giovedì , 18 aprile 2024
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143. Recensione a: Alessandra Filannino Indelicato, Per una filosofia del tragico. Tragedie greche, vita filosofica e altre vocazioni al dionisiaco, Mimesis, Milano-Udine 2019, pp. 216. (Stefano Piazzese)

Comprendere vuol dire entrare nella struttura delle cose, attraversarle, coglierne i tratti distintivi che indicano costantemente la tensione speculativa che si protende verso un fondamento ultimo; una tensione mai risolta che la tragedia greca coglie e che per prima nella storia enuncia chiaramente in forza della parola poetica.
Alessandra Filannino Indelicato spiega per quali ragioni la filosofia dovrebbe occuparsi del tragico e rispondere, pertanto, a una vocazione al dionisiaco. Il saggio in questione ha a suo fondamento Dioniso, nume tutelare del teatro antico, la cui figura attraversa tutta l’opera in questione e a cui è consacrato interamente il secondo capitolo. L’autrice propone una chiave di lettura del tragico che ha come suo nucleo teoretico l’etica come filosofia prima e vita filosofica (cfr. p. 35). Qui il tragico è una «disposizione psichica e ontologica della condizione umana: l’esperienza dell’aporia e del dolore è inevitabile allo slancio primaverile che muove alle metamorfosi e questa non esclude affatto l’istanza goliardica né la leggerezza» (p. 113).
La filosofia deve occuparsi del tragico perché in esso risiede la più alta comprensione dell’esistenza e dell’inevitabilità delle sue contraddizioni che l’uomo ha raggiunto; e se per filosofia s’intende anche la chiarificazione dell’esistenza (Existenzerhellung), come afferma Jaspers, la tragedia costituisce allora il grado più elevato di questa chiarificazione che continua a farsi strada nelle tumultuose acque della storia, prima di tutto e principalmente, come struttura dell’esistenza. Il discorso meramente estetico viene dopo.
Posto questo imprescindibile, quanto metafisicamente essenziale, punto di partenza metodologico si comprende la motivazione per cui «nella tragedia l’uomo riesce a rappresentare se stesso, a forgiare e a dare forma e spazio alle sue paure, mostrando allo stesso tempo le ferite aperte di una disposizione all’umanità indiscutibilmente meticcia, spuria, bastarda, paradossale, irrisolvibile e in definitiva indispensabile per ciascuno di noi» (p. 36).
Una delle premesse ermeneutiche che fonda la suddetta indispensabilità è che la tragedia non costituisce il campo esclusivo del tragico, ovvero l’esclusivo contesto in cui esso ha luogo. Tragedia, semmai, assurge a evento della polis che permette di rilevare lo spirito tragico nella totalità dei linguaggi artistici che dall’antico si protende fino a noi, fino alla contemporaneità, sino alle profondità della nostra esistenza qui, collocata nel nostro evo. La filosofia del tragico, secondo la proposta del saggio in questione, assume i connotati di una ricerca esistentiva che reclama la propria cogenza in ogni vita; presso i suoi sentieri speculativi ciascuno può trovare delle valide e fondate (che corrispondono al principio di realtà) chiavi di lettura per comprendere «quell’enorme testo che è la vita, perché questa possibilità non appartiene solo a esperti, dotti e accademici, ma fa parte di quell’umano di cui tutti, sebbene talvolta inconsapevoli, siamo portatori» (p. 41).
Come non porre in stretta correlazione il sentimento tragico con la filosofia platonica? Sentiero filosoficamente arduo e carico di quella complessità che conduce a interrogativi che si caratterizzano come movimenti tellurici della storia delle idee. Dunque: e se a fondamento dell’interesse platonico per la ricerca della giustizia vi fosse proprio il sentimento tragico? L’autrice pone domande di questa portata speculativa, seguite sempre da argomenti che colgono e mostrano il nesso inscindibile tra la tragedia greca e il pensiero platonico (cfr. p. 57); sinergia che fa della prima il motore dello slancio filosofico e del secondo la forma diversa di logos già esistente e il cui fermento fu storicamente determinato anche dalla parola dei tragediografi.
Filosofica è la tragedia. Nel senso che in essa si dispiega l’universo di domande e di risposte che scaturiscono da ogni escogitazione teoretica sorta dal problema del rapporto tra comprensione e verità. Quale rapporto, legame, è possibile pensare tra i due concetti? Se lo spirito tragico conduce irrimediabilmente alla problematicità della verità, quest’ultima può essere colta dall’intelletto e sviluppata solo a partire dalla figura retorica della mise-en-abîme, «ovvero l’immagine dell’abisso, qualcosa che contiene in sé stesso, in un viaggio a infinitum, misterioso, che ci lascia impotenti e confusi» (p. 62).
Nella filosofia del tragico non vi è ricerca della verità che non proceda dal Trono della Necessità (cfr. p. 65), la cui signoria si estende sui mortali e sugli dèi, su tutto ciò che è (to on). Ne consegue che la tensione verso la verità, che anima il sentimento tragico, è un accadimento avente come suo nucleo immediato il presente, laddove «la verità si dà dunque come esperienza totalizzante e, necessariamente, come esperienza di trascendenza» (p. 64).
Il logos tragico diviene logos polemikos, parola che inerisce alla dimensione politica a cui appartiene per essenza. Politica e teologia sono qui unica voce narrante, e rispondono alla domanda: chi è l’uomo? La risposta ricalca la consapevolezza della complessità di un interrogativo simile, ma lascia comunque intravedere la grande operazione speleologica nel dramma esistentivo dell’esserci: l’uomo è isotheos phos, pari agli dèi (Eschilo). Il nesso ossimorico piomba nell’agone tragico che viene esperito anche come spazio politico: «Che cos’è davvero la tragedia, e cosa ha realmente a che fare con la politica, e cioè, letteralmente, con ciò che riguarda la polis?» (p. 67).
In questa proposta filosofica è toccata anche la distanza tra poiesis e praxis risolta totalmente nell’incontro tra il tragico e il logos filosofico: al centro vi è sempre l’attenzione rigorosa per la parola intesa come fondamento e cominciamento di ogni sentiero di pensiero o di Poiesis che prendono forma nel dramma dell’esserci. Il cammino della filosofia e della poesia tragica può esser considerato come un evento le cui forme aristoteliche mantengono inalterata la stessa sostanza: alla transustanziale trasformazione degli accidenti – filosofia e tragedia – la sostanza permane. Cosa s’intende per sostanza? La chiarificazione dell’esistenza data dall’incessante atto dell’interpretare.
Aristotele elenca le caratteristiche fondamentali della tragedia, ovvero i caratteri fondativi e fondamentali di questo hedysmenos logos, linguaggio condito da ornamenti. Un linguaggio da cui emerge il vedere disincantato del mondo e della vita, spesso erroneamente interpretato attraverso la debole lente del pessimismo. A tal proposito, l’autrice enuncia l’errore esiziale che commette chi legge la tragedia considerando esclusivamente il convergere di tutto il dramma nel cosiddetto lieto fine. Elemento, quest’ultimo, di cui ha scritto anche Jaspers, nel saggio dedicato al tragico (Über das Tragische, 1952), affermando che elementi come morte, sventura, disgrazia, patimento, sono fattori negativi, certo, che però considerati in sé non hanno nulla di tragico se non vengono inseriti nel complesso groviglio dell’azione dove regna la Necessità, che tuttavia lascia aperto lo spazio all’azione libera o, meglio, considerata tale (illusione necessaria alla vita umana).
Sia bandita ogni forma di ottimismo o pessimismo nell’evento esegetico e interpretativo del tragico, «la tragedia greca è tutt’altro che pessimistica. Nei suoi tratti fondamentali, al contrario, essa si basa sulla speranza, sulla pervicace abilità umana di lottare strenuamente contro gli eventi dolorosi che possono accadere indipendentemente o meno dalla nostra volontà. […] Inoltre, il pessimismo tragico non può vertere esclusivamente sulla mancanza del lieto fine, senza contare che anche qui esistono evidenti e molto note eccezioni» (pp. 83-84).
La forma formante della filosofia del tragico è anche slancio verso il nuovo, nuovo che diviene forma formata, ovvero proiezione della persona verso la primavera, stagione che appartiene al mistero dionisiaco. Una forma che risulta contaminata dalla bellezza dell’esistenza e dal sentimento della rinascita che inerisce a Dioniso, il dio che rinasce, e che per questa ragione testimonia il rizoma del sentimento tragico che si espande in forza del dolore guidando il filosofo del tragico alla comprensione dell’evento caratterizzante l’esistenza per eccellenza. Per conseguenza: «Cosa si deve fare di Dioniso?» – domanda prodromica all’elaborazione di una «filosofia che gli sia seguace» (p. 108).
Un aspetto essenziale messo in evidenza dall’autrice, dato il carico di fraintendimenti interpretativi ai quali si va incontro quando si parla di dionisiaco, è quello secondo cui la gloria e l’estasi dei riti bacchici non comportavano il dissolvimento totale della persona invasata dal dio, e dunque la perdita della saggezza. Il sentimento panico, momento che sta al culmine del rito dionisiaco, comporta, semmai, una frattura esistentiva che Nietzsche ha individuato in modo preciso: «è a partire dal riconoscimento di Ananche che si situa il sentimento tragico e, in definitiva, il sentimento panico che la vera essenza del tragico» (p. 87). La follia dei riti bacchici non oscura la sophrosyne. Come leggiamo nella tragedia euripidea, Tiresia afferma: «Pensa quello che ti dico: anche nei riti di Bacco, chi è saggia non potrà essere corrotta» (Euripide, Baccanti, vv. 314-318, cit. a p. 184).
Nel dispositivo teatrale-tragico l’uomo è immerso nel dolore dell’esistenza, e la tragedia greca nasce da questa lotta che non viene risolta nemmeno dall’esperienza polimorfica del culto di Dioniso: «arriverà ben presto la primavera, anche nell’oscurità del rito notturno sul monte sacro a Dioniso, ammantato di mistero. Infatti, il sentimento tragico ha il senso dello sbocciare prepotente della primavera, dell’assistere alla pesantezza dell’esistenza già involati al sentimento della rinascita» (p. 88).
La tragedia è un evento che ha luogo entro i confini determinati politicamente e storicamente della polis; ecco la ragione per cui la dimensione politica risulta essere consustanziale alla tragedia. Tra le due non può esservi separazione alcuna poiché ciò significherebbe considerare il tragico un prodotto dello spirito umano astratto dalla storicità in cui esso è stato concepito e collocato, avulso dalle motivazioni storiche che certamente hanno influenzato la poiesis dei tragediografi (cfr. p. 105).
Studiare e delineare una filosofia del tragico vuol dire anche acquisire e sviluppare delle alte competenze esegetiche, filologiche, le uniche in grado di permettere al lettore/studioso di poter abitare un testo antico nella sua pienezza semantica sgorgante in fecondità ermeneutica, le sole a disvelare l’abisso della parola scritta, a permetterne la sua speleologia: una discesa nell’Ade delle fonti in cui incontriamo gli autori del passato e dialoghiamo con loro. E in tale dialogo che ha luogo nei secoli dei secoli, attraverso lo studio delle fonti, ritroviamo incontrovertibilmente il dramma dell’esserci, il nostro dramma. In questo arduo percorso, che si delinea anche come un invito alla lentezza – il permanere dello studioso sulle fonti –, «abitare una tragedia con uno sguardo filosofico predisposto all’esercizio spirituale del leggere significa prima di tutto riconoscere l’elemento estatico e simbolico nell’interrogazione del testo, e questo implica avere pazienza, saper aspettare» (p. 156).
La filosofia del tragico proposta da Filannino Indelicato comprende, come una delle principali tappe del percorso teoretico, la fase filologica che riguarda proprio l’esegesi delle tragedie. Nel terzo capitolo, Ermeneutica simbolica e filosofica del tragico. Dioniso nelle Baccanti di Euripide, il lettore s’imbatte in una lectio philosophica che, partendo dall’estrapolare (exegeomai) dello slancio ermeneutico, propone al lettore un’interpretazione del Dioniso delle Baccanti che vede nel dio un testimone dell’umana complessità, dei labirinti psichici e dell’universo simbolico-culturale in cui gli umani vivono (cfr. p. 157).
Tornando alla domanda precedente – Cosa si deve fare di Dioniso? –, l’autrice giunge all’essenza del dionisiaco che non è mai assenza di metron, hybris che il greco sapeva di non dover commettere, ma misura anche nell’estasi: «ed ecco che, al cuore del dionisiaco troviamo nient’altro che la saggezza sophrosyne, la moderatezza e la misura che preservano l’esercizio di phronesis. Tiresia afferma Dioniso non come dio della forza violenta, della costrizione sessuale e orgiastica, e questo lascia aperto, ancora una volta e senza sorprese, il tema dell’uno-molti, mostrando come anche l’invasione dionisiaca non si riduca al totale discioglimento dell’identità nell’alterità. L’identità, la capacità dio scelta, la misuratezza, sono in potenza dell’animo umano e questa non può essere distrutta o rovinata nemmeno dai riti bacchici» (p. 183).
In conclusione, la proposta dell’autrice costituisce un momento autentico di riflessione sull’importanza delle scienze umanistiche per la vita, laddove la filosofia del tragico si caratterizza, a tutti gli effetti, come realizzazione piena e traboccante di un sentiero di ricerca che viene edificato sul fondamento della complessità della vicenda umana e sulla contraddizione che la caratterizza Ab aeterno.

(10 gennaio 2023)

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