mercoledì , 16 Luglio 2025
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203. Recensione a: Enrico Giannetto, La questione della morte. Essere e tempo di Heidegger e i suoi critici, Morcelliana, Brescia 2023, pp. 228. (Lorenzo Guagnano)

L’amour, la mort. La quasi perfetta omofonia tra i due termini rivela segretamente una connessione profonda tra ciò che esprimono, una connessione che è stata forse troppo spesso fraintesa dal topos romanticheggiante del “morire per amore”. Non si muore per amore. Si muore nell’amore. Non siamo un essere-per-la-morte, come vuole Heidegger, ma un essere-per-l’amore (Binswanger): il fine dell’amore vince la palma sulla fine della morte, assume su di sé la temporalità anticipatrice dell’Esserci, la direzione e il suo senso. Esserci come essere-per-l’amore, o essere presente all’altro per amore. Ecco il tema di fondo e la grande umile verità che attraversa l’ultimo saggio di Enrico Giannetto, che sull’esempio de La chambre claire. Notes sur la photographie di Roland Barthes mostra di originarsi da uno sfondo di vissuto biografico, ma la cui esperienza personale assurge, se non a un universale o a un trascendentale kantiano, a cifra esistenziale dell’uomo storicamente determinato dalla Buona Novella messianica, nella prassi del qui e ora, senza la pretesa di una mercé ultramondana. L’opera non si riduce certamente a un diario, ma sarebbe di fatto fuori strada anche chi interpretasse il dialogo con la tradizione filosofica effettivamente condotto come l’esposizione manualistica di una storia della filosofia, cercando pertanto quel pedantismo scientifico che ci si attenderebbe da uno studio accademico. Semplicemente mancherebbe di vedere lo scopo originario di un’intenzione che è assai più ambiziosa e che coincide con la creazione di nuova vita a partire da una vérité sentie, creazione che è decostruzione di vecchie sovrastrutture teoretiche in nome di una ricerca dell’Origine.
Occorre abbandonare quella concezione della filosofia come theoria, come sapere epistemico, cioè come comprensione della realtà qualificabile solo razionalmente sulla base della ragione discorsiva (logos), che portò Edmund Husserl a declassare come religioso il pensiero orientale in quanto, a suo dire, puramente mitico: ironicamente, la filosofia e la scienza, sorte in opposizione al mythos, sono da sempre state radicate nel mito (Spengler, De Santillana), e innanzitutto proprio nel mito che riconduce la verità oggettiva a uno sguardo completamente distaccato da interessi pratici o affettivi. Non è che un mito antropologico a tutti gli effetti: l’occhio dell’intelletto deve distaccarsi dalla soggettività come la “visione di dio” (theoria = theos + horao) – di un dio astrale posto a distanza dalla Terra come una stella o una costellazione – appare distaccata dalle dolorose vicissitudini mondane. La verità viene così fatta dipendere dallo sforzo di imitare l’imperturbabilità e immutabilità divina come emblema di una perfezione (letteralmente) più alta. Da una homoíosis theô. L’immaginario del distacco del dio astrale produsse il chorismós, la frattura di tutti i dualismi, tra archetipi e cose, ragione e sensi o sentimenti, anima e corpo, vita contemplativa (bios theoretikós) e vita attiva (bios praktikós), che non fanno che riflettere la divisione sociale tra uomini liberi, studiosi e divinamente facoltosi, e schiavi dediti al lavoro pratico e manuale. Il distacco teoretico implica un non-agire anche di tipo etico, uno “stare a guardare” come distacco emotivo dalle sofferenze non solo proprie ma anche altrui: di qui deriva l’etica greca, egoistica e non relazionale (Schweitzer), della spassionatezza stoica (apatía), della tranquillità epicurea (atarassía) e dell’eudemonismo socratico, per rispettare la cui validità, come notò Nietzsche, Platone ha dovuto postulare una “immortalità” che adempisse la promessa di una ricompensa al bene compiuto nel mondo, dove questa promessa potrebbe non essere mantenuta. Da un lato, poiché, come ha spiegato Guido Calogero, questa ricompensa consiste in un piacere o beatitudine individuale, non è che un tornaconto utilitaristico; dall’altro, questa concezione induce a rimuovere la morte, de-tragicizza il destino del trapasso, anzi lo desidera (meléte thanátou) come momento del definitivo distacco dalle affezioni corporee di un’anima sostanziale capace di vedere il Sole della verità. Si afferma una “cura di sé” (epiméleia heautoú), una cura incurante della relazione affettivo-emotiva con l’altro, che oltre alle “tecnologie del sé” (Foucault), oltre a un’ascesi spirituale per conoscere se stessi, può contemplare esteriormente una prassi etica, ma unicamente a vantaggio della propria salvezza personale. Anche il Buddhismo Hinayana mira a una liberazione dal dolore, a un’estinzione dell’Io, ma non un’estinzione nell’altro, dal momento che l’amore attivo implica quel dolore. La sua compassione (karuna) risulta perciò falsa e altezzosa.
Al contrario, nel Cristianesimo, Dio non è distaccato, ma scende sulla terra e si fa prossimo, partecipando alla sofferenza e alla morte di tutte le sue creature soffrendo e morendo esso stesso per loro: il “pensiero di pensiero”, autoriflesso, diventa azione d’Amore verso tutto il creato, anche al sacrificio di rinunciare alla perfezione a favore della mancanza. (Madre di Eros è Penìa.) Ebbene, noi siamo chiamati all’imitazione di Cristo (Yeshua). Giannetto sembra invitarci a completare la rivoluzione francescana avviata nel 1277, allorquando il vescovo di Parigi condannò come incompatibili con il Cristianesimo originario diverse proposizioni filosofiche, invertendo la rotta nel processo di ellenizzazione delle Scritture ebraico-cristiane intrapreso a partire dalle loro traduzioni fino alle teologie metafisiche di Sant’Agostino e San Tommaso. Al di là di ogni dogma teorico e speculativo, bisogna accettare la realtà della sofferenza e della morte per dire sì alla vita. Chi non ha conosciuto la sofferenza non ha conosciuto la vita. Come la morte dà senso alla vita, così la morte riceve senso dall’amore che è vera vita oltre la vita dell’individuo e oltre la morte, quando l’io muore a se stesso per avere donato la propria vita all’altro. Per una circolarità transitiva, è l’amore e solo l’amore che riempie di senso la vita. “Nel morire per gli altri, si vive negli altri” (p. 59): si vive ancora presenti agli altri amati e amanti come parousia reale. La propria morte angoscia solo se c’è qualcuno, un “io” amato, che deve morire. Ma se si è donato tutto se stessi agli altri per amore degli altri, non rimane “nessuno” che debba autenticamente morire. Per superare l’angoscia si deve imparare ad amare, più di se stessi, la vita sovra-individuale che continua dopo la propria morte e grazie alla propria morte. Vivendo negli altri, si muore con la loro morte, ma si permane nell’amore della loro eterna presenza.
Il lettore può quindi avvedersi che la morte è sempre stata finora esclusa come forma di conoscenza in quanto non consente quel distacco emotivo richiesto a una presunta natura razionale del sapere. Giannetto mostra invece che il coinvolgimento affettivo-emotivo è in tutti i casi una fonte di conoscenza ineliminabile e più che mai si rivela tale se sfocia in una forma di “unipatia cosmica” (Scheler) capace di manifestare quella dimensione di senso che conta più di ogni altra cosa al mondo. In questa cornice introduttiva, che è per lo più il compendio della filosofia della vita e di una vita (della vita dell’Autore), si sviluppa la critica a una gran parte dell’esistenzialismo ateo del Novecento, colpevole di aver secolarizzato la tradizione cristiana, a sua volta distante dal messaggio originario di Gesù nella misura in cui anch’essa, come la filosofia occidentale, guarda rivolta alla Grecia antica. Giannetto è forse meno drastico di Jean Wahl, il quale in Subjectivité et transcendance (1937) distingueva una filosofia esistenziale basata sull’esperienza (Kierkegaard e Nietzsche) dalle filosofie dell’esistenza, dove l’esistenza non è vissuta ma fatta oggetto di ermeneutica (Heidegger e Jaspers): almeno in linea teorica, Heidegger riconosce che si comprendono le cose solo facendole e vivendole. Tuttavia, è ben lungi dal vivere l’esistenza con le stesse drammatiche contraddizioni di Kierkegaard: l’ontologia fondamentale dell’Esserci, come analitica fenomenologico-trascendentale, non si risolve nella vita, come non si risolve nella poesia (Blanchot), ma si limita in entrambi i casi a un commento distanziato e concettuale. Perciò non arriva a vedere la “tonalità emotiva fondamentale” nell’amore. Nel paragrafo 26 di Sein und Zeit (1927) scopriamo che effettivamente la Cura (Sorge) non è amore, non è un prendersi cura etico, ma l’avere-a-che fare con l’ente utilizzabile intramondano o l’aver cura di enti diversi dai mezzi utilizzabili (gli altri Esserci) nel con-Esserci. L’altro si incontra nel mondo pratico del lavoro, come colui/colei a cui l’opera del proprio lavoro è destinata: è co-incontrato come mero utilizzatore (o consumatore). Il prendersi cura è un “commercio”. Persino laddove Heidegger riconosce come forma dell’aver cura il fornire nutrimento e abbigliamento per la cura di un infermo, pensa all’opera di un’organizzazione sociale assistenziale. L’essere l’uno per l’altro, come l’essere contro o senza l’altro, non è che un modo difettivo dell’aver cura dettato da una “urgenza empirica”. Modi positivi dell’aver cura sono invece unicamente lo sgravare l’altro di un còmpito assumendolo su di sé (atto con cui non si fa che rimarcare tacitamente il proprio predominio) oppure il rimettere autenticamente l’altro al suo còmpito-cura e alla sua libertà. Contro la diffidenza si ammette solo banalmente una sorta di lavoro di squadra (“l’impegnarsi insieme per lo stesso obiettivo”). Gli altri “si manifestano nella loro particolare maniera di essere nel mondo a partire da ciò che è utilizzabile in esso”. L’Esserci è in-vista degli altri, ma “questa affermazione dev’essere intesa nel suo essenziale significato esistenziale”. Poiché il Mit-sein indica non una semplice compresenza come sommatoria di soggetti partes extra partes, ma una relazione originaria, una struttura esistenziale per l’appunto, l’apertura dell’altro non può avvenire, in senso teoretico-psicologico, nella modalità dell’empatia, come ponte tra soggetti chiusi. “L’empatia non genera originariamente il con-essere; essa è resa possibile da quest’ultimo ed è motivata dai modi difettivi del con-essere che generalmente predominano”. L’empatia, così come la conoscenza teoretica, può derivare da un coinvolgimento pratico nel mondo a priori non affettivamente orientato all’etica. Ora, è sintomatico che lo stesso Heidegger si accorga di essere a una impasse: finché non si proverà che l’essere in rapporto con se stesso da parte dell’Esserci è lo stesso che l’essere in rapporto con l’altro (come se l’altro fosse un doppione di sé) “resterà sempre enigmatico in qual modo il rapporto dell’Esserci a se stesso possa aprire quello all’altro in quanto altro” (corsivo nostro). Nel paragrafo successivo, dedicato al “Si impersonale”, Heidegger poi approfondisce l’affermazione per la quale “gli altri sono quelli dai quali per lo più non ci si distingue”. L’Esserci che si rapporta agli altri “non è se stesso”. Occorre allora tornare a sé, a una socratica “cura di sé”, poiché l’Esserci è “meità” (Jemeinigkeit).
Alla luce di ciò si comprende come Giannetto, replicando all’interpretazione dell’ontologia heideggeriana come “etica originaria” (Jean-Luc Nancy), possa sostenere che la cura del Dasein altro non sia che un avere-da-fare “maneggiante e usante” dove l’Esserci è pre-occupato innanzitutto della propria autosussistenza e realizzazione. Seguendo le obiezioni di Wilhelm Koepp e Karl Löwith, l’estasi temporale del non-ancora che costituisce la Cura e che l’Esserci anticipa costituendosi come temporalità non è più da considerarsi la morte, bensì l’intenzionalità dell’amore. Questo cambia tutto. Giannetto ricorda l’invito di Gesù in Matteo 6.25-34 come indicazione di un’esistenza davvero autentica (o per così dire “allotria”): guardate i fiori del campo e gli uccelli del cielo! Essi, nella loro vulnerabilità, non si preoccupano per il domani ma si abbandonano alla cura di Dio. Non seminano e non mietono. È in altre parole un invito a sospendere la produzione tecnica, l’accumulo e il lavoro con cui si viola la Terra. Non è certo un appiattimento all’effettuale istante presente, ma una “protensione”, che è un protendersi verso il Regno di Dio, verso un ethos di vita nel mondo in cui la rinuncia a sé rende possibile la cura di tutte le altre creature nell’assunzione del loro soffrire: non un’attesa escatologica, ma un protendersi verso gli altri, un darsi-da-fare per gli altri. Se si esclude l’amore rivolto alla singolarità di un volto, a un Tu umano o non umano, interpretando come autentica solo l’anticipazione della propria morte (Heidegger non discerne, come esperienza inautentica della morte, la morte di un Tu familiare dalla morte di un generico altro), ciò che rimane è un soggetto affettivamente distaccato contrassegnato dalla finitezza, cioè dalla chiusura in se stesso e dalla forma finita della temporalità esistenziale che questo carattere di non-apertura all’alterità implica: quanto rimane è un io destinato a morire, da solo, non potendo continuare a vivere nella vita degli altri come non ha potuto accogliere e far vivere gli altri nel suo amore.
L’amore illimitato fa morire la morte e supera la finitezza. L’angoscia come tonalità emotiva esistenzialmente fondamentale vale perciò solo per l’uomo che la Grazia-Amore non ha redento dal peccato. Una futurizione redenta non si basa sull’angosciosa progettualità (dal sapore vagamente imprenditoriale), bensì sulla gioiosa speranza (Bloch, Moltmann). Ma Heidegger non riconosce neppure la possibilità in generale di una redenzione immanente dall’angoscia, laicizzando e naturalizzando la colpa originaria come co-appartenente all’uomo come tale. Ne procede forse un residuo di nichilismo: l’Esserci si definisce come il nullo fondamento di una nullità, l’essere che gli si dischiude è di fatto un ni-ente (mentre invece, come ha insegnato Bergson, il nulla non è che un’astrazione metafisica). Infine, ha ragione Jacques Derrida: Heidegger riprende la visione antropocentrica di Scheler, che riproponendo il dualismo cartesiano distingue l’esistenza umana dalla semplice vita degli animali. Solo l’uomo possiede linguaggio, essere, mondo e tempo. Solo l’uomo esiste: di conseguenza, solo l’uomo muore. Gli animali non muoiono, cessano di vivere. Se non muoiono si può sopprimerli senza ucciderli. In realtà, nascondendo la violenza, li si uccide. L’ipseità egoica si auto-comprende dunque come essere-per-la-morte (Sein-zum-Tode) in un duplice senso: è mortale per sé poiché destinata a morire ed è mortale per gli altri poiché inclinata a uccidere estrovertendo la sua “pulsione di morte”.
L’Autore, benché non lo dichiari, si inserisce a pieno titolo tra i critici di Heidegger, i quali in varia misura hanno saputo cogliere le “rivelazioni della morte” (per riprendere un titolo di Šestov) nella prima lettera di San Giovanni (3.14): “chi non ama rimane nella morte”, chi non ama muore continuamente anche da vivo. Separato. Sostenere che la morte è un im-possibile, come ritengono Lévinas e Blanchot, non significa tuttavia negare la morte. Anzi, è vero l’esatto contrario. È piuttosto la morte hedeggeriana come possibilità eminente dell’Esserci, come sostanzializzazione della dynamis aristotelica, che positivizza il morire rendendolo disponibile a una rappresentazione appropriativa, con cui il soggetto può dominare e addomesticare il suo evento. La morte non è tra le possibilità del nostro agire, pone fine a ogni possibilità, de-sovranizza l’uomo nel suo essere impadroneggiabile. È proprio l’irriducibilità della sofferenza e della morte altrui (che mi riguarda e che assumo su di me, “sostituendomi” all’altro) che fonda l’ecumene del con-essere-nella-morte trasfigurata nell’Agape. Non una morte mistica dove l’Altro è Dio, ma un’affermazione della vita di tutta la Natura che squaderni, con i versi di Rilke, l’immenso poema del mondo, “nello sguardo vòlto all’Aperto”.

(24 giugno 2025)

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