In questa recensione vorrei introdurre un argomento di riflessione a partire dal libro di Rocco Ronchi Il canone minore. La domanda guida è: può Vladimir Jankélévitch, in qualità di filosofo bergsoniano, qualificarsi come pensatore “minore” al pari di Bergson e di bergsoniani (consapevoli o inconsapevoli) come James, Whitehead e Gentile? E se sì, in quali forme? Non basta constatare l’opposizione nominale di Jankélévitch a filosofi mainstream come Heidegger, Sartre, Kant, e neppure la sua relativa marginalità. Bisogna vedere come questa opposizione si incarni anche nella sua filosofia.
Inizierei da qui: a differenza del thauma aristotelico come inizio della filosofia e dell’indagine del sapere, come logos vigile e consapevole, il sublime (nel suo rimando al “limite” e alla “soglia”), aperto dall’imprevedibile sorpresa (explexis), marca un fuori-da-sé (exstasis). Ora, se appare chiaro lo sfondo mistico, siamo altrettanto autorizzati a pensare, almeno metaforicamente, a uno sfondo estetico e in particolare “musicale”? Il sublime è originariamente categoria estetica nel trattato dello Pseudo-Longino e lo stordimento del “colpo”, nello stupito-intronato (*s/tup = “battere”), farebbe pensare all’immediata tangenza del suono nell’atto percussivo: «Nel lessico giornalistico della boxe lo si dice groggy, “suonato”: la metafora acustica indica che qui la rappresentazione, che è visione a distanza, lascia il posto a un contatto invasivo e senza distanza quale è quello del “suono”. Mentre il thauma del thaumazein predispone al sapere e alla domanda, il plege dell’explexis sublime istupidisce» (p. 96). La natura del sublime nella sua passività non è dunque teorematica, bensì patetica. Jankélévitch con Schelling avrebbe parlato di “tautegoria”: «To thaumaston è segno o, meglio, fa segno, ma è un segno autoriflessivo: è un segno di sé, segno del proprio accadere come segno e non segno per un significato. Non mira a trascendersi e a cancellarsi nella cosa che dice, non presenta l’oggetto (enargheia), ma presenta se stesso, l’atto di presentazione […] ci interessa sottolineare non il riferimento semantico del segno, che cosa ha avuto luogo, ma il suo aver avuto luogo, il suo that, il suo “che”». (p. 97). Lacan dice giustamente che dal significante ci si sposta alla lettera, al puro sentire. Nel mero istante del colpo traumatico si accede all’esperienza pura di un eterno presente (“campo trascendentale”), condizione di possibilità perché derivi a posteriori l’esperienza come correlazione duale tra soggetto e oggetto, tra la realtà (mondo o fenomeno) e una coscienza-io, come intenzionalità, cioè esperienza sensibile di qualcosa e di qualcuno. In termini kantiani, l’esperienza pura è un’intuizione cieca senza concetto, intuitus originarius (qui possibile come “impressione”). In termini hegeliani, un “vuoto intuire”. In termini bergsoniani, una percezione pura dove la materia-immagine si caratterizza come grado zero di coscienza, prima della coscienza intenzionale e della finitezza dell’io: una percezione di per sé non umana né trascendente, ma impersonale e infinita, che offuscandosi nello psichico individuale si manifesta come “scena primaria” (Freud), inconscio atemporale e utopico, simultaneità preriflessiva e automatica.
Si arriva a un punto centrale della “linea minore” (come empirismo radicale): l’esperienza pura è il reale in sé, indica una decentralizzazione del soggetto. Ci si risveglia dal “sonno antropologico”, dall’umanismo che poneva il Dasein come ente eccezionale dotato di un primato (lo svelamento dell’on). La linea minore realizza la “rivoluzione copernicana” invano tentata dalla linea maggiore: la Terra, l’uomo, non è più centro del cosmo, ma un derivato, un accidente della natura. Con la naturalizzazione dell’uomo, insieme all’antropocentrismo crolla l’antropomorfismo che permise di umanizzare la natura con concetti metaforici. Si tratta dunque, come vuole Foucault in La pensée du dehors, di esteriorizzare radicalmente la coscienza nel reale o, per così dire, di far scomparire l’uomo. Jankélévitch vede così in Debussy la «cancellazione della figura umana» (La musica e l’ineffabile, 2001, p. 30): «nella Mer il volto della persona umana è completamente scomparso» (ivi, p. 32). «Il Dialogue du vent et de la mer copre la voce dell’uomo» (ivi, p. 45). «En cela du moins Debussy serait proche de Bergson. Ce retour aux choses elles-mêmes, ad res ipsas, à l’ipséité de chaque objet n’a-t-il pas quelque rapport avec la philosophie de la “perception pure”, et même avec l’“intuitivisme” d’un Nicolas Losski?» (Debussy et le mystère de l’instant, 2019, p. 196). Il realismo mistico russo si oppone all’interiorità romantica e sentimentale: «la réalité animale a chassé l’idéalité humaine» (ivi, p. 199). Al compiacente ego sostanzializzato si oppone l’incosciente innocenza del puro apparire transfenomenico. «L’innocente coincide col suo oggetto in un grande movimento di simpatia extralucido. È il caso di quella sorta di estasi che Bergson chiama percezione pura» (Da qualche parte nell’incompiuto, 2012, p. 66). Quasi come, direi, un attore che arriva a immedesimarsi pienamente nel personaggio, così anche Debussy, secondo Jankélévitch, sembra identificarsi con i soggetti della sua poetica, fino a coincidere con il tutto. Scrive Jankélévitch in La vita e la morte nella musica di Debussy (2024, p. 75): «Claude Debussy dimentica se stesso, Claude Debussy non c’è più! Claude Debussy coincide estaticamente con la notte e con la luce, con la luce di mezzodì e con le tenebre di mezzanotte. Egli è di volta in volta pesce d’oro, elefante di feltro e generale dei Pulcinella, danzatrice di Delfi e danzatrice con i crotali, pagoda in Cina, limone a Capri e piccola nuvola nell’azzurro, Samuel Pickwick, Little Shepherd e Grain-de-Sénevé. È quel grande albero che trema nel cielo, è maschera e fantoccio. Per dirla tutta, egli è Pan, questo «dio del vento d’estate», a cui Novak consacra uno dei più grandiosi poemi cosmologici di tutta la letteratura pianistica. Egli è Pan, è l’universo delle creature. Questa cancellazione del soggetto nell’oggetto è senza dubbio ciò che, con Jurij Kremlev, conviene chiamare Realismo».
È merito di Ronchi aver individuato in Bergson uno schema analogo a quello plotiniano (ma più sottile), che vede in gioco due tropismi nell’accadere degli enti (teoria della doppia attività): un infinito attuale (negativo, direbbe Cusano), che è la semplicità assoluta dell’Uno (complicatio), e un infinito potenziale (“privativo”), come molteplicità potenzialmente illimitata, varietà imperfetta, differenziazione numerica, explicatio (“svolgimento”). L’Unità genera i Molti, li co-implica. Di più: per una sorta di contraddizione che sfugge alla ragione, inesplicabile quanto una trinità non dogmatica e priva di relazione e di terzo interposto, tra l’Unità e i Molti si dà un’identità immediata e allo stesso tempo una differenza di natura che sottrae l’Unità a ogni empiricizzazione (nel senso dell’empirismo classico, “filosofia terza” secondo Jankélévitch). Unitas multiplex. Monismo è pluralismo, e viceversa. (Lo stesso paradosso dell’assoluta trascendenza di Dio e dell’immanenza assoluta, dell’assoluto separato e dell’assoluto inclusivo, si dà in Bruno.) Concretamente questo significa che l’essere dell’Uno consiste nel suo comunicarsi, nel suo essere atto in atto: l’Uno è attualizzazione, ma non è riducibile a nessuna delle sue attualizzazioni. Dio è l’accadere del mondo: è creazione, non il creatore. Come causa non può che produrre effetti, necessariamente: è simultaneo ad essi. Come tale, l’Uno non è. Considerato in sé, separato dai Molti, l’Uno sovraessenziale (hyperousia, sopra-essere) sarebbe un mero “non-essere” (atto purissimo di far-essere senza essere, direbbe Jankélévitch). L’Uno non cade nel nulla della materia, ma “è” di per se stesso niente. In questo senso Jankélévitch parla di meontologia e di teologia negativa. Il totalmente altro, come trascendenza in sé che si sottrae misteriosamente al pensato concettuale e al dire apofantico, è “néant”. «La tendenza, diceva [Bergson], non è niente senza per questo essere un nulla (nihil) […] Essa [l’unità della tendenza] ha dunque la massima realtà – è la realtà del virtuale – senza avere, in quanto tendenza, essere alcuno» (pp. 268-269). «L’absolu est comme un sur-rien. C’est un non-être par excès et non par défaut» (V. Jankélévitch, Cours sur l’immédiat, 07/12/1959). Bisogna insomma tener ferma la distinzione tra processo (processio, proodos), durata, élan vital, atto del vivente (anima mundi?), virtualità come totalità aperta, mostruosa spontaneità creatrice, energheia teleia, dynamis, assoluto, immediato, mouvant, movimento in sé (tutti concetti che vanno ad ampliare l’idea di esperienza pura reale al di là dello psichico umano), da una parte (l’Uno), e il divenire come kinesis, contingenza, precarietà, mancanza, tensione desiderante, passaggio dal nulla e dal poter-essere all’apparire, successione spazio-temporale di istanti puntuali che misurano i movimenti e gli arresti di un mobile, dall’altra (il mondo apparente, che Ronchi definisce intellettuale, astratto). Risulta chiaro che l’idea di simultaneità ed eternità intemporale in Jankélévitch, come in Fauré-Fremiet, deriva (sorprendentemente per il lettore medio di Bergson) dalla durata stessa bergsoniana nel senso detto: come permanenza. Sub specie aeternitatis = sub specie durationis. Sembra in parte riavvalorata la tradizione antica, da Parmenide (l’essere come sfera dal raggio infinito) a Spinoza (la natura naturante); ma l’eterno non è una res immobile, non è statico, ma viva attualità dell’evento.
Ora, è possibile immaginare una durée musicale? Se la durata è praxis, e la praxis si oppone risolutamente alla poiesis su cui batte spesso Jankélévitch, che non è solo lavoro operaio ma anche più nello specifico creazione artistica, la risposta è negativa. In generale, poiesis indica un qualsiasi fare produttivo umano (servile per i greci), ed è per questo che una qualsiasi rêverie estetica difficilmente può conciliarsi con una filosofia della natura e del reale, pena il ricadere in un antropomorfismo. Tutte le immagini tratte dalla demiurgia e dall’artigianato, dal Dio artefice al Dio orologiaio, sono inadeguate. Ma se il fare umano è tecnico e l’operazione tecnica è più in generale natura vivente, poiché l’uomo è parte della natura (è naturalmente tecnico: Sini, Simondon), allora anche la poiesis risulterebbe naturale. Le immagini tratte dal mondo del lavoro non possono antropomorfizzare la natura se l’uomo è già natura (a meno che le immagini della poiesis siano riconducibili ai fenomeni del mondo coscienziale che rappresentano e distorcono il reale). Nella poiesis sembra residuale la concezione di una diversità tra l’uomo e la natura. Forse il genio umano non è un secondo creatore, ma asseconda quell’unico processo di creazione. Si capisce da ciò come Jankélévitch intenda la poiesis (classico termine per la creazione d’arte) come praxis. La poiesis jankélévitchana, come la praxis, ha il telos immanente nel suo stesso esercizio: la perfezione della musica consiste nell’esecuzione e nell’ascolto, nel fare performativo, e non in giochi di scrittura sul pentagramma! Di qui l’importanza data al genere dell’Improvvisazione, di contro alla visualità logico-spaziale e alle architetture della riflessione (alla contingenza dell’idea, che l’artista può decidere di non realizzare). Si instaura dunque una dialettica nella natura delle cose (nella physis che è tutto, uomo e cose umane comprese): tra la praxis e il poiema, tra l’intuizione intellettuale in atto (energheia) e il prodotto compiuto (entelecheia), la forma che trascende e congela quell’intuizione. È forse per questo che Bergson ha detto che la durata è come una melodia? Risaliamo al Corso sull’immediato alla Sorbona (1959-1960): per Jankélévitch, influenzato da Wahl, l’immediatezza dell’intuizione istantanea (la durata) può scaturire d’improvviso solo dalla mediazione della temporalità. In questo senso, vede in Bergson (testuali parole) un intuizionismo temporale, acustico (nella misura in cui l’udito è più immediato e intuitivo della classica visione nello spazio) e musicale, poiché il tempo della mediazione non è il tempo del discorso né dello sforzo laborioso e progressivo. Il tempo permette infatti di superare l’alternativa tra “essere” e “sapere” con un’alternanza tanto rapida da divenire vibrazione e punta di sintesi (immediato). Si parla giustamente di una “fedele infedeltà” di Jankélévitch nei riguardi di Bergson: l’irreversibilità del tempo che li separa induce a un inevitabile cambiamento e all’impossibilità della ripetizione letterale. Riprendere un grande maestro significa infatti rinnovarlo, ricrearlo. Reinterpretarlo.
(30 maggio 2025)