Il saggio di Roberto Fai Origine e natura del conflitto è un vivace e fecondo dialogo filosofico-politico con il pensiero di Roberto Esposito a partire dall’ultima pubblicazione di quest’ultimo, I volti dell’Avversario. L’enigma della lotta con l’Angelo (Einaudi, Torino 2024), da cui emerge un’originale riflessione avente al centro quanto di più inquietante e urgente riguarda il presente e la crisi politica che lo anima. In questa breve recensione farò riferimento ad alcune tappe dell’itinerario tracciato nel saggio per tentare di restituire al lettore, in minima parte s’intende, l’inquieto pensare la dimensione politica del pólemos. Non è la prima volta che l’autore intraprende un colloquio con il pensiero di Esposito – a cui è dedicato il breve excursus del secondo capitolo (pp. 21-34) –, una presenza filosofica costante nelle riflessioni e pubblicazioni di Fai, basti pensare al suo penultimo saggio, La vita e le forme. Sulla crisi della potenza istituente (Apalos, Siracusa 2023).
«Pólemos è padre e re di tutte le cose», si legge nel celebre frammento eracliteo (B53). L’autore si sofferma in questo “luogo” del pensiero antico e l’ermeneutica che segue, attingendo anche al pensiero di Cacciari, rileva sin dall’inizio l’aporeticità insista nelle parole del filosofo agrigentino e quindi nel concetto stesso di pólemos: una parola originaria della filosofia, potremmo dire; ancora oggi i filosofi riflettendo su essa tentano di formulare risposte capaci di toccare nel profondo le dinamiche politiche dei tempi che viviamo. A conferma che la riflessione sul pólemos ha caratterizzato tutta la storia della filosofia vi è anche il fil rouge che da Eraclito arriva a Heidegger, e quindi al nucleo del Novecento filosofico, ovvero ai due corsi universitari che il filosofo tenne all’Università di Friburgo durante il semestre estivo del 1943-1944 proprio su Eraclito, in cui ripercorre la strada della metafisica occidentale a partire dalla lettura e interpretazione del frammento in questione.
Il fondamento del percorso filosofico-politico che dal primo capitolo si dirama e anima ogni pagina del saggio consiste nella necessità di «ripartire da questa parola originaria della nostra cultura, della nostra civiltà – pólemos, conflitto – per svolgerne il senso, le implicazioni. Ancor più in un’epoca che appare incisa sempre più da un processo di inarrestabile intensificazione conflittuale» (p. 91). E per tracciare i magmatici confini dell’analisi di questa intensificazione conflittuale, ossia del pólemos quale realtà caratterizzante anche il presente, l’autore elabora la sua prospettiva reinterpretando il celebre racconto biblico di Giacobbe ed Esaù per dipanarne l’insorgenza metafisica, teologico-politica e filosofica che emerge dalla lettura che dello stesso ne dà Esposito, il quale individua nella vicenda dei due fratelli narrata in Genesi «una potente allegoria che indica una “conflittualità originaria” – ontologica – che lega i due nascituri» (p. 39).
Dunque, quella tra Giacobbe ed Esaù è definita da Fai «competizione fondativa, un’opposizione assoluta» (p. 39) che vuole i due fratelli in conflitto per la supremazia dell’uno sull’altro; competizione, questa, che in forza della propria portata simbolica determinerà le loro stesse esistenze sebbene per entrambi, come si evince dall’epilogo del racconto biblico, l’esito della vicenda non si rivelerà né mortale né violento.
La contesa tra i due fratelli è utile a «rintracciare un’analogia con altri luoghi fondativi, paradigmi, immagini mitiche altrettanto simboliche, intrecci leggendari che si stagliano lungo il percorso di individuazione e ricerca idealtipica della formazione delle comunità umane, e che rimandano al conflitto mortale tra fratelli, quale scena originaria da cui si verrà snodando il processo evolutivo delle forme religiose e la vita delle prime aggregazioni umane» (p. 41).
Cosa vuol dire che il conflitto è all’origine dello stare sociale, della comunità umana? Quale strada percorrere se non ci si vuole fermare all’evidenza posta nella riflessione appena formulata? Porre il conflitto all’origine significa aver maturato uno sguardo sul reale che riesce a toccarne l’aspetto più profondo poiché, «nell’impossibilità di un accesso diretto all’Origine, l’interrogazione del momento fondativo della vicenda umana è costellata, di più, avvinghiata all’implacabile domanda sull’Uno, da cui discende quel Due che inizia a simboleggiare la pluralità della vita, l’esistenza dei molti, la “molteplicità” naturale-umana» (p. 41). La tragicità dell’Inizio appare segnata dal timbro dell’irrimediabile conflitto, dal pólemos da cui tutto ha origine e che tutto governa: la sua signoria si estende, contro ogni volontà, a tutto il vivente.
Da uno sguardo ai titoli dei vari capitoli si evince che, in una tappa del cammino tracciato, come si è visto, il pensiero di Fai si apre al confronto con l’Ebraismo e il Cristianesimo, quindi con la matrice giudaico-cristiana della cultura europea. La forza delle religioni risiede, seguendo Natoli, nelle dottrine della salvezza da esse offerte ossia nelle loro soteriologie poiché le tradizioni religiose, «avendo apportato la salvezza in passato, la garantiscono al presente per l’avvenire» (p. 46), la loro “signoria sul tempo” non è altro che il risultato della promessa di redenzione e di liberazione dal male (finanche dalla morte stessa) di cui sono custodi.
Tra Giacobbe, che ha nel nome il proprio destino o, meglio, una parte della propria biografia, e il fratello Esaù il multiforme pólemos raggiunge il più altro grado allorquando il carattere duale della gemellarità assurge a tratto caratterizzante e preminente dell’intera storia di Israele: trova conferma quello che da molti studiosi è considerato il fondamento teologico-politico che sta all’origine della stessa teologia ebraica.
Per avere maggiormente chiara la “fisionomia” del conflitto di cui parliamo, va precisato che lo scontro fratricida tra Giacobbe ed Esaù ha inizio nel grembo materno e, ripetiamolo, non avrà per nessuno dei due un esito negativo, anzi, stando al racconto biblico, l’epilogo porta il segno della pacificazione. Difatti, «la Lotta che i due fratelli ingaggiano, scalciandosi l’un contro l’altro sin dentro il grembo materno, contiene in sé quel carattere teologico-politico che è intrinseco alla stessa idea di elezione, relativo all’unico popolo eletto, connotato esclusivo di Israele, ed è per tale ragione che quella nascita assume il carattere di un’intransigente Lotta su colui al quale spetti venir fuori per primo tra i due fratelli nel momento del parto» (p. 47).
Un posto particolare nella riflessione politico-teologica articolata da Fai sulla base del racconto di Genesi (cap. 32) è riservato all’episodio «il cui centro perturbante», dice l’autore, «è la Lotta con questa ignota figura, l’enigmatico Avversario» (p. 55). La lotta con l’angelo nel luogo che sarà chiamato Peniel è l’evento della vita di Giacobbe che segna radicalmente la sua esistenza producendo un mutamento, in esso è anche rivelato il risvolto del rapporto conflittuale con il fratello Esaù.
Qual è, dunque, l’esito di questa lotta? Una metabolé radicale si verifica nella vita di Giacobbe quando il suo avversario, l’angelo contro il quale ingaggia una strenua lotta, gli conferisce «il nuovo nome di Israele, il cui significato è “colui che lotta con il Signore”. Davvero singolare il fatto che se, da una parte, la parola “Israele” indica “colui che osa sfidare Dio” – attestando implicitamente il potere predominante di quest’ultimo –, a prevalere nella lotta è stato Giacobbe» (pp. 56-57). Alla fine della lotta Giacobbe diverrà la guida del popolo eletto, altro titolo che lo stesso avversario gli ha conferito.
L’esperienza della lotta con l’angelo, l’agon vissuto in sua presenza, come si è detto prima, determina il suo futuro; proprio da questo evento, infatti, va interpretato l’esito della storia biblica stando al quale Giacobbe, indipendentemente dai possibili violenti risvolti che aveva messo in conto potessero verificarsi quando lo avrebbe incontrato, s’inginocchia davanti al fratello riconoscendo l’errore commesso ai suoi danni. Tutto ciò in Giacobbe porta inevitabilmente «il segno della sua sconvolgente esperienza della lotta con lo sconosciuto» (p. 57).
Cosa dice a noi, in ultima analisi, la storia biblica che sia Esposito che Fai ritengono essere un vero e proprio paradigma del conflitto che sta all’origine? «Ecco che l’incontro con l’Altro, l’enigma di quella estenuante lotta, lungo il guado del fiume Iabbòq, nell’impenetrabilità dei volti dell’Avversario – dei suoi tanti, possibili volti –, non poteva che aprire una costellazione infinita di domande che, oltre a segnare le molteplici riscritture della Genesi lungo il tempo, hanno alimentato incessanti interpretazioni teologiche, letterarie, filosofiche, pittoriche ed anche psicoanalitiche che da quell’Evento hanno preso le mosse, giungendo sino a noi in una sfida ermeneutica senza riserve, inaugurando l’interrogazione infinita sulla natura di questo scontro misterioso e sul tratto enigmatico di quella figura, di quello straniero che ha incrociato e lottato contro Giacobbe» (pp. 57-58).
La sfida ermeneutica a cui fa riferimento Fai è ancora oggi aperta e genera nuovi itinerari di ricerca filosofico-politica in cui è possibile elaborare concetti e riflessioni utili per comprendere il nostro tempo che porta le stigmate di questo misterioso scontro, visibili nella teoria e nella prassi politica dell’Europa, nonché nella sua genealogia del conflitto.
Ma se il conflitto è all’origine non è solo sull’origine che bisogna riflettere. Per favorire la nascita e lo sviluppo di un pensiero critico sulle dinamiche politiche che ineriscono allo scontro l’analisi di Fai, poste alcune premesse contenute nelle riflessioni di Cacciari, fa riferimento al pólemos quale principio cosmico inviolabile che, intessuto nel legame mitico-religioso con il Divino, genera gli scontri sulla base del rispetto di un Nomos: prospettiva pensabile solo entro il confine storico-culturale del mondo greco-antico, in cui la correlazione Nomos-Dike costituisce una diade inscindibile. Qui risiede, sostiene l’autore, il carattere aporetico e quindi tragico di tutto il pensiero eracliteo poiché se per i Greci il Nomos ha la propria ragione d’esistere solo entro i confini della polis, «tuttavia il percorso di sradicamento del Nomos è una dinamica che inizierà a conoscere tra i greci la sua progressiva manifestazione, mostrando i tratti di una “disarticolazione” dal rinvio diretto al Nomos divino» (pp. 96-97). Tale riflessione mostra la radice conflittuale di ogni dinamica (teorica e prassica) che concerne il governo della polis: entro i suoi confini hanno luogo i conflitti che segnano in modo irrimediabile anche la posizione di chi ne regge il timone, di chi la governa; la trama di questo intricato pensiero politico troverà ampio spazio anche nella riflessione platonica (Politeia e Leggi in particolare).
Emerge a questo punto un tratto antropologico dell’uomo greco su cui sia Pohlenz che Vernant (in misura minore rispetto al primo) hanno scritto, ovvero la consapevolezza che governare significa inevitabilmente scontrarsi, vivere, affrontare e concepire il conflitto come condizione essenziale persino alla posizione di chi governa; difatti, «l’uomo greco sa e sperimenta che la lacerazione, le dissonanti antinomie, il Negativo, il conflitto, il Male – sino alla sua forma estrema di guerra – incidono nell’essere e nel tessuto della vita, segnano il destino dell’esistenza, della natura umana e dello spazio della polis. L’uomo greco sa che il conflitto estremo, la guerra, costituisce una costante presente, e può sempre tramutarsi in stasis – nella guerra civile – mortale e distruttiva, essendo la guerra di tutti contro tutti. Per i greci, non è la tragedia come “genere letterario” a istituire il tragico, bensì è l’esperienza e la visione tragica del mondo a fondare ed istituire il “genere”» (p. 98).
La visione tragica e la tragedia attica sono per l’autore, secondo chi scrive, due riferimenti filosofico-politici fondamentali dell’argomento trattato. Dice bene Fai quando afferma che l’avvicinarsi dell’uomo greco alla tragedia non esprime l’adesione a un genere letterario (fatto impensabile per quell’orizzonte culturale), ma la comprensione della visione tragica dell’esistenza, ossia l’aver compreso che la lacerazione di cui parla la tragedia, il conflitto che la intesse riguarda l’essere ed è principalmente una questione ontologica. Solo in forza di questa profonda cognizione del mondo può scaturire un’elevata comprensione dell’uomo, della sua vita in comunità e della dimensione politica che ha nel conflitto la propria origine e la linfa per il proprio sviluppo.
L’autore non fa del tragico, e in particolar modo della tragedia, una questione esornativa: «la traccia di un ordine divino si smarrisce. L’Entortung – lo sradicamento – del Nomos dalla sua radice divina è destinalmente segnato: potremmo dire, segnato, ab origine, sin da quegli sviluppi storico-politici a partire dai quali il mondo dell’Ellade inizia a sradicarsi dal contesto mitico-religioso che aveva scandito l’esperienza e le vicende politiche delle poleis» (p. 98).
L’itinerario filosofico-politico offertoci da Fai è arricchito dal suo colloquio con Schmitt, Cacciari, Jünger, Heidegger, Sloterdijk, Natoli, Agamben e molti altri, fino a presentare al lettore un sentiero che, attraverso uno sguardo più intenso rivolto al Novecento e alle due grandi guerre che ne hanno tragicamente segnato il volto, si volge ai problemi attuali che riguardano l’Europa e la fase di mutamento che sta attraversando. Dalle guerre sorte in Europa, due degli innumerevoli volti cruenti del conflitto che si sostanzia nella storia, si arriva alla minaccia nucleare che trasforma radicitus, come ha osservato Curi, i termini del rapporto tra politica e guerra: a fronte del suddetto mutamento, come ci appaiono dunque la terra, la società e la vita umana?
La riflessione dell’autore mette in guardia da quel Politico in cui è assente il senso della misura, «nell’auspicio che il mondo, nel frattempo, non venga inghiottito nel Grand Hotel Abisso» (p. 140). La conclusione, sempre nel segno del dialogo con Esposito, arriva al pensiero di Jean-Luc Nancy che, come una bussola, ci restituisce le coordinate precise per individuare la “posizione” in cui il mondo si trova oggi: esposto ad «un’estrema decisione di esistenza», dinnanzi all’aut-aut in cui bisogna scegliere tra l’abbracciare l’insignificanza che lo investe o ritrovare il proprio senso a partire da essa (p. 141).
(21 maggio 2025)