mercoledì , 16 Luglio 2025
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202. Recensione a: Luca Lo Sapio, Carne coltivata. Etica dell’agricoltura cellulare, Carocci, Roma 2024, pp. 111. (Sarah Dierna)

La filosofia è un sapere aperto e plurale che non si prefigge nessun sentiero specifico e si spinge invece sino agli itinerari meno praticati e ancora da scoprire. Uno di questi sentieri è certamente l’etica dell’agricoltura cellulare che Luca Lo Sapio percorre con rigore, chiarezza e intelligenza. Il rigore nel trattare un argomento scivoloso, quale è quello della carne coltivata che solleva molte perplessità; la chiarezza necessaria per chiarire le tesi di fondo di una questione attuale sulla quale le opinioni sono diverse e spesso contrastanti; l’intelligenza di evitare qualsiasi parzialità tecnonegazionista o tecnoescatologica, soltanto scettica o soltanto entusiasta per assumere invece ciò che l’autore ha definito un «tecno-realismo, cioè un approccio critico-problematico all’uso delle nuove tecnologie che sia in grado di evidenziarne sia le straordinarie potenzialità sia, se presenti, le criticità e i rischi» (p. 78). Il libro ha infatti un’impostazione per così dire scolastico-analitica; si tratta infatti di una analisi ragionata sul tema della cosiddetta carne cell-based che affronta le principali obiezioni spiegandole e proponendo quindi una possibile risposta che, alla fine, fa emergere la postura propositiva (che non significa positiva) ma consapevole e misurata assunta da Lo Sapio.
È vero quanto afferma l’autore: l’etichetta linguistica con la quale ci riferiamo agli elementi che decidiamo di considerare nel nostro studio è essa stessa parte del tipo di impressione che di quell’argomento ne ricaviamo, e parlare di carne coltivata potrebbe suscitare a priori qualche perplessità. Perplessità ulteriormente accresciuta dalle altre espressioni mediante le quali ci si riferisce alla carne prodotta in laboratorio. Prescindendo da formule quali fake meat, Frankestein meat, safe meat o clean meat, fuorvianti non soltanto in quanto veicolano una posizione ma anche perché ne plasmano una, Lo Sapio insiste sulla «naturalità delle proprietà» vale a dire che se «l’origine di un hamburger cell-based [è] differente dall’origine di un hamburger convenzionale, la materia di cui sono fatti è indistinguibile. Non ha pertanto senso parlare di una “sostanza” della carne presente nella carne convenzionale e non in quella cell-based. Come talvolta viene evidenziato “a livello fisico, la carne coltivata con successo sarebbe un vero tessuto muscolare, una vera proteina, una vera carne […]. Carne reale che viene prodotta con un medium diverso dall’animale vivente”» (p. 95).
La sfumatura linguistica – che sfumatura non è – si potrebbe tuttavia interpretare anche come un dilemma ontologico. La carne coltivata è infatti l’esito di un’attività di laboratorio; della coltura di alcune cellule animali prelevate tramite biopsia le quali, per mezzo di un medium di cultura, si moltiplicano e si differenziano diventando infine il prodotto che abbiamo sulle nostre tavole. Se un’origine è diversa non sarà comunque diverso anche il risultato? Magari simile a un altro e con le medesime proprietà e tuttavia non rimarrà comunque e per qualche motivo diverso?
L’etica dell’agricoltura cellulare ci coglie quasi tutti poco preparati, sicuramente con delle idee o delle opinioni, il più delle volte frutto – e l’autore non lo sottovaluta – di impressioni prive di una reale fondatezza argomentativa che le giustifichi o le difenda. Giustificazioni e difesa sono invece fornite da Lo Sapio dinnanzi alle critiche, alle possibilità e alle domande che tale prassi produce.
Uno dei primi interrogativi si rivolge sicuramente all’animalità non umana, assai spesso vittima delle abitudini alimentari dell’animale umano. La carne coltivata, argomenta Lo Sapio, mitigherebbe lo sfruttamento soprattutto nel contesto dell’agricoltura industriale animale e negli allevamenti intensivi; la carne cell-based richiederebbe infatti soltanto un campione cellulare poi coltivato in laboratorio. Una strategia che si presenta vantaggiosa secondo l’autore soprattutto nei confronti di «coloro i quali, per debolezza della volontà, o per ragioni relative alle proprie prassi di vita consolidate, non riescono ad abbandonare una dieta onnivora. Potrebbe dunque rappresentare uno strumento che favorisce la fioritura individuale e consente la realizzazione dei desideri più profondi di molti. Potrebbe anche rappresentare una scelta aggiuntiva per quei vegani o vegetariani che hanno abbandonato il consumo di carne per ragioni etiche ma che, se ci fosse un modo per ottenere carne evitando la sofferenza degli animali, lo ripristinerebbero» (p. 99).
Se è dell’animale umano che si tiene conto, la carne coltivata sembra dal mio punto di vista un rimedio felice e da sostenere; nella scelta di consumare un tipo di carne originato diversamente, infatti, si ha la possibilità di preservare gli animali da situazioni di sfruttamento e di sofferenza assai truci; è altresì vero però che il problema – benché risolto proceduralmente – mi sembra rimanere eticamente e ontologicamente, vale a dire che la carne coltivata non elimina, almeno non sembra farlo, il problema del rapporto con l’animalità non umana. Esso viene più semplicemente eluso e non perché si sia effettivamente riconosciuto nell’animale non umano un vivente simile a sé ma semplicemente perché si è trovata un’alternativa che non modifica le abitudini umane, nonché la soddisfazione delle loro esigenze e che reca con sé il vantaggio di sentirsi a posto con la coscienza e di agire in modo morale, giusto e rispettoso. Azione che senza tali strategie si sarebbe invece continuata senza troppe domande e anzi giustificata sotto la maschera della normalità carnista e della necessità del mangiare carne.
Quando si riflette sull’etica dell’agricoltura cellulare, Lo Sapio suggerisce giustamente di non ragionare per princìpi astratti e già predisposti in linea assoluta ma di impostare la questione senza perdere di vista il contesto nel quale essa si colloca e va considerata. Assumendo tale punto di vista, «non è l’atto del consumare carne in sé che dovrebbe essere sottoposto a giudizio morale o ritenuto moralmente discutibile, bensì il consumo di carne qui e ora, in particolare nelle attuali società occidentali che dispongono delle risorse per sostenere diete equilibrate anche senza il ricorso a carne o prodotti di origine animale» (p. 23). Detto altrimenti, non è la dieta carnivora in quanto tale a destare dubbi, bensì il fatto che per soddisfare tale esigenza si sfruttino e si maltrattino ancora animali quando la tecnica si è sviluppata fino a giungere a una soluzione che aggira il problema, quanto meno nei procedimenti. E infatti lo stesso autore si mostra in ogni caso consapevole che la carne coltivata non risolve il problema del rapporto con gli altri animali ma mostra come tale realtà possa comunque incidere positivamente quantomeno sull’esistenza di questi ultimi: «L’introduzione della carne coltivata non è di per sé sufficiente alla costruzione di un diverso modo della relazione tra uomo e animali non umani. Può tuttavia, da un lato, fornire risposte e soluzioni a specifici problemi pratici, dall’altro preparare a un nuovo tipo di relazione. Può aprire (certo non determinare di per sé) a nuove possibilità dello stare al mondo, in cui gli animali non umani non saranno più visti come schiavi dell’uomo destinati al macello ma come alterità alle quali tributare rispetto morale in virtù del loro specifico statuto e della loro utilità in chiave alimentare. Utilità che, tuttavia, gli animali non saranno più costretti a pagare al prezzo della propria vita» (p. 87).
Che la cultura sia la naturalità dell’esserci dell’uomo non significa, né tantomeno legittima, il dominio che questi esercita sugli altri animali e sulla natura quali dispositivi messi al servizio della nostra specie. La carne coltivata è sicuramente uno dei risultati della nostra capacità culturale, ciò su cui – almeno dalla mia prospettiva – rimane qualche dubbio non è lo statuto della carne coltivata o le possibilità concrete e procedurali che essa offre proponendo delle scelte alternative a garanzia delle altre specie; ciò che rimane irrisolto sembra essere lo sfondo entro il quale tale realtà si inserisce. La sensazione è che manchi il paradigma generale del quale la carne coltivata è il particolare. Lo Sapio riprende con estrema attenzione e capacità analitica molti degli argomenti e delle obiezioni, sciogliendo alcuni nodi avversi con intelligenza, vale a dire non difendendo a priori le ragioni della carne cell-based ma riflettendo e interrogandosi sui motivi di simili perplessità e affrontandole con precisione mostrando non che la carne di laboratorio sia la soluzione, più semplicemente che essa non costituisce il problema che si pensava che fosse. Il lettore trova così sciolti alcuni dei dubbi concreti che tale scenario schiude. Il libro ha il merito di fare chiarezza su un argomento ancora oscuro e sul quale si riflette poco.
Accanto alle ragioni per così dire socio-economiche, tecniche e anche morali rimane soltanto la questione ontologica e relazionale nel quale il tema si inserisce. La domanda può risultare banale ma credo che se venga accolta nella sua radice filosofica appaia più profonda: è così necessario mettere a punto una carne differente da quella convenzionale, ottenuta diversamente pur di soddisfare il nostro desiderio/bisogno e necessità di carne? È davvero una questione di nutrienti? E il fatto che i consumatori continuino a nutrire un certo scetticismo verso questi prodotti di laboratorio mentre non si fanno alcuno scrupolo di fronte alla realtà crudele degli allevamenti intensivi non è forse indice di una mentalità, di un’esigenza e di un paradigma assai diverso per cui la carne coltivata non è la risposta in quanto la domanda più autentica e celata non riguarda il consumo di questo o quel tipo di carne bensì la necessità che l’umano ha di concepire la natura al suo servizio, di concepire gli altri animali come viventi messi a sua disposizione per garantire la soddisfazione del proprio fabbisogno alimentare?
Detto altrimenti, «in quest’ottica anche l’agricoltura cellulare e la carne coltivata ci porterebbero a sostituire il rapporto di dipendenza dalla natura con un rapporto di totale indipendenza da essa, incentivando così l’emergere di un sentimento di dominio che allontanerebbe gli esseri umani dalla loro dimensione più propria, ossia la consapevolezza dei propri limiti e della propria vulnerabilità. In qualche modo, l’impiego della carne coltivata potrebbe favorire atteggiamenti di tipo strumentalistico, in cui il mondo naturale verrebbe trattato come un semplice mezzo per i nostri usi»; obiezione quest’ultima che se, secondo l’autore, «può essere persuasiva rispetto alla necessità di evitare interventi di manipolazione sugli animali, tali da alterarne le caratteristiche ai soli scopi umani […], non sembra altrettanto valida in riferimento alla carne coltivata, per cui non varrebbe l’argomento che siamo in presenza di un individuo animale, ma solo di parti, cioè di materiale biologico che ab origine nasce come parte e non come parte di un intero» (pp. 63-64). Mi sembra che il problema stia proprio qui, considerare le cose come parti e mai rispetto all’intero al quale appartengono.
Le risposte che Lo Sapio offre alle molteplici domande, molte delle quali legittime, sono esaustive e complete e contribuiscono a ridurre l’ignoranza nella quale ci muoviamo quando affrontiamo un simile argomento; tuttavia, credo che la riflessione abbia bisogno – almeno per rispondere ai dubbi che personalmente mi sorgono – di un inquadramento più ampio, olistico e onnicomprensivo. Uno sguardo che tematizzi proprio ciò che Lo Sapio presenta come la necessità di coniugare umanesimo e scienza e che espone nella seguente ed emblematica affermazione: «L’introduzione della carne coltivata, per quanto genererebbe un effetto positivo e un impatto apprezzabile sulla salute umana, sull’ambiente e sul benessere animale, non consentirebbe (almeno prima facie) di stimolare le riflessioni che sono realmente rilevanti sugli animali non umani e sul loro specifico statuto morale. Anzi, potrebbe essere, in definitiva, una sorta di soluzione a buon mercato che impedirebbe la presa di coscienza da parte dei consumatori rispetto alle problematiche affrontate» (p. 82). Non sono i pericoli celati nella realizzazione di questo tipo di carne a preoccupare; né si tratta di conservatorismo o di una certa orticaria tecnologica; mi sembra tuttavia che la riflessione sull’etica dell’agricoltura cellulare sollevi altre domande, non affronti gli aspetti più nascosti, faccia sorgere il dubbio che gli interessi sono assai più economici che etici.
Al di là della domanda ancora aperta e delle questioni non ancora affrontate, il libro di Lo Sapio è in grado di mostrare la necessità di tale presa di coscienza, avverte l’urgenza di riflettere sulla realtà sfaccettata, plurale e scivolosa della tecnologia all’interno del cui orizzonte si inserisce sempre di più l’azione umana; esso stimola l’esercizio filosofico che consiste, come scrisse Hegel, nell’apprendere il proprio tempo mediante il pensiero.

(5 giugno 2025)

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