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74. Recensione a: F. Remotti, Somiglianze. Una via per la convivenza, Laterza, Roma-Bari 2019, pp. 375. (Giacomo Pezzano)


Muoversi in maniera insieme decisa e feconda nell’intreccio di antropologia, filosofia, psicologia, storia e attualità è capacità rara, che Remotti – non è certo la prima volta per lui – fa lavorare lungo sette corposi capitoli, i quali ruotano intorno alla proposta di fuoriuscire dalla finzione dell’identità e dell’individualismo per fare ingresso nella rete mobile della somiglianza e dei “con-dividui”.
Remotti prende di petto tanto le retoriche della difesa del “proprio” quanto le contro-retoriche della celebrazione delle “alterità”. La sua idea è che finché pensiamo in termini di identità, penseremo in termini di sostanzialità, cioè di qualcosa di compatto, statico e monolitico, dando vita a un dispositivo fatto di opposizione, esclusione e negazione per il quale all’identità del “noi” viene contrapposta l’identità degli “altri”. Nel migliore dei casi, in quest’ottica “noi e gli altri” ci ritroviamo a coesistere, a tollerarci, persino a rispettarci, ma non a convivere, cioè a interagire realmente, a trasformarci attraverso un rapporto, che in quanto tale agisce su livelli diversi e a intensità variabile (pp. 43-54).
La via verso la convivenza richiede innanzitutto la fuoriuscita dalla «caverna dell’identità» (pp. 2-20): l’identità è una rappresentazione culturale (segnatamente occidentale) che – per soddisfare un’esigenza umana troppo umana di stabilità e riconoscimento – imprigiona la nostra visione del mondo. L’identità è una «super-risposta» (p. 13), «risposta eccessiva» (p. 32) o «iper-risposta» (p. 36): al bisogno di “fissare” in immagini dai contorni riconoscibili la figura di sé, degli altri, delle cose e così via, essa risponde fingendo che possa esserci una soluzione definitiva, finendo così per non affrontare davvero il problema. Il dubbio se qualcosa – l’identità – possa davvero darsi si tramuta immediatamente nella certezza della sua esistenza e nell’impossibilità della sua inesistenza.
Questa logica intrinsecamente binaria, fatta di “sì” e “no”, deve far spazio a ciò che in realtà essa stessa presuppone: l’andamento graduale e sfumato della somiglianza, il quale non si contrappone affatto a esigenze come quelle di continuità, coerenza, integrità e irripetibilità, ma le soddisfa in maniera diversa, in modo più flessibile e dinamico.
Si tratta dunque di 1) porre la domanda «cos’è la somiglianza?» (pp. 56-91), 2) esaminare «la guerra contro le somiglianze» condotta dalla tradizione filosofico-culturale dell’Occidente (pp. 92-145) e 3) evidenziare «la forza delle somiglianze», la loro resilienza a ogni tentativo riduzionista (pp. 146-220). In questo modo, diventa poi possibile 4) ritracciare le «somiglianze dell’io», interne alla nostra supposta identità (pp. 222-276) e 5) mettere radicalmente in discussione il lessico dell’individualità (pp. 277-351).
1) La somiglianza consiste in quanto comunemente connotiamo come rapporto di parentela: essa comprende così sia elementi “comuni” che circostanze “differenzianti”. «C’è somiglianza quando viene condiviso qualcosa, ma non tutto» (p. 60): diversamente dall’uguaglianza o dall’identità, la somiglianza prevede un certo grado di imperfezione o incompletezza – di “disaderenza”. Con ciò, la somiglianza si distingue anche dalla più totale diversità, cioè dall’assoluta distanza priva di rapporto: la somiglianza ricomprende in tal senso sia la “comunanza” sia la “differenza”.
La somiglianza può essere più o meno diretta e più o meno accentuata, aprendosi in una sorta di reticolato mobile e questo è esattamente un suo tratto distintivo: in base al soggetto, cioè al punto di vista di “ritaglio” e all’aspetto sotto cui due cose si presentano, si possono riscontrare più o meno tratti in comune. In termini antropologici, culture e società diverse tracceranno reti di somiglianze-differenze di tipo diverso, senza che nessuna possa assurgere a modello definitivo (pp. 82-91). Non per questo, però, tutti i “tagli” si equivalgono: se le rappresentazioni dell’esperienza di sé, degli altri e del mondo sono inevitabili, si possono comunque distinguere «rappresentazioni più congruenti» e «rappresentazioni meno congruenti», in base al fatto che il gioco mobile tra somiglianze e differenze venga riconosciuto, esplicitato, marginalizzato, negato, ignorato e via discorrendo (pp. 278-279).
La contesa tra questi tipi di rappresentazioni, in fondo, ha attraversato l’intera nostra cultura, presa tra un movimento di «involuzione culturale» per il quale ci si chiude sul già noto e ci si muove sul posto in modo monotono (p. 145) e un movimento – quasi sotterraneo – di costante riaffermazione delle ragioni dell’azione congiunta di somiglianze e differenze.
2) Se Protagora sembra considerare l’idea per cui in certo modo ogni cosa è simile a ogni altra, Platone è invece l’araldo dell’identità, del tentativo di tenere a bada la proliferazione incontrollata di somiglianze tra le cose del mondo intero, l’«infezione delle cose» (p. 138). A partire dal campo aperto già dal pensiero antico, che si estende sino a quelle che – credo però in maniera eccessivamente sbrigativa – vengono dipinte come le «complicate elucubrazioni» di autori come Deleuze, Remotti elabora un «abbozzo di teoria» della somiglianza (pp. 96-101).
Questa teoria si incentra sul concetto di SoDif, il quale – unendo appunto somiglianza e differenza – mira a rendere conto del fatto che tutte le cose si somigliano tra di loro, ma non allo stesso modo e non sullo stesso piano. La somiglianza e la differenza sono dunque indisgiungibili, l’una non si dà senza l’altra: somiglianza non significa indifferenziazione, né differenza significa scomposizione. Questo rapporto mobile tra le due viene ogni volta modulato su vari livelli, di cui quello umano non è l’unico e quello intenzionale e consapevole non è l’unico tra quelli umani: in tal modo, di volta in volta verranno a essere maggiormente rimarcate le somiglianze o le differenze, certe somiglianze e certe differenze.
Rispetto agli esseri umani, a essere messa in primo piano è la capacità di modificare la rete di somiglianze e differenze di cui si è in possesso, la possibilità di estendere questa rete: ciò avviene da un lato avventurandosi nel terreno ignoto delle differenze e dall’altro lato facendo leva sulla forza connettiva delle somiglianze. Nuove differenze chiameranno nuove somiglianze e viceversa: questa dinamica dipende però anche dall’intervento dei soggetti, che possono intraprendere come bloccare questa estensione. Certo, passare da «un mondo chiuso rassicurante nel suo ordine» a «un mondo aperto e non finito» richiede ogni volta «una scommessa» (p. 105), anche perché – come mostra Erodoto, «il primo degli antropologi» (p. 114) – non sono solo le differenze a destabilizzare: sono anche le somiglianze a sorgere inaspettate e a spiazzare.
A ben vedere – lo testimoniavano già tutti i timori di Platone (pp. 123-134) – la paura della differenza maschera, o si accompagna con, la paura della somiglianza: ciò che temiamo è scoprire che qualcosa di diverso in realtà, in qualche modo, ci somiglia. Ma da questa paura, come dal coefficiente di fascino che veicola, non possiamo liberarci: la somiglianza si presenta come un’operazione continua e incessante di «assomigliamento» (pp. 174, 261).
3) I tentativi di premunirsi contro i pericoli delle somiglianze risultano però vani, perché se è vero che il bisogno di ordine si fa sempre valere, è anche vero che il dinamismo del SoDif agisce incessantemente alla stregua di un «mormorio» (p. 156). Più precisamente, non c’è ordine che non agisca su e attraverso tale supposto mormorio, così che la forza delle somiglianze è il presupposto stesso del tentativo di rappresentarle e ridurle, cioè del processo – in certa misura necessario – di categorizzazione, che rallenta e riduce «la frenetica attività connettiva» (p. 219).
Questo è uno dei grandi insegnamenti del darwinismo, che sarebbe ancora troppo sottovalutato dall’antropologia culturale. Infatti, se è vero che Darwin fonda la propria teoria sulla continua modificazione delle «piccole differenze» individuali, è vero anche che la selezione naturale genera quelle “somiglianze di famiglia” o «grandi differenze» che chiamiamo specie. Per questo, nella considerazione scientifica dei rapporti di parentela tra i viventi si possono in prima istanza tracciare e distinguere omologie (affinità reali ereditarie) e analogie (affinità esteriori) e in seconda istanza scoprire che le somiglianze “apparenti” sono in realtà genuinamente reali – come mostra anche la vita della nostra mente, governata da un pullulare di analogie creative e istitutive (pp. 177-215).
4) Se – come Anassagora aveva già profilato (pp. 224-230) – la somiglianza alberga dentro tutte le cose, facendo collassare la loro presunta auto-consistenza e rivelando la loro intrinseca relazionalità, a questa “legge” non fa eccezione il nostro io, che non può in nessun modo fissarsi in quell’autenticità e quell’identità a cui pur aspira. Questo non implica la rinuncia a ogni forma di consistenza e riconoscimento, perché l’alternativa non è tra massima solidità e massimo annientamento della personalità: esiste una consistenza fatta di somiglianza, tipica di un processo di rinnovo continuo in cui comunanza e differenza ogni volta si intrecciano e distribuiscono.
Pertanto, non si cancella ogni soggettività, ma si mettono al centro i «processi di soggettivazione» che per quanto arbitrari, frutto di operazioni di taglio e selezione, non sono privi di regole, ma si basano sui criteri di riduzione della complessità, coerenza sincronica, continuità diacronica e definibilità/riconoscibilità (pp. 262-264).
Come la vera sfida sociale è convivere con gli altri, così la vera sfida psicologica è convivere con se stessi, trovando il modo di organizzare le varie componenti e istanze della soggettività; anzi, questo stesso modo è la soggettività, una maniera d’essere in senso dinamico irripetibile senza con ciò essere identica (pp. 265-266). Il soggetto non esiste al di fuori dell’atto lungo cui prende forma, ma questo significa che una qualche forma la assume: il soggetto è una questione di “tenuta”, la cui consistenza non è quella della solidità di una roccia, ma è quella della robustezza di un tessuto, nel quale diverse fibre si connettono e sovrappongono l’una all’altra (pp. 206, 274-275).
Ogni tessitura consiste in un continuo processo di ritaglio e ricucitura e nulla garantisce che gli intrecci che vengono di volta in volta a prodursi siano buoni e tengano, senza tramutarsi in una catena: simile condizione è insuperabile, anche perché le smagliature e la rottura delle catene rappresentano momenti di rinnovata apertura alle differenze, al futuro. È tutta una questione di velocità e lentezze, del ritmo dell’andamento di un processo, non del mantenimento della fissità di una qualche posizione (pp. 275-276).
In breve, si può essere non identici con sé senza con ciò cessare di essere simili a sé (pp. 246-255), cosa che tutta la stagione dell’individualismo – che parte dal Cristianesimo, passa fragorosa per la modernità e giunge ancora vigorosa ai giorni nostri – non sarebbe stata capace di cogliere, facendo della propensione all’individualità qualcosa di naturale, che riguarderebbe tutti gli uomini e tutte le culture – perlomeno di tutti gli uomini “civili” e perciò usciti dalla condizione primitiva (pp. 255-262).
5) Che cosa significa dunque essere soggetti senza essere individui? Remotti propone di mettere al centro il concetto di con-dividuo, che comporta una radicale operazione di de-sostanzializzazione del modo di considerare la soggettività e l’inter-soggettività.
Tale gesto è radicale in quanto esige di fuoriuscire dalla «caverna ideologica» (p. 288) retta dal principio della deificatio, per il quale – che sia esso declinato «in senso laico, profano, mondano, persino ateo» (p. 294) – la matassa delle somiglianze deve essere ridotta a una sostanza «divina» in quanto unica in sé, impassibile, imperturbabile, indecomponibile, autonoma e autosussistente (pp. 294-309).
A tale scopo, non basta nemmeno sostituire l’individuo con il «dividuo», perché – come mostrano le oscillazioni di Leenhardt e Lévy-Bruhl – si rischia di fare del soggetto un semplice “vuoto”, il semplice opposto dell’individuo come “pieno”: il soggetto non solo è diviso e si divide, ma anche partecipa e somiglia, vale a dire che pur non essendo un dato di partenza, nondimeno “si dà” attraverso le relazioni, o – meglio – mediante l’organizzazione delle relazioni attraversate (pp. 309-329).
In tal senso, «con-dividuo ha a che fare con la con-divisione» e con la gradualità di questo “con”: «ci sono “con” stretti o stringenti, che tendono ad avvicinare i termini, fino a sfiorare l’identità, e “con” laschi, i quali invece acconsentono ai termini di allontanarsi, fino a sfiorare la totale separazione» (pp. 324-325). Qui, l’unicità e l’irripetibilità non sono quelle della sostanza isolata, bensì quelle della peculiarità tipica di una data combinazione di rapporti.
In aggiunta, non basta parlare – con i filosofi e gli antropologi – di «trans-individuo» e neanche – con i biologi – di «co-individuo», perché la presenza di quel prefisso “in-” finisce sempre per racchiudere il dividuo, il soggetto, «in se stesso, facendolo diventare una sostanza dura e identitaria, non dipendente da altri che da sé» (p. 332). Insomma, finché si parla di diverse declinazioni dell’individuo, per quanto relazionali esse possano essere, si sta comunque presupponendo che prima ci siano i soggetti e dopo arrivino le relazioni: è invece proprio questa prospettiva che il concetto di con-dividuo intende ribaltare – è il passaggio «dalle “somiglianze tra” alle “somiglianze intra”» indicato già nell’Introduzione (p. XXI).
In definitiva, qui il “con” indica lo sforzo continuo di tenere insieme, il processo di tenuta costantemente aperto: «il “con” è un conato di raccordo e di unificazione», «un tentativo continuo di attenuare gli effetti stressanti di tagli e di aggiunte, di perdite e di acquisizioni, i quali sono sempre lì lì per mettere in crisi la sua funzionalità di raccordo» (p. 339); al “con” si attribuisce «non un valore ontologico, uno statuto di sostanza, ma una funzione di coordinamento, che tiene nella misura in cui tiene e tiene fino a che tiene» (p. 345). Mi sembra di poter così sintetizzare: i con-dividui sono soggetti non in quanto permangono in uno stato, bensì in quanto persistono in uno sforzo – questa è la cifra della loro “tenuta”.
Questo lavoro di Remotti si presenta come ricco e stimolante, capace di toccare il cuore nevralgico di questioni tanto filosofiche quanto antropologiche: proprio per questo, vorrei concludere ponendo alcune questioni critiche, o – meglio – domande aperte. Tali quesiti intendono dare testimonianza dell’importanza dell’opera e in certa misura proseguire il suo sforzo.
In primo luogo, Remotti sembra propendere per la convinzione che la fuoriuscita dalle gabbie delle rappresentazioni sia possibile se soltanto lo si vuole (p. 102), ma è davvero così semplice, tanto filosoficamente quanto antropologicamente? L’Autore stesso sottolinea a più riprese (p.e. p. 262) che le decisioni sulle rappresentazioni possono essere più o meno consapevoli: se è così, com’è possibile evadere dalla caverna soltanto volendolo? Le «vie di fuga» dalla propria cultura cui si allude fino a che punto sono “volontarie”? Che cosa comporta questo? In termini platonici, come si innesca il movimento “periagogico” di liberazione dalle catene delle rappresentazioni?
In secondo luogo, se liberarsi del pensiero identitario e sostanziale è figlio di difficoltà grammaticali (p. 256), legate a una certa struttura linguistica, che cosa comporta, linguisticamente e antropologicamente, articolare una differente grammatica, se è possibile? Significa – come alcuni sostengono – cominciare a guardare oltre al contesto indoeuropeo?
In terzo luogo, credo che il movimento di deificatio descritto, che culmina nell’auto-sacralizzazione stirneriana, si presti perlomeno anche a un altro tipo di lettura, soprattutto se guardiamo – come fa Remotti – alle sue radici medioevali. Da una parte sembra innegabile che una certa tendenza di pensiero “sfoci” nelle forme più esplicite dell’individualismo contemporaneo: quanto è distante la convinzione di Ochkam per cui l’ordine francescano non esiste, perché esistono solo frati francescani (p. 300), dalla presa di posizione di M. Thatcher per cui la società non esiste, perché esistono solo gli individui? Da un’altra parte, tuttavia, si può è cominciato a riconoscere che una certa linea di pensiero, mirando a demolire i “Macro-Enti” in favore dei “micro-enti”, apre in realtà le porte alla demolizione del concetto stesso di “ente”, inteso come sostanza individuale compatta, autosussistente ecc. Insomma, si comincia dicendo che i “Super-Enti” non sono sostanze, per arrivare a capire che nemmeno i “sotto-enti” possono esserlo, a meno di fare di essi dei “Super-Enti” su altra scala.
In quarto luogo, Remotti tiene particolarmente a distinguere rappresentazioni e ontologie (pp. 275, 278-279, 335): le prime possono sì essere considerate universali (tutte le società si rappresentano); le seconde sono la versione “occidentale” delle prime, incentrate sul problema dell’“essere”, che spinge inevitabilmente a catalogare e classificare. Tuttavia, non si pone così il problema di una sorta di “rappresentologia” (Deleuze parlava, in un senso forse non dissimile, di noologia)? La stessa antropologia culturale si traduce, a un certo livello, in una forma di indagine sui diversi tipi di rappresentazioni? In tal caso, sarebbe possibile connotare i tratti fondamentali di tale “rappresentologia”?
In quinto e ultimo luogo, c’è il problema dell’effettivo rapporto tra somiglianza e differenza. Da un lato si rifiuta il primato ontologico della differenza (p. 99), ma dall’altro lato sembra trapelare un certo primato della differenza, capace di “far breccia” e ridare dinamismo a reti ormai cristallizzate (pp. 253, 270). Al contempo, già a partire dal titolo del libro (Somiglianza, non Differenza o Somiglianza e differenza!), da una parte la somiglianza non ha certo un primato ontologico, ma sembra pur sempre avere un primato “di fatto”, mentre dall’altra parte una delle idee-chiave della proposta di Remotti è che essa non possa darsi senza la differenza – come viceversa. È forse proprio questa co-implicazione nella distinzione a far sì che possa darsi l’impressione del primato ora dell’una ora dell’altra, ma resta aperta una questione di fondo, terminologica come concettuale: “somiglianza” può essere il nome che ricomprende sia la somiglianza sia la differenza? Come può essere nominato, se può, il SoDif? Secondo alcuni, senza andare al “Platone orale” dell’Uno e della Diade, è proprio il concetto di relazione a poter rendere ragione della tensione aperta tra congiunzione e separazione: non potrebbe dunque essere questo un buon modo di rendere concepibile il nesso aperto tra somiglianze e differenze, se è vero che il SoDif è sempre un So-Dif?

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