Nel libro Che mondo è mai questo?, pubblicato dalla casa editrice Laterza nel settembre 2023, Judith Butler riflette sul mondo in cui ci siamo trovati a vivere dopo la pandemia da Covid-19 con una serie di considerazioni sul mondo, sui corpi porosi e l’interdipendenza, sulla vivibilità e l’abitabilità, sul razzismo, sviluppate a partire da un approccio fenomenologico. Butler prende le mosse dal pensiero di Scheler e Merleau-Ponty, pilastri della fenomenologia classica, e ne applica alcuni aspetti a prospettive etiche e politiche che si possano attivamente mettere in pratica, con l’obiettivo di aprirsi verso il mondo, vivere in relazione con la Terra, impegnarsi nei suoi riguardi e accettare l’interdipendenza e l’interrelazione che caratterizza il genere umano. L’approccio butleriano intende infatti evidenziare «la condizione umana, un’apertura verso il mondo ben distante da ogni idea delimitata del sé e da ogni supposizione a riguardo» (p. 109).
Il pensiero dell’autrice è suscitato da una domanda che spesso ci si fa: che mondo è mai questo? Secondo lei, la domanda nasce dal fatto che la pandemia ci ha indotto a considerare il mondo in maniera completamente diversa da come lo abbiamo sempre pensato: esso acquisisce un nuovo senso e ci sembra nuovo. In realtà, la pandemia rende visibili alcune caratteristiche del mondo di cui non ci eravamo mai accorti, che si rivelano a noi brutalmente, provocando una sensazione diffusa di dolore. È questo il fenomeno del tragico descritto da Max Scheler: «quando subiamo una perdita, o la distruzione di qualcosa o qualcuno a cui tenevamo particolarmente, il dolore che sentiamo non attiene solo quella perdita, ma allo shock e al senso di smarrimento derivante dalla presa di coscienza del mondo come un luogo in cui simili perdite possono capitare a chiunque, in qualunque momento» (p. 24). A partire da uno spiccato anti-soggettivismo, Scheler spiega come il tragico ci obblighi a confrontarci con l’evento in sé e allo stesso tempo con una condizione costitutiva del mondo; il dolore che provoca «oscilla fra la vita e il mondo: l’evento della perdita, da un lato, singolare e irreversibile, e il mondo, dall’altro, immerso nel dolore» (p. 25). Il tragico accompagna la distruzione di uno o più valori, che nel caso della pandemia sono il contatto, il respiro, le superfici comuni, elementi vitali che si trasformano in potenziali cause di malattia e morte.
A complicare il quadro, c’è il fatto che non si può effettivamente parlare di un solo mondo, poiché con la pandemia non fanno che acuirsi diseguaglianze razziali, ambientali, economiche, sociali, e nonostante il virus possa attraversare qualunque corpo in ogni parte del pianeta, il suo impatto si configura in modalità e intensità diverse, a un punto tale da essere costretti a parlare di mondi al plurale, sovrapposti ma non comuni. Nonostante ciò, Butler insiste sull’importanza dell’interdipendenza e della reciprocità, implicate dalla porosità dei nostri corpi, caratteristica fondamentale che ci lega al mondo in cui viviamo e alle persone che ci circondano. I corpi non sono scissi dalle condizioni esterne, non siamo singoli individui isolati, ma siamo corpi porosi, che hanno bisogno di interagire con “ciò che viene da fuori” per sopravvivere, ingerendo, respirando, assorbendo. Aderendo così alla posizione co-costruzionista, l’autrice sottolinea come le vite umane siano in realtà intrecciate e interdipendenti tra loro e con il mondo, sollevando con urgenza la questione della sua abitabilità e della crisi climatica. Secondo la filosofa, è necessario comprendere che la vita non può essere vivibile se il mondo è inabitabile, e perciò bisogna tutelarlo e porre dei limiti al suo sfruttamento. La libertà individuale può diventare un potere distruttivo, perché se non viene in qualche modo circoscritta rischia di rendere invivibile il mondo. Non abbiamo scelta, siamo interconnessi prima di scegliere coscientemente di esserlo, «non potrei evitare in nessun modo, infatti, nemmeno se lo decidessi, che il mio corpo venga toccato da quello altrui, proprio mentre lo sto toccando» (p. 37). Non si può parlare di individualismo perché la condizione di possibilità dell’io è la presenza di altre vite e di altri corpi, di un noi più ampio. In questo senso, Maurice Merleau-Ponty parla di intreccio nella sua visione fenomenologica del corpo: esso non è solo un oggetto tra gli oggetti, ma è costituito dalla sua relazione con altri corpi, e questa relazione fa e disfa il soggetto individuale. Al contempo, la mia azione è mia, ma è sempre definita da qualcosa che non sono io; fare e subire sono inseparabili, e così è impossibile pensare le individualità come distinte tra loro, «l’individualità è infatti uno stato immaginario e dipende a sua volta da forme specificamente sociali dell’immaginario […], all’individuazione, in altre parole, è sotteso il fantasma di una dipendenza immaginata come superabile o vinta del tutto» (p. 42).
A partire da queste premesse, Butler sostiene la necessità di superare l’individualismo, il nazionalismo, l’utilitarismo e chiedersi come è meglio vivere nel contesto pandemico in cui tutto è interconnesso. La risposta è ricercare una uguaglianza radicale. Attualmente, però, ci troviamo in un contesto capitalistico, in cui gli interessi e la “salute” dell’economia vengono posti al di sopra della salute pubblica. In occasione della pandemia da Covid 19, per sostenere i mercati in difficoltà sono state sospese le misure restrittive e le persone sono state costrette a tornare al lavoro, consapevoli del fatto che questo fosse rischioso per la propria salute, ma costretti a farlo per guadagnarsi da vivere. Questa è la stessa “contraddizione” che aveva riconosciuto Marx nel modo di produzione capitalistico. Il messaggio che è stato lanciato nella primavera 2022 da governi come quello britannico, presieduto da Boris Johnson, secondo l’autrice, è «che alcune persone si ammaleranno e moriranno, e anche che tutto ciò sia meno importante rispetto alla riapertura e al rilancio dell’economia» (p. 48). Inoltre, ad essere più a rischio in questa situazione, sono i più deboli, poveri, immunodepressi, anziani, e le categorie di persone emarginate, come carcerati, immigrati e afroamericani. L’utilitarismo capitalistico sfrutta i grafici che segnano le curve di andamento della pandemia a proprio favore, stabilendo un numero di morti ragionevoli, sterilizzandole, calcolando costi e benefici della riapertura. Il concetto di “mondo della vita” (Lebenswelt) esaurisce l’idea che le vite di chi lavora siano superflue, viene fatto credere ai lavoratori di aver ricevuto finalmente la libertà, quando in realtà si stanno solo dirigendo verso la morte. E la maggior parte di queste persone, considerate sacrificabili al fine di salvaguardarne altre, sono le meno avvantaggiate: in questo c’è una forma di razzismo esplicito. Siamo infatti abituati a dare «priorità al valore dei mercati a scapito di quello delle vite che permettono ai mercati stessi di continuare a funzionare» (p. 86). Le vite che vengono considerate degne di lutto, non soltanto dopo la morte, ma anche in vita, sono coloro che hanno maggiori capacità produttive ed economiche, quindi il sistema capitalistico le vuole proteggere e tutelare; al contrario, chi appartiene alla categoria di “non dignità di lutto” viene visto come dispensabile, invisibile, sacrificabile, e una volta morto non verrà riconosciuto e pianto pubblicamente. Questi gruppi di persone sono esposti a violenza istituzionale, alla possibilità di essere sfruttati e cancellati, e sono coloro che sono esposti maggiormente al rischio pandemico. Per esempio, Butler si sofferma sul fatto che «una nazione come gli Stati Uniti non pianga mai pubblicamente le vite che essa stessa uccide, ma solo quelle di chi ha la cittadinanza statunitense, specialmente se si tratta di persone bianche, ricche e sposate – e meno, invece, nel caso di persone non bianche, povere, queer e senza documenti» (p. 93). Questo genera in queste categorie di persone un senso di melanconia, perché non hanno la possibilità di affrontare la propria perdita, riconoscerla e piangerla, affrontando il lutto per poi passare oltre. Molti movimenti sociali come il Movement for Black Lives, di cui fa parte il gruppo Black Lives Matter, costituiscono però forme di celebrazione pubblica di lutto, e ciò è rilevante perché «dall’asserzione della dignità di lutto può dunque emergere un insieme concreto di proposte politiche» (p. 103).
Il libro di Butler è suddiviso in introduzione, quattro capitoli e post-fazione. Nell’introduzione l’autrice accenna ai temi fondamentali che verranno in seguito approfonditi, come il concetto di mondo e di pianeta, il tema del corpo, l’interdipendenza, la reciprocità e la fenomenologia per cercare di rispondere alla domanda portante del testo. Il primo capitolo, dal titolo Sensi del mondo. Scheler e Merleau-Ponty, ripercorre il pensiero fenomenologico di diversi filosofi, quali Scheler, Merleau-Ponty, Husserl, Landgrebe, prestando particolare attenzione al rapporto soggetto-mondo, al fine di intrecciare questi pensieri ai concetti di vivibilità, abitabilità e interrelazione. La fenomenologia quindi viene applicata comportando sul piano concettuale conseguenze etiche e politiche. Il secondo capitolo, I poteri della pandemia. Riflessioni sulla vita in lockdown, invece, si suddivide a sua volta in due parti: la prima, Climi di vita e di lavoro, riflette sul rapporto tra economia e salute e sull’incremento del razzismo come conseguenza della pandemia; la seconda, Futuri possibili del mondo della vita, tratta del concetto di intreccio di Merleau-Ponty e di come questa visione dei corpi e dei soggetti si applichi nel contesto pandemico. Inoltre, risolleva argomenti come la diseguaglianza e l’interdipendenza, proponendo soluzioni anti-utilitaristiche e globali. Nel terzo capitolo, L’intreccio come etica e come politica, Butler si propone di ripercorrere una piccola parte della tradizione fenomenologica, sia quella classica che quella critica, adottata da autrici come Young, Guenther, Salamon, Ahmed, che riflettono sulle strutture di dominio tentando al contempo di trasformarle. Successivamente, si dedica nuovamente a trattare il concetto di intreccio, che sfocia nella mutua implicazione delle vite: da questa premessa Butler evidenzia l’eguaglianza radicale tra tutte le vite e la loro interdipendenza, proponendo come soluzione quella di lottare contro le diseguaglianze e la distruzione del pianeta. Infine, nel capitolo quarto, La dignità di lutto per il vivente, la filosofa affronta uno dei temi classici della sua letteratura, ovvero la “dignità di lutto”, e si serve delle definizioni freudiane di lutto e melanconia per descrivere come le vite siano effettivamente segnate da questo tema non solo dopo la morte, ma anche in vita.
Attraverso un linguaggio semplice e diretto, talvolta filosofico, talvolta colloquiale, l’autrice intende proporre di lottare contro quei poteri che fanno facilmente a meno della nostra vita, di porre fine al nazionalismo attraverso forme globali di collaborazione per garantire a tutti una vita vivibile e il desiderio di continuare a vivere. Durante la pandemia appare chiaro che l’interdipendenza e l’interrelazione comportino dei rischi, ma la soluzione è l’interdipendenza stessa: «nel momento in cui la diseguaglianza sociale espone a una maggiore probabilità di morire precocemente, l’unica via d’accesso al futuro può essere aperta solo dall’elaborazione di una nozione più radicale e sostanziale di eguaglianza sociale, da una forma più consapevole di libertà collettiva e da una mobilitazione di massa contro la violenza» (p. 100). Vivere una vita vivibile non è una questione privata, Butler infatti insiste sulla necessità di abbandonare l’idea egocentrica dell’umano, l’individualismo volto allo sfruttamento della Terra e al profitto, e assumere un approccio di attenzione e cura nei confronti del pianeta e degli altri esseri umani. «Quale che sia il nostro impegno politico, ora, non ci si può più esimere da lottare contro queste due forme di distruzione – diseguaglianze sociali e ingiustizia climatica» (p. 87).
(23 luglio 2025)

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