie. Non poiché penso – sembra suggerire l’autore –, allora sono: ma poiché amo, allora sono e penso. Eros è apertura, è il sé e l’altro da sé ed è il processo del loro mutuo fondarsi. Eros è origine, “il più antico tra gli dèi”, dice giustamente Fedro. Per questo motivo, al pari dell’essere, il dio-demone legetai pollachos, si dice in molti modi.
«Eros è così bello e suscita così tante parole proprio perché è poikìlos, “screziato” e “cangiante” al pari del “trono” celeste, altrettanto “variegato”, su cui Saffo aveva visto, una volta, assisa Afrodite. Eros è così essenziale agli umani proprio perché è “complicato” e li costringe incessantemente a misurarsi con la loro stessa complicazione. Li costringe a interrogarsi e a dare forma a ciò che, altrimenti, sarebbe solo un bruto e insignificante impulso. A trovare una bellezza in cui esprimere le proprie emozioni e i propri gesti» (p. 57). È quindi un errore grossolano tradurre eros con “amore”: non tanto perché così si smarrisce la ricchezza e la multivocità del termine greco, ma perché si rischia di appiattire la struttura sulla (o meglio, su una) sua manifestazione; in altre parole, perché si rischia di confondere la causa con l’effetto che essa ingenera. Eros, infatti, è. Prima degli enti, incluso Homo sapiens e il suo amore. Solo così – ha ragione Susanetti nel constatare – si spiega la «natura profondamente simbolica dell’umano» (p. 78), ovvero con l’agire di una forza che lo trascende e che non è riducibile né a mero bisogno né a impulso ma in grazia della quale egli è, pensa e ama.
Una conferma di questa tesi ermeneutica proviene dalla singolare ambientazione dell’opera di Platone. Collocata temporalmente nel 416 a.C. (data simbolica che precede di poco il tramonto della parabola ateniese), la vicenda raccontata da Apollodoro risulta atipica fin dall’inizio: il vino è presente ma i dialoganti evitano di ubriacarsi, i suonatori sono disponibili ma vengono immediatamente congedati come se costituissero una distrazione e lo stesso avviene con le donne. Da questo inusuale processo di spoliazione, spiega l’autore, sembra emergere la “forma” del simposio, il quale viene in qualche modo elevato fino al suo eidos, alla sua essenza ideale. Eliminati il vino, la musica, la presenza femminile, ciò che resta all’inizio come alla fine del dialogo è la centralità del logos: parola che manca a se stessa e che, narrandosi, si scopre attraverso l’occhio del proprio limite. «Il linguaggio e le rappresentazioni della ragione discorsiva», difatti, «sono strumenti cui è necessario ricorrere, ma solo per procedere al di là di essi e del limite intrinseco che li contrassegna» (p. 108).
“Discorso” e “amore” sono dunque indissolubilmente legati tra loro. Eros è condizione del Logos nel duplice senso della parola: in quanto sua costituzione e in quanto prerequisito necessario. Il pensiero non è stazionario, monocorde, ma al contrario si nutre del mutevole e del diverso; la sua organizzazione è estatica, palpitante, erotica appunto. Anche per questa ragione il Simposio, lungi dal costituire una semplice riflessione sull’amore, è insieme un trattato di metafisica e di gnoseologia: interrogarsi metafisicamente su eros, pensare quest’ultimo – in quanto attrito, tensione, apertura costanti – come il principio cosmico della materia vuol dire, invero, già chiedersi in che modo esso condizioni la nostra esperienza del mondo.
Questa profonda coappartenenza di eros e logos riceve, all’interno del dialogo platonico, la sua tematizzazione più riuscita in corrispondenza dell’intervento di Socrate, che a ragione Susanetti considera non come la sola proposta valida (il cui scopo sarebbe unicamente quello di soppiantare tutte le altre) ma come uno fra i molteplici modi – probabilmente il più significativo agli occhi di Platone – di intendere l’amore. Attraverso il curioso episodio dell’incontro con la sacerdotessa Diotima, infatti, «Eros, Socrate, il philòsophos si riflettono e si sovrappongono nell’immagine offerta dal mito. Ma non è, in fondo, l’anima stessa a essere così, a doversi conoscere e riconoscere in quel profilo? Anima sempre indigente, eppure ricca di risorse che talora ignora. […] Anima ed Eros si specchiano l’una nell’altra ed entrambi nell’immagine che il mito compone» (pp. 100-101).
Eros e psyché si congiungono, provando la loro unità essenziale, nell’esercizio del domandare filosofico, di cui Socrate è maestro. Si tratta di un esercizio di interrogazione inesauribile che trae la propria fecondità non dalle risposte sempre provvisorie a cui il filosofo di volta in volta approda ma dallo stesso grembo del proprio domandare, dallo stato di ignoranza in cui questi si trova e solo in funzione del quale può darsi una sophìa. La philo-sophìa, in quanto tensione costante verso l’inattingibile, è l’eros che si fa anima e che, come tale, si sforza di dare una forma, una narrazione (logos) al proprio perenne errare. Il Simposio di Platone è la trascrizione di questo movimento fondante e fecondo.
Eros, anima e sapienza – che sono tre nomi diversi per designare l’essere dell’umano – germogliano insomma tutti e tre dal “non”, dal negativo, e in esso si trattengono sempre. «L’oggetto per cui tanto si smania e si spasima non è mai in ciò che si crede né vi è alcuno che lo detenga. Amore, se vuol essere perfetto, non può che consistere nell’esibire e nell’opporre il proprio “niente” affinché l’altro finalmente sia. Donare “nulla” è il vero tesoro della sapienza» (p. 129). Sophìa può nascere solo a partire dalla possibilità di un non-saputo, allo stesso modo in cui condizione della percezione visiva è che una parte dell’ente rimanga sempre adombrata. La prospettiva è il gioco dell’essere, è l’incarnazione di questa evidenza ontologica originaria, «il segreto su cui Eros riposa e insieme s’annulla» (p. 72). Nella “presenza” costante di un’assenza, difatti, l’essere riluce e si concede, facendosi strada proprio in quel frammezzo fra il dato e il non dato, fra ciò che si sa, ciò che non si sa ancora e ciò che non si saprà mai.
Pertanto, l’aporia – se con ciò si intende l’impossibilità di pervenire a una soluzione definitiva e onnicomprensiva – non è da considerarsi un “limite” o un esito negativo della ricerca filosofica; al contrario, è il presupposto stesso del pensare. D’altronde, «non è forse vero che la cifra ultima e incancellabile della condizione umana è data dall’impossibilità che il desiderio, la cura, la progettualità e la speranza possano mai esaurirsi? La fine del desiderio non è forse anche la fine dell’umanità? E tuttavia non è anche vero che il desiderio non è concepibile se non come desiderio di trovare una soddisfazione? Ma questa ipotetica soddisfazione non ha l’effetto necessario di trasformare l’uomo in qualcosa di completamente diverso da ciò che è» (F. Trabattoni, Eros antico. Un percorso filosofico e letterario, Carocci, Roma 2021, p. 145)? Anche per questo motivo la metafisica, che accoglie l’aporia e di essa si nutre, rimane il sapere filosofico per eccellenza.
La ricognizione letteraria del Simposio (in particolare del discorso di Socrate) tracciata da Susanetti ha il pregio di essere inscritta in un più ampio studio metafisico di questo ricco e complesso dialogo, che coniuga lucidamente l’indagine sugli aspetti esteriori dell’amore con l’approfondimento delle condizioni strutturali di tali aspetti. Ben prima di cristallizzare le proprie credenze e i propri progetti in quell’àgalma che chiamiamo “amato”, l’uomo infatti è già un animale semantico sic et simpliciter e eros non è che un nome per tutto questo. Concordo quindi pienamente con l’autore nel concludere che «l’avventura di Eros philòsophos è, in ultima analisi, una strenua e ardua venerazione volta a catturare l’“essere”» (p. 168), indipendentemente dal medium (la creatura amata) tramite cui questa venerazione avviene.
Quei discorsi d’amore propone, con Platone e oltre lui, un’analisi disincantata, radicale del fenomeno amoroso, che è capace di scorgere in esso la scaturigine dell’intero nostro stare al mondo. Esserci, infatti, non significa mai soltanto “stare qui”, bensì è un impegno attivo, una costante vicenda poetica; è «amore dell’intero, passione e conoscenza del tutto, in cui alto e basso, identico e diverso, essere e divenire, corpo e anima si compongono in un’unica mirabile trama. Tensione di un’interiorità che, salendo e scendendo, brama di attraversare ogni cosa in ogni maniera. Philosophìa che fonde tragedia e commedia, tendendo a un vertice che oltrepassi entrambe, a un termine ultimo in cui i contrari siano congiunti e risolti nell’uno» (p. 139). Questo è Eros, questo crea Eros.

(29 settembre 2025)

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