mercoledì , 16 Luglio 2025
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196. Recensione a: Paolo Stellino, Nietzsche sullo schermo. Saggi di filosofia del cinema, Meltemi, Milano 2025, pp. 272. (Efrem Trevisan)

Gli scritti di Friedrich Nietzsche hanno esercitato una grande influenza in molteplici ambiti del sapere novecentesco: l’idea di Übermensch si ritrova – seppur in modo travisato – nelle opere di Gabriele D’Annunzio; la frammentazione dell’“io” descritta in Così parlò Zarathustra contribuisce allo sviluppo della psicoanalisi freudiana; i temi del nichilismo e della morte di Dio interessano autori come Albert Camus e Martin Heidegger; numerosi argomenti nietzschiani trovano una raffigurazione nei dipinti di Giorgio De Chirico. In questo libro, Paolo Stellino indaga l’importanza della filosofia nietzschiana per la settima arte. Questa indagine è necessaria, infatti, «se gli studi dedicati all’influsso di Nietzsche sulla letteratura del Novecento abbondano […], quelli dedicati all’influsso del filosofo tedesco sul cinema scarseggiano» (p. 10). Nel volume, Stellino – fatta eccezione per il capitolo su Rashōmon, scritto ex novo – riprende e rielabora lavori già pubblicati in riviste e collettanee, percorrendo un itinerario poco battuto negli studi nietzschiani.
Il punto di partenza di Stellino è un aneddoto: durante una masterclass tenuta in Sardegna nell’estate 2018, infatti, il regista francese F.J. Ossang affermò che i libri più importanti sul cinema mai scritti erano i Dialoghi sul cinematografo di Jean Cocteau e La nascita della tragedia di Nietzsche. La citazione di quest’ultima opera solleva una questione complessa: è possibile fare filosofia attraverso il cinema? A questo interrogativo è dedicato il primo capitolo. Non è facile rispondere a tale quesito, considerando soprattutto i pregiudizi di alcuni filosofi come Clément Rosset; ma, come ricorda Stellino: «i filosofi hanno adottato le più svariate forme per veicolare il contenuto delle loro riflessioni teoretiche, non disdegnando il poema (Parmenide ed Empedocle), le lettere (Epicuro, Seneca e Cartesio), le confessioni (Sant’Agostino e Rousseau), le massime (i moralisti francesi), i pensieri (Pascal), gli aforismi (Nietzsche e Cioran) e persino il romanzo (Voltaire, Sartre e Camus)» (p. 22). Il libro fa suo questo fatto, non dimenticando l’antico insegnamento socratico-platonico-plotiniano secondo cui esiste una stretta relazione tra pensiero e immagine.
Il primo film preso in esame da Stellino è F for Fake, uscito nel 1973 e diretto da Orson Welles. In questa pellicola, il regista statunitense mostra la potenza che può avere il falso: Welles stesso, infatti, narra le vicende di Elmyr De Hory e Clifford Irving, due celebri falsari del XX secolo. Come nota Stellino: «Welles utilizza le loro storie come spunto per meditare su questioni rilevanti come l’essenza dell’arte e del cinema, la relazione tra realtà e illusione o tra verità e falsità […]» (pp. 67-68). Il film si presenta come un continuo intreccio tra vero e falso, ottenuto grazie a un abile uso degli strumenti di montaggio; così facendo, Welles assume il ruolo – oltre che di regista – anche di artista. A tal proposito, è interessante ricordare ciò che scrive Gilles Deleuze in L’immagine-tempo. Cinema 2: «Solo l’artista creatore porta la potenza del falso a un grado che si effettua non più nella forma ma nella trasformazione» (G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Einaudi, Torino 2017, p. 171). Questo passo richiama l’idea di artista come creatore di verità che Nietzsche espone in Su verità e menzogna in senso extramorale; tuttavia, la verità di cui parla il filosofo tedesco non deve essere intesa in senso oggettivo (come voleva il Positivismo) ma relativo: ciascuno di noi, infatti, elabora una visione della realtà in base alle proprie categorie intellettuali e culturali; in questa operazione, che Nietzsche definisce estetica, si sviluppano più verità che, però, risultano false rispetto a un’ipotetica pretesa di conoscenza oggettiva del mondo. Tale operazione è analoga a quella del montaggio cinematografico di Welles, in cui «[le] prospettive si mescolano e si confondono, finché lo spettatore, disorientato, non è più in grado di giudicare la veridicità di tali prospettive. Tutto è vero, niente è vero» (p. 83). Questo è ciò che accade anche in Rashōmon, pellicola giapponese del 1950. Nel film, il regista Akira Kurosawa – attraverso la narrazione di un omicidio e il successivo processo in cui gli accusati forniscono la loro testimonianza – dà un esempio di quello che è noto come prospettivismo nietzschiano, rintracciabile nella massima: «Non esistono fatti ma solo interpretazioni». Questa affermazione, come detto in precedenza, non conduce Nietzsche a una concezione relativistica: con la trama di Rashōmon, infatti, siamo «di fronte a diverse versioni dell’accaduto che non coincidono tra di loro. La verità scompare per fare spazio a molteplici interpretazioni […]» (p. 98); poiché è impossibile avere un accesso immediato alla realtà, l’unico atteggiamento proficuo da assumere è quello di aprirsi a un’epistemologia prospettica e plurale, andando al di là della pretesa di oggettività. Riprendendo le parole di Marcello Veneziani in merito al pensiero di Nietzsche: «Non è relativismo, ma poligonia della vita, varietà di aspetti e di propositi, di percorsi e di esperienze rispetto al monoteismo della verità» (M. Veneziani, Senza eredi. Ritratti di maestri veri, presunti e controversi in un’epoca che li cancella, Marsilio, Venezia 2024, p. 92).
Oltre alle tematiche epistemologiche, Stellino affronta anche gli aspetti morali della filosofia nietzschiana. In merito a ciò, l’autore prende in considerazione due film: Nodo alla gola (1948), con la regia di Alfred Hitchcock, e Parasite (2019), diretto da Bong Joon-ho. Il primo è la narrazione di un delitto che trova giustificazione in un’idea filosofica: due ragazzi, Brandon e Philip, strangolano un loro coetaneo, David, in nome della gerarchia sociale dettata dal superuomo nietzschiano in opere come Al di là del bene e del male e la Genealogia della morale; in quest’ottica, la morte di Dio e l’avvento del superuomo creerebbero un mondo in cui ogni tipo di violenza è permesso. In realtà, la lettura hitchcockiana risulta alquanto superficiale, influenzata soprattutto dalla volontà di collegare l’Übermensch alle opere di Fëdor Dostoevskij. Nietzsche si sarebbe ispirato all’uomo straordinario descritto da Raskòl’nikov in Delitto e castigo, andando a legittimare sia la violenza auto-inflitta di Kirillov ne I demoni sia quella verso gli altri de I fratelli Karamazov. Questo non è vero, poiché «Nietzsche non afferma mai nei suoi scritti che gli individui superiori abbiano il diritto di dare a se stessi “la facoltà di andare oltre il sangue”, così come sostiene Raskòl’nikov» (p. 173). Parasite, invece, racconta la storia dei Kim, famiglia sudcoreana che, accecata dal risentimento e dall’invidia, vive alle spalle della famiglia Park attraverso una serie di inganni e sotterfugi. Le dinamiche del film richiamano non solo il punto di vista degli schiavi che Nietzsche espone nella prima parte della Genealogia della morale ma anche la psicologia dell’uomo del sottosuolo delineata da Dostoevskij nelle Memorie dal sottosuolo. Il filo conduttore che lega le tre opere è proprio il risentimento provato dai protagonisti: intellettuali come Max Scheler e Jean Améry hanno ben analizzato questo fattore psicologico, notando come esso sia alla base di molti precetti morali. Il triplice confronto proposto in questo capitolo è un altro ottimo esempio dei legami che possono sussistere tra cinema e filosofia.
L’ultimo esempio fornito da Stellino è Il cavallo di Torino. In questo film, uscito nel 2011 e diretto da Béla Tarr, si possono rintracciare tre temi nietzschiani: la morte di Dio, l’eterno ritorno e il nichilismo. Tarr – ispirandosi al saggio Legkésőbb Torinóban dello scrittore ungherese László Krasznahorkai – elabora il film a partire dall’episodio di Nietzsche che abbraccia un cavallo nel capoluogo piemontese. Nell’opera, il nome del filosofo tedesco viene fatto solamente una volta, nel prologo; tuttavia, la sua influenza è riscontrabile durante tutta la storia: la struttura circolare della vicenda richiama l’aforisma 341 de La gaia scienza; l’episodio di Bernhard che fa visita a Ohlsdorfer e sua figlia presenta analogie con quello in cui l’uomo folle annuncia la morte di Dio; infine, le vite di Ohlsdorfer e sua figlia, volte alla mera sopravvivenza biologica, sono un chiaro riferimento al nichilismo nietzschiano.
Una menzione particolare la merita il quarto capitolo. Qui Stellino si concentra su Paese del silenzio e dell’oscurità (1971) di Werner Herzog. In questo film emerge il tema della comprensione dell’altro: il regista tedesco, infatti, analizza la percezione del mondo di Fini Straubinger, donna sordocieca che si fa portavoce delle persone con la sua stessa disabilità affinché possano uscire dalla loro condizione di isolamento. Tutto ciò porta all’attenzione il problema della comunicazione tra soggetti che non possiedono i mezzi per poter interagire reciprocamente; come evidenzia lo stesso Nietzsche in Su verità e menzogna in senso extramorale: «L’insetto o l’uccello percepiscono un mondo del tutto differente da quello umano». La relatività esposta dal filosofo fa sì che un criterio comunicativo assoluto non possa esistere. Tale tematica – oltre a richiamare il prospettivismo trattato nei primi capitoli – apre a questioni morali e linguistiche: essa appare in Cosa si prova ad essere un pipistrello? di Thomas Nagel, nelle Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein, ne Il visibile e l’invisibile di Maurice Merleau-Ponty e, in termini più pedagogici, ne I sommersi e i salvati di Primo Levi e La specie umana di Robert Antelme. Il film di Herzog è, probabilmente, quello che meglio rappresenta la portata filosofica che un prodotto cinematografico può avere.
Ritornando alla questione cardine dell’opera – ovvero se sia possibile fare filosofia attraverso il cinema –, la risposta di Stellino è affermativa: il percorso tracciato dimostra chiaramente come molte opere cinematografiche siano in grado di veicolare contenuti filosofici. Il libro menziona vari autori come, ad esempio, Stanley Cavell, Thomas E. Wartenberg e Andrej Tarkovskij che, nel corso degli anni, hanno pubblicato importanti studi in merito alle correlazioni tra questi due ambiti, avvalorando ulteriormente la tesi dell’autore. Inoltre, Stellino problematizza il rapporto tra i vari film e la filosofia di Nietzsche, non accontentandosi di evidenziare le analogie tra i due, ma sottolineando anche le riletture (a volte fuorvianti) che i registi hanno operato sul pensiero nietzschiano, il tutto con grande chiarezza e rigorosità. Terminata la lettura di questo libro si avrà una consapevolezza: la filosofia può essere fatta e trasmessa attraverso qualsiasi mezzo – sia esso orale, scritto o visivo –, ulteriore prova dell’universalità di questa disciplina.

(21 maggio 2025)

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