martedì , 12 Novembre 2024
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182. Recensione a: Claudio Bonito, Alberto Carrara (a cura di), Il transumanesimo. Una sfida antropologica alla scienza e alla fede, Mimesis, Milano-Udine 2024, pp. 120. (Sarah Dierna)

L’innovatività del transumanesimo cela in verità un pensiero antico, millenario e perenne delle comunità umane. Il volume curato da Claudio Bonito e Alberto Carrara mostra molto bene la centralità di questo aspetto senza il quale non si comprende fino a fondo la possibilità di una simile prospettiva. Anziché focalizzarsi sugli aspetti tecnologici coinvolti nell’ambizione trasformativa dell’umano, gli autori che hanno collaborato al libro hanno messo in risalto le questioni antropologiche, filosofiche e umane che muovono le fila del discorso, le quali si possono riassumere nelle calzanti parole di Roberto Marchesini agli occhi del quale il transumanesimo che intende «adire a una postumanità liberata dalla spada di Damocle della caducità, non è il frutto delle potenzialità tecnologiche, ma l’esito dell’angoscia stessa» (p. 42).
Non si comprende il transumanesimo senza comprendere l’umanità che si desidera trascendere. Nick Bostrom ha proposto una definizione semplice e appropriata del fenomeno transumanista, pensato e concepito come «un movimento culturale, intellettuale e scientifico, che afferma il dovere morale di migliorare le capacità fisiche e cognitive della specie umana e di applicare le nuove tecnologie all’uomo, affinché si possano eliminare aspetti non desiderati e non necessari della condizione umana come la sofferenza, la malattia, l’invecchiamento, e persino l’essere mortali» (p. 80). Si tratta di un impegno ambizioso con il quale fare i conti e che presenta alcuni nodi da sciogliere o, quantomeno, da chiarire. Il primo elemento del quale bisogna prendere atto è che l’essere umano, così come è, non va bene. Le tecnologie presenti ma soprattutto future che in questo momento tengono occupati gli scienziati e i gruppi di ricerca nei loro laboratori si offrirebbero come validi presidi a sostegno di questa condizione umana così labile, precaria e sensibile. Gli strumenti qui in gioco, o per meglio dire pensati, non sono più strumenti analogici che intervengono nell’ambiente in cui il sé agisce e opera ma costituiscono per lo più strumenti digitali, tali cioè che non bisogna più che essi si integrino nella quotidianità fisica, reale e tangibile dell’esistenza, piuttosto è richiesto all’umano di farlo, e cioè di integrarsi, trasferirsi e ripensarsi, vale a dire cancellarsi, in essi. L’uploading della mente non a caso rappresenta uno dei punti all’ordine del giorno dell’Iniziativa 2045, un progetto elaborato e perfezionato dal transumanesimo evoluzionista di Dmitry Itskov, e più in generale da un certo modo dualistico, separato e disincarnato di pensare la mente umana. Il trasferimento della coscienza su una macchina permetterebbe di realizzare un’immortalità immanente riavvicinando così l’uomo metafisico all’uomo fisico di Paul Rée al quale fece riferimento Nietzsche ma in un senso che non nega, come invece fu per il filosofo, il mondo intellegibile, bensì lo riafferma con connotati diversi. Dietro questa ipotesi funzionalista della mente c’è la speranza di vedere il sogno di immortalità finalmente realizzato. In questo scenario «la morte biologica» si distinguerà «dalla “vera” morte» la quale consisterà nella «perdita irreversibile dei dati informatici relativi alle nostre personalità». La morte diventa dunque un inconveniente, molto simile a quello di essere nati, soltanto che adesso diventa superabile: «Il “nuovo” uomo sarà così non già immortale, ma a-mortale» (p. 83). Il presupposto affinché tutto questo sia pensabile è la separazione dal corpo che invece è il luogo della carne che muore.
Accanto all’uploading della mente il transumanesimo intende migliorare, come si è letto nelle parole di Bostrom, la condizione umana operando sul soma mediante il quale il sé si conduce e mediante il quale, dopotutto, è. Si tratta di intervenire a livello proteico, modificando le strutture del Dna per consentire lo sviluppo di caratteri cognitivi, somatici e morali potenziati così da garantire un’esistenza imperturbata dell’io. Le nanotecnologie operano sul corpo dall’interno così da intervenire immediatamente per riparare qualsiasi caducità del corpo che cresce, si ammala e invecchia oppure contribuendo alla formazione di gameti sani e potenziati in grado di essere lesi in misura minore dai torbidi dell’esistere.
Il contributo di Enrica Perucchietti fa vedere la conseguenza che tutto questo ha sulle generazioni a venire. Il trionfo dell’egoismo genitoriale che può essere soddisfatto in ogni sua parte poiché i genitori possono scegliere «un “prodotto” – il figlio – che deve essere fabbricato assecondando le richieste dei committenti e, pertanto, avere delle caratteristiche “qualitative”. Questa nuova forma di eugenetica, perché di questo si tratta, rischia di creare prodotti in serie, in apparenza perfetti, senza differenze. Individui indifferenziati, omologati, cloni interscambiabili» (p. 109). Prodotti che dovranno farsi carico delle decisioni, e dunque delle conseguenze, prese dai loro genitori.
Al di là del caso specifico delle generazioni future l’enhancement offre grandi possibilità in ambito bellico le cui ricerche in tali settori sono ben finanziate. Il curatore Claudio Bonito accenna solo a questo aspetto che tuttavia dimostra ciò che forse potrebbe essere il vero interesse almeno di una parte della ricerca transumanista. Anche questo non fa che confermare tuttavia un carattere antico e perenne che nessuno ha saputo dire con la stessa suggestione di Louis-Ferdinand Céline: nel cuore degli uomini non c’è che la guerra.
«Ci si può domandare perché bisogna sostituire questi pezzi, a questo proposito si può notare che, in verità, si vuole “esorcizzare” la fragilità dell’umano, che sotterraneamente si presuppone, nonostante il superomismo che caratterizza questa posizione» (p. 23). Sarebbe altresì legittimo porsi un’altra domanda che scaturisce da ciò che si presenta come una constatazione. Per migliorare la condizione umana bisogna rimuovere la sofferenza, la malattia, la finitudine e tutte le altre interferenze «non desiderate» e «non necessarie», vale a dire degli elementi che, a ben guardare, fanno parte dell’esistere stesso. Sembrerebbe dunque non del tutto insensato affermare che nel chiedere e lavorare per tutto questi i transumanisti vogliano di fatto eliminare la vita; essendo il nostro esistere questo anfratto di dolore, sofferenza e morte.
Nella prospettiva transumanista accade ciò che Francesco Serra di Cassano ha opportunamente descritto come un capovolgimento del connubio mezzi-fini: «La razionalità non ci guida più nell’adattare i mezzi ai fini, “ma lascia che i nostri fini siano definiti dai mezzi disponibili”» (p. 70). Le potenzialità tecnologiche precedono l’atto rispetto al quale esse sono poste in potenza. Si stabilisce così una sorta di primato del sé autopoietico sul sé ontologico; si perviene a un primato dell’ordine morale sull’ordine ontologico come traspare limpidamente dalla definizione di Bostrom che privilegia il dovere morale di migliorare, annullando ogni consapevolezza ontologica della natura umana. Il Sé ha assunto ciò che Marchesini descrive come una visione autopoietica e autarchica, di separazione e di autonomia rispetto al tutto. Dentro le mura di questo castello di sabbia egli starebbe lavorando a trasformare liberamente la propria natura come gli prescriveva quel Pico della Mirandola la cui citazione è posta quale incipit del libro. Si tratta di attendere pazientemente un «deus ex machina [tecnologico] […] in grado di riportare ordine in questa situazione gravemente compromessa» (pp. 50-51), aspettando il quale occorre passeggiare per il primo dei tre ponti metaforicamente progettati da Raymond Kurzweil e Terry Grossman.
L’arrivo del deus ex machina nella tragedia di Euripide segnava per Nietzsche la perdita dello spirito dionisiaco e l’avvio di una tendenza socratica/razionalizzante, la quale credeva di potere correggere il mondo per mezzo del sapere, di sciogliere gli abissi dell’essere: «Ciò che è cominciato con Socrate è proseguito nel trionfo scientifico e razionale della modernità che ha perduto il tragico e si è rifugiato nell’illusione e nell’inganno dell’apparenza» (F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 2011, § 15, p. 102). La sfida antropologica del transumanesimo è il proseguimento contemporaneo di questo cammino intrapreso da Socrate. Un percorso all’interno del quale non ci si muove verso «la ricerca di un pascolo migliore, un alpeggio o una transumanza», si assiste piuttosto al «naufragio di un uomo prigioniero di un’illusione ottica» (p. 56).

(18 ottobre 2024)

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