giovedì , 13 Novembre 2025
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206. Recensione a: Pierfrancesco Stagi, Heidegger e Bonaventura, Edizioni Biblioteca Francescana, Milano 2025, pp. 112. (Igor Tavilla)

Pierfrancesco Stagi, direttore del Nuovo Giornale di Filosofia della Religione (Università di Urbino) e della collana «L’Umano e il Divino» (Stamen, Roma), allievo di Gianni Vattimo e tra i massimi esperti di Heidegger, ha recentemente licenziato presso le Edizioni Biblioteca Francescana un agile ma denso studio dal titolo Heidegger e Bonaventura. Il saggio, che ha preso corpo a margine dell’attività di curatela del lavoro di Emmanuel Falque, Saint Bonaventure et l’entréee de Dieu en théologie, muove dalla consapevolezza della necessità di riconsiderare la problematica del divino in Bonaventura alla luce dell’ermeneutica heideggeriana e degli sviluppi del pensiero contemporaneo. Le tre sezioni di cui il volume si compone – I. Il Dio di Bonaventura; II. Heidegger e l’ermeneutica dell’esperienza religiosa medievale; III Oltre l’onto-teologia. L’entrata di Dio in teologia a partire dal Breviloquium di san Bonaventura – sono accompagnate da una nutrita bibliografia e un indice dei nomi.
Nella prima parte del saggio Stagi affronta la questione di Dio nel Breviloquium di san Bonaventura. Concluso nel 1257, lo stesso anno in cui il suo autore fu nominato ministro generale dell’Ordine francescano, «la Summa theologiae di Bonaventura» – come scrive Stagi – si articola in sette parti, a cui con ogni probabilità si è aggiunto successivamente il Prologo, «un capolavoro di ermeneutica del testo biblico […] che ha costituito per secoli il punto di riferimento nelle discussioni sulle metodologie interpretative» (p. 19).
È sulla prima parte del Breviloquium che Stagi concentra la propria attenzione, focalizzando la questione di Dio, la realtà più nobile che l’uomo possa aspirare a conoscere. Se l’unicità di Dio è quanto la filosofia – «scienza imperfetta» – può sostenere sulla base della semplice razionalità naturale, «la teologia attraverso la Scrittura indica in tre persone distinte l’essenza stessa di Dio» (p. 31). Alla base della Trinità stanno le due emanationes di generazione – del Figlio dal Padre – e di processione – dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio. La caratteristica propria del Padre è dunque la sua innascibilità, il non poter essere né generato né proceduto, tantomeno prodotto. Da qui la sua perfezione e semplicità. Delle altre nozioni che si predicano di Dio alcune sono fondamentali, in quanto si predicano dell’intera sostanza, riferendosi a tutte le persone divine (ad esempio l’eternità), altre, come la paternità o la figliolanza, descrivono solo un modo di essere della sostanza. Altre ancora possono essere riferite in via esclusiva a un solo modo della sostanza, sebbene possano riferirsi anche a un altro modo, ma non nello stesso senso, come, ad esempio, l’essere nel tempo (che in accezioni diverse si predica tanto del Padre, quanto del Figlio e dello Spirito Santo, ma anche della creatura).
Bonaventura introduce infine una distinzione tra proprietates, determinazioni proprie in via esclusiva di una sola persona, e appropriationes le quali si predicano in senso eminente (appropriato) di una persona ma possono essere riferite anche alle altre: unità, verità e bontà. Bonaventura indica così nell’onnipotenza, nell’onniscienza e nell’assoluta provvidenza le qualità appropriate di Dio. Potenza «completa et ordinata», cioè potenza che può tutto (in linea di principio anche il male), la potenza di Dio non è subordinata ad altro all’infuori di se stessa, ma proprio in virtù del suo essere fine a se stessa, sempre orientata al bene. L’onniscienza di Dio è altrettanto perfetta, essendo conoscenza tanto del bene quanto del male, delle cose passate, presenti e future, e soprattutto ratio cognoscendi delle cose stesse, cioè «l’orizzonte stesso al cui interno le cose possono essere conosciute» (p. 42). Infine, in Dio verità e volontà non procedono mai disgiunte – non perché la volontà di Dio sia retta ma perché essa è ciò che rende retta ogni cosa. Da ciò consegue anche l’efficacia dell’azione di Dio, soprattutto in ordine alla salvezza, di cui l’uomo abbisogna per via della sua intrinseca condizione di povertà ontologica, essendo stato tratto originariamente dal nulla e non emanato dall’essere di Dio.
Nella seconda parte, Heidegger e l’ermeneutica dell’esperienza religiosa medievale, Stagi rilegge il programma del giovane Heidegger di «inaugurare un nuovo modo di leggere la filosofia medievale, principalmente la Scolastica e la tarda Scolastica, che ponesse le basi per la ricostruzione dell’intera storia del pensiero» (pp. 54-55). Heidegger è convinto che il compito della filosofia sia rivitalizzare i contenuti della tradizione, approfondendo problematiche che sono già state discusse, non già scoprire qualche nuovo oggetto di indagine. Il metodo della filosofia medievale merita particolare attenzione per la sua naturale vocazione fenomenologica – l’essere ausser sich, “presso le cose” –, che è atteggiamento intimo e irriflesso nei medievali. Il fraintendimento moderno starebbe allora nel pensare alla filosofia medievale con le categorie della modernità, astraendo dal Vollzugszusammenhang, dal contesto attuativo all’interno del quale la filosofia medievale si dispiega, un contesto che non si appiattisce sull’orizzontalità dell’esistenza ma appare caratterizzato dalla trascendenza verso l’alto.
Contro la ricostruzione storico-critica, colpevole di distruggere l’oggetto sul quale la sua attenzione si posa, Heidegger riconosce nell’esperienza religiosa vissuta un fatto originario, un Erleibnis accessibile soltanto a colui che fenomenologicamente si colloca là dove l’esperienza accade e non al di fuori di essa: «Soltanto un uomo religioso può comprendere la vita religiosa, poiché altrimenti non disporrebbe di alcun dato genuino». (p. 66). Alla neutralità scientifica Heidegger oppone l’appartenenza esperienziale, giacché l’attenzione del fenomenologo si concentra sull’attività di colui che conosce e non sull’oggetto in sé. Compito del fenomenologo della religione è dunque comprendere come una coscienza religiosa originaria si esplichi in un dato contesto. Il processo di dogmatizzazione a cui la Scolastica è andata soggetta, e di cui la mistica renana rappresenta una reazione rivitalizzante, costituisce il principale ostacolo per chi voglia portare in superficie l’esperienza religiosa autentica dei medievali. È compito del fenomenologo fare giustizia di questa esperienza, recuperando l’afflato originario che l’ha caratterizzata, al di là delle sclerotizzazioni che ad essa hanno finito per sovrapporsi inaridendone il significato.
Questa indagine, che appare innanzitutto ad Heidegger un obbligo nei confronti della propria “fatticità”, non risponde solo a un’esigenza giovanile. Come Stagi sottolinea, infatti, l’interesse di Heidegger verso la fenomenologia dell’esperienza religiosa dell’uomo medievale si prolunga in età matura nella Seinsfrage, la questione dell’essere che – ricorda ancora Stagi – «nel pensiero scolastico e tomista costituisce la modalità stessa del dire Dio (ipsum esse)» (p. 74).
Nella terza parte, Oltre l’onto-teo-logia. L’entrata di Dio in teologia a partire dal Breviloquium di san Bonaventura, Stagi prende in esame il saggio di Emmanuel Falque Bonaventura e l’entrata di Dio in teologia, saggio che si pone in linea di continuità con il progetto di Heidegger, avendo per scopo quello di indagare attraverso quali modalità Dio abbia fatto ingresso nella discussione teologica e filosofica e come esso si sia manifestato in relazione all’uomo. Il primato dell’indagine fenomenologica sta nel superare la dicotomia tra approccio razionale e religioso, tra sapere teologico e sapere filosofico. Falque è dell’avviso che la Scolastica possa «dirci molto di più su di noi di quanto noi possiamo dire su essa, in quanto essa ci può indicare, se studiata attraverso il metodo fenomenologico, una possibile via di uscita al linguaggio della metafisica, in cui siamo ancora di nuovo ingabbiati, come ha mostrato il tardo Heidegger» (p. 79). E più di tutti Bonaventura, perché portatore di una visione francescana del mondo che parla di Dio non con gli strumenti della razionalità aristotelica, ma attraverso quello che lo stesso Falque definisce il «linguaggio della carne».
Alla tomistica analogia entis, che rischia di razionalizzare ed entificare il divino, Bonaventura contrappone l’uso della metafora, la quale in virtù di una traslazione di significato, consente di rendere Dio sensibile e comprensibile in rem, nella creazione stessa quale dato fenomenologico originario, positivo e catafatico in quanto iper-pervasivo, fonte e origine di tutto. «È il libro del mondo» scrive ancora Stagi «che si spalanca davanti agli occhi del credente e lascia essere Dio stesso, perché le creature portano in sé le tracce del creatore. Nello stesso modo in cui l’esserci heideggeriano, gettato nel mondo, nella sua Geworfenheit, fa esperienza di quel Werfen, originario e nascosto, da cui proviene ontologicamente» (p. 92). L’indimostrabilità di Dio, dunque, non dipende tanto dalla sua innominabilità, come vuole la teologia negativa facente capo allo Pseudo-Dionigi Areopagita, quanto piuttosto dal suo essere sempre e ovunque dimostrato, in quanto, francescanamente, tutte le creature ci parlano di lui.
Seppur complementare a quella percorsa da Bonaventura, la via di Tommaso – esplorata da Falque nel saggio San Tommaso d’Aquino e l’ingresso di Dio in filosofia – si staglia sullo sfondo della riflessione heideggeriana sul senso della finitezza e del limite. Falque offre una lettura fenomenologica di Tommaso, dove al centro della filosofia del maestro domenicano sta la condizione dell’uomo in quanto viator, il quale solo percorrendo le strade di questo mondo e sperimentando la propria finitezza giunge a Dio. Più importante della meta è dunque il metodo, «la volontà dell’uomo di abitare i suoi limiti non in un mondo chiuso, ma aperto, rivolto a quella trascendenza da cui proviene» (p. 98). La filosofia di Tommaso consente di riconoscere questa dimensione positiva del limite, che è possibilità anche per l’oggi di restare uomini davanti a Dio, nella finitezza che Dio stesso ha scelto per l’uomo.
Il lavoro di Stagi, di cui abbiamo qui ripercorso sommariamente l’articolazione e i principali esiti esplicativi, possiede il duplice pregio della chiarezza e della profondità di indagine. Tracciando, sulle orme di Falque, una sintesi in cui le prospettive esaminate – quella di Bonaventura e di Heidegger – si intersecano e rischiarano a vicenda, senza mai dar luogo a ambiguità e confusioni, Stagi offre un prezioso strumento per riscoprire la tradizione scolastica nelle sue inesauste potenzialità fenomenologiche, rilanciando la sfida di pensare il divino da una angolazione autenticamente contemporanea, post-metafisica e post-onto-teo-logica.

(18 settembre 2025)

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