mercoledì , 16 Luglio 2025
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198. Recensione a: Alberto Giovanni Biuso, Logos. Scritti di estetica e letteratura, Mimesis, Milano-Udine 2025, pp. 444. (Federico Nicolosi)

Scritti di estetica e letteratura. Ma questa complessa, insieme unitaria e straordinariamente eterogenea, raccolta di saggi avrebbe potuto bene recare il titolo “Scritti di metafisica”. Certo, anche di estetica qui si tratta, come di ermeneutica letteraria, di fotografia, di cinema, di poesia, di teologia, di semiotica, di linguistica, di teoria politica, di filosofia della mente. Epperò l’orizzonte teoretico entro cui Alberto Giovanni Biuso convoglia con cura tutti questi diversissimi, plurali, contorti itinerari pluriventennali del suo pensiero rimane uno e uno soltanto: la metafisica come scheletro, presupposto e fine di ogni domandare umano; dunque della filosofia in quanto tale, che «del soggiornare nel mondo, è forma e comprensione suprema» (p. 67). Forse proprio questo – il fatto che metafisica è semplicemente «la struttura stessa del sapere filosofico» (A.G. Biuso, Tempo e materia. Una metafisica, Olschki, Firenze 2020, p. 2) e, prima ancora, la struttura stessa dell’umano – motiva perché invero il termine “metafisica” compaia relativamente di rado in questo libro, pur costituendone il vero motore.
Un’altra parola greca, insieme a metà ta physiká, è capace di accogliere dentro di sé tutto questo, tutta la meravigliosa complessità di tò ón, del reale. Questa parola è lógos, che è anche la parola-guida, Wegmark, dell’indagine filosofica condotta da Biuso in quest’opera. Infatti, «il lógos, la parola, è quasi tutto per degli animali che comunicano di continuo, che parlano e che dunque esprimono attraverso suoni le loro sensazioni, i sentimenti, i concetti, le credenze, ogni sfumatura. Il fatto che all’espressione grafica e sonora delle parole corrisponda un universo di significati comprensibile e comunicabile è un evento tanto familiare quanto enigmatico. Questo è infatti uno degli enigmi più potenti dell’esistenza umana, uno degli enigmi più complessi del linguaggio. Ed è anche per questa ragione che Unterwegs zur Sprache, in cammino verso il linguaggio, si può dire che sia non questo o quel pensatore ma l’intera filosofia contemporanea» (p. 11).
Cenno e a un tempo manifestazione precipua della natura semantica, poietica, artistica (dunque anche culturale poiché creatrice di significati non residenti nelle cose in quanto tali) dell’umano è il linguaggio. È a partire da esso, dalla maniera in cui ci avvolge fin dal nostro venire al mondo, che si può – e si deve – comprendere anzitutto come «gli umani non sono i padroni dei segni ma sono degli enti la cui natura è essa stessa segnica» (p. 17). Una disposizione del tutto consustanziale (e pertanto fisiologica) all’essentia stessa di Homo sapiens, che in quel parossismo semiotico che è l’innamoramento si concreta fino a sfiorare la patologia, scadendo in una ricerca ossessiva di tracce, segni, indizi tesi a riconfermare di continuo l’indimostrabile dogma a cui ogni innamorato non può fare a meno di credere: che l’Altro – quella favolosa bambola che via via io vado plasmando – mi ama.
“Fisiologia versus patologia” è quindi un’ennesima dicotomia incapace di rendere conto della complessità dell’essere umano, un ennesimo mito filosofico e psicologico da valicare perché del tutto infecondo: che gli enti non “significhino” di per se stessi, e nondimeno continuino tranquillamente a esistere anche senza venire pensati da un corpomente, infatti, è evidenza inconcussa. Ma fino a che punto è fruttuoso liquidare come mera “patologia” il bisogno che l’uomo pur sempre ha di creare da sé tali significati e poi di proiettarli sugli enti per poterne fare esperienza? Non è forse, e più semplicemente, il suo essere stesso e più proprio? Il suo essere, cioè, animale metafisico per natura?
Una comprensione siffatta dell’esserci umano e del suo senso è estranea tanto all’universalizzante formalismo della logica classica, la quale crede di poter discutere sul linguaggio prescindendo dai reali contesti applicativi di quest’ultimo, quanto all’antropocentrico soggettivismo della filosofia moderna, la quale crede di poter far dipendere ciò che c’è (ontologia) dal suo venir pensato da parte di un umano (gnoseologia). Si tratta di una comprensione ancora una volta metafisica e radicalmente antropodecentrica capace, tra l’altro, di riflettere sull’essenza “intrinsecamente” protesica di Homo sapiens senza rischiare con ciò di scadere in fuorvianti innatismi o culturalismi. «Ibridato il corpo umano lo è dalle sue origini perché coperto, rafforzato, intessuto di artificio e di apparati, dai più elementari e primitivi ai più raffinati e virtuali. La relazione ontologica fra interno ed esterno, mente e mondo, naturale e artificiale, richiede il superamento di ogni forma di dualismo e la consapevolezza della continuità profonda tra la corporeità consapevole che noi siamo, la corporeità acutissima degli altri animali, la corporeità intramontabile delle macchine di cui ci serviamo. Per comprendere il mondo è infatti necessario transitare dal monoteismo logico e matematizzante del metodo occamista e galileiano al politeismo dei segni, a quell’impero di varianti, di molteplicità, di disseminazioni che è il reale. Un regno che noi stessi, dispositivi semantici, costruiamo respirando, vivendo, immergendo i corpi che siamo nel mare del senso» (p. 321).
Anche qui risiede l’unitarietà molteplice del pensare di Biuso: nella volontà di superare ogni rigido dualismo, ogni invalidante mito teoretico, ogni sterile primato dell’Io in vista di una ricomprensione olistica (e sostanzialmente greca) dell’Intero, del Cosmo, della Materia. Una ricomprensione conseguibile solamente transitando dal rifiuto radicale di qualunque sguardo moralistico sul mondo, cui occorre invece contrapporre «uno sguardo fenomenologico che non giudica ma mostra» (pp. 401-402). Perché «il tempo è il “come”»; e Tempo è solo un altro modo di dire “Essere”. «Se si insiste a chiedere che cos’è il tempo, non bisogna aggrapparsi affrettatamente a una risposta (il tempo è questo e quest’altro) che dice sempre un “che cosa”» (M. Heidegger, Il concetto di tempo, Adelphi, Milano 1998, p. 50). Lo sforzo asintotico di mostrare questo “come”, che è l’essere: ecco la vera missione, tutta heideggeriana, della filosofia di Biuso.
Di tale complessità sacra del reale, della materia che muta incessantemente e sempre permane, della Necessità che tutti gli enti – umani compresi – incarnano, sono dispiegamento i paganesimi antichi, ai quali giustamente il filosofo guarda con reverenza e dei quali rivendica la pregnanza teoretica e la saggezza esistenziale. Presso i Greci, difatti, «il divino si manifesta in modo aperto, plurale, molteplice, concorde, per nulla esclusivo ed escludente. […] Il divino è il sacro immanente, ctonio, terrestre, mondano, che splende e respira nel tessuto dei giorni, nella tensione verso la differenza, nell’accoglimento dell’identità del qui e dell’ora. Esso è ovunque. Ecco perché gli dèi greci non sono invenzioni della fantasia o deduzione teologiche ma entità che possono soltanto essere vissute nel limite che caratterizza la materia, nel rifiuto di ogni pretesa di dettare le regole agli eventi, nell’assenza di ogni culto narcisistico e borghese verso l’io, la sua volontà, la sua pretesa interiorità abissale di soggetto. […] Il paganesimo è dunque un’ontologia che riconosce pienamente la realtà autonoma del mondo, il quale non è affatto un’invenzione gnoseologica, una costruzione della mente umana, il frutto di una decisione divina ma è semplicemente l’essere e il darsi degli enti, degli eventi e dei processi» (p. 56).
Come già l’autore notava in Chronos (cfr. A.G. Biuso, Chronos. Scritti di storia della filosofia, Mimesis, Milano-Udine 2023, pp. 11-21), il Pantheon greco non è semplicemente la testimonianza di una rara sapienza dell’essere – sapienza sconosciuta ai monoteismi abramitici –, ma è l’essere stesso nel distendersi della propria verità. Pluralità e unitarietà, pluralità nella unitarietà, infatti, sono in primo luogo le divinità greche: identità che sempre diviene, divenire che sempre resta a sé identico. Legge fisica, prima che teologica, essi dunque sono: «il primo principio della termodinamica garantisce la costanza della materia e dell’essere, il secondo principio fa coincidere tale essere con il divenire. Ignoriamo empiria e logica di condizioni diverse da quelle che segnano l’essere sempre come essere sempre diveniente; quello che possiamo osservare è la costanza della materia nell’insieme incessante delle sue trasformazioni, è l’identità della differenza» (p. 364).
Neanche gli dèi possono sottrarsi a questa verità fisica e ontologica, all’irreversibilità del divenire, all’inoltrepassabile limite di Anánke, della Necessità. Verità che, sebbene in un linguaggio assai diverso da quello delle moderne formule fisiche, era ben nota ai Greci, poiché frutto – prima che di uno studio fisico-sperimentale – di un sentire ingenuo del mondo; ingenuo e perciò profondamente saggio, perché scevro di qualunque tentazione antropocentrica di “imporre” il proprio sguardo sull’essere invece di tenersi nell’ascolto di quest’ultimo. Ed è a questo “sentire ingenuo” che per Biuso, le cui intenzioni teoretiche si rivelano essere di nuovo fortemente heideggeriane, urge far ritorno.
Tale dinamica ha un nome, che è appunto l’altro nome dell’essere: Tempo, Chrónos, Zeit. Esso «è la materia nel suo stare e divenire. Il tempo è evento ed è struttura. Il tempo è storia e natura, che anche per questo sono inseparabili. Il tempo è reale, è pervasivo dell’essere, è molteplice» (p. 311). È il “come”: e quindi è accadere, dileguarsi, nientificarsi; fondamento ontologico dell’esistenza di ogni ente e fondamento gnoseologico della pensabilità di ogni ente. «Il tempo è forma, condizione e struttura del nostro stesso vivere, dell’abitare il mondo, del muoverci tra i luoghi» (p. 43). Certo, è possibile declinarlo di volta in volta in tempo storico, tempo psichico, tempo biologico, dunque in qualcosa a vario titolo quantificabile e manipolabile sperimentalmente. Ma «anche se ne invertissimo il flusso, anche se potessimo funzionare nella nostra esperienza concreta con il tempo delle leggi della fisica, anche se ci muovessimo in esso come nello spazio, saremmo costretti a essere tempo» (M. Cacciari, Metafisica concreta, Adelphi, Milano 2023, p. 307).
Il sapere che tenta di pensare e di dire l’impensabile e l’indicibile, che tenta di mostrare questo “come”, si chiama metafisica. Anche in ragione di ciò, l’intero Denkweg di Biuso è a mio avviso innervato di un onnipresente (più o meno tacito) elogio/difesa della metafisica in quanto tale, nella e oltre la molteplicità di sentieri che questo pensare ogni volta intraprende. Perché «al di là, al di là della storia e delle ambizioni, al di là delle società e delle idee, al di là cammina e si pone un narrare che cerca invece l’essenziale, vale a dire la metafisica. Dunque la necessità. Oltre il timore e oltre la speranza, parole per gente vanesia che non sa» (p. 276). Un elogio/difesa che, pur rimanendo incrollabile ed eccezionalmente coerente all’interno dell’impianto teoretico di questo filosofo, lascia molto da pensare su quanto ancora oggi la metafisica sia realmente da difendere; e che dovrebbe forse volgere l’ottimistica affermazione di Armstrong in una domanda: is metaphysics now respectable again? Nell’era del servilismo tecnico, dell’utilitarismo senza freni, dello smantellamento dei saperi teoretici? Quanto è, più che rispettabile, effettivamente rispettata la metafisica in tale contesto? E in che modo rivendicarne l’importanza cardinale per ogni conoscenza scientifica? Anche a queste domande, quasi mai esplicitamente tematizzate, guarda il filosofare ponderato e sofferto di Biuso in Logos. Scritti di estetica e letteratura.

(21 maggio 2025)

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