venerdì , 29 marzo 2024
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29. Recensione a: Maurizio Ferraris, Mobilitazione totale, Laterza, Roma-Bari, 2015, pp. 109. (Giovanni Tateo)

deep purpleChiunque sia dotato di ARMI, acronimo che Maurizio Ferraris usa per riferirsi agli Apparecchi di Registrazione e Mobilitazione dell’Intenzionalità, quali smartphone e tablet, sperimenta il peso della rintracciabilità in qualsiasi momento della giornata, rinunciando in parte alla propria vita privata e cedendo spazi solitamente dedicati al riposo, eppure la metà della popolazione mondiale continua a far parte della rete. Chi ce lo fa fare? Questa è la domanda a cui Ferraris risponde in Mobilitazione totale, titolo con cui viene paragonata l’iper-responsabilizzazione derivante dalla rivoluzione digitale al contesto di militarizzazione, di costante chiamata alle armi – quelle vere – sognato dai conservatori tedeschi e in particolare da Ernst Jünger (La mobilitazione totale, 1930). I temi affrontati da Ferraris sono in buona parte quelli che lo hanno accompagnato nel suo percorso filosofico recente: i nuovi media (Dove sei? Ontologia del telefonino, 2005), la registrazione (Documentalità, 2009), le discipline umanistiche (Filosofia globalizzata, 2013); ma con quest’ultimo testo viene esteso il campo d’indagine del Nuovo Realismo (Manifesto del Nuovo Realismo, 2012) con una teoria della motivazione all’azione fondata sulla sollecitazione esterna e con un’antropologia negativa, conseguenza di un’ontogenesi che attribuisce priorità al sociale rispetto all’umano.
Affermare la priorità ontologica del sociale sull’umano significa criticare ogni prospettiva che consideri l’intenzionalità, la volontà e la motivazione ad agire come elementi presociali interni all’uomo, che lo rendono capace di dare origine da sé alla realtà sociale: l’intenzionalità collettiva di Searle, il contrattualismo di Rousseau e l’autolegislazione morale di Kant. L’addio di Ferraris alla filosofia kantiana, quindi, si ripete. Se, però, il primo congedo si riferiva alla Critica della Ragion pura (Goodbye, Kant!, 2004), quest’ultimo riguarda la Critica della Ragion pratica, che nel terzo capitolo dell’Analitica presenta la legge morale come unico e immediato movente dell’azione. Secondo Ferraris infatti il problema dell’autonomismo morale riguarda il concentrarsi sull’elemento razionale, ignorando il fulcro del processo che porta all’azione: la sollecitazione esterna, vale a dire la “chiamata”.
Il procedimento che ha origine con la chiamata, e che costituisce la teoria della motivazione proposta, si struttura con la conseguente mobilitazione, grazie all’apparato tecnico che la rende possibile e alla disposizione degli esseri umani a ricevere sollecitazioni, per concludersi solo a questo punto con la risposta intenzionale. In questo senso, Ferraris si avvicina alla teoria del “volto dell’altro” di Lévinas, eliminando tuttavia l’intenzionalismo del filosofo lituano, vale a dire considerando non solo gli altri soggetti intenzionali come possibile origine esterna della chiamata, ma anche i soggetti non intenzionali, come il mondo naturale e animale, le istituzioni e, in particolare, i nuovi media.
Il web, vale a dire la tecnica, è infatti il punto di partenza del discorso sulla mobilitazione. In controtendenza rispetto alle descrizioni novecentesche della tecnica, che la intendono esclusivamente come fonte di alienazione, Ferraris vede nel web uno strumento di rivelazione. I nuovi media, essendo principalmente strumenti di registrazione, piuttosto che di semplice comunicazione – come la televisione o la radio – e avendo mutato le vite di miliardi di persone in pochi anni, permettono di comprendere le strutture profonde dell’umano, rivelando la sua disposizione primariamente passiva ad accogliere gli stimoli che provengono dalla realtà, così come l’origine della responsabilità umana e degli oggetti sociali. Le ARMI, infatti, responsabilizzano perché permettono di tenere traccia dell’interazione, della chiamata che arriva al soggetto, la quale non è più semplicemente comunicata, ma è registrata, configurandosi per questo motivo come un invito all’azione. Questa struttura iper-responsabilizzante dei nuovi media fa collassare ciò che con i vecchi media restava separato: il privato coincide col pubblico, così come il sociale col mediale. Se infatti l’essenza degli oggetti sociali è la registrazione, e se il web è proprio uno strumento di registrazione prima di essere mezzo di comunicazione, nello stesso momento in cui il medium produce una registrazione, dà vita a un nuovo oggetto sociale (pp. 21, 51). Senza dubbio Ferraris in questo modo si occupa di un fenomeno che sta cambiando la storia degli ultimi decenni, la rivoluzione digitale, e ne descrive l’essenza non cadendo nell’errore di considerare la rete come surrogato del mondo sociale, bensì osservandola come sua estensione, ma se è vero che il web – e la tecnologia in generale – nascono dall’esigenza di lasciare tracce, allora l’umanità è appena caduta nell’errore più grande che potesse commettere, affidando a supporti volatili e ad archivi poco selettivi i documenti che generano gli oggetti sociali e che costituiranno le fonti degli storici del futuro, vale a dire mettendo a rischio la memoria, l’analisi e la descrizione delle forme culturali del nostro tempo. È probabile infatti che nei prossimi decenni il problema maggiore della storiografia sarà quello dell’accesso alle fonti, visto che lo studio delle tecniche di preservazione digitale è ancora lontano dall’elaborare formati standard abbastanza semplici e universalmente riconosciuti da poter garantire la durata nel tempo dei dati che codificano, superando il problema della loro rapida obsolescenza. In passato, con la scrittura cartacea, dalla registrazione sono dipese l’archiviazione e la collezione, le risorse più importanti per lo storico, ma il tipo peculiare di registrazione che caratterizza le ARMI esclude o perlomeno riduce la possibilità di storicizzare la traccia non solo a causa dell’obsolescenza dei formati e dei programmi di lettura, ma anche per la mole difficilmente selezionabile di documenti prodotti. Se archivi e collezioni infatti rispondono all’esigenza di preservare, di ordinare, di correlare – di “lottare contro la dispersione”, nei termini di Walter Benjamin – al contrario l’archivio universale costituito dal web, registrando tutto, non preserva nulla, diventando inutile come lo sarebbe una mappa in scala 1:1 e quindi presentandosi come l’antitesi della pratica di archiviazione. Perciò i vecchi media sembrano essenzialmente diversi dai nuovi non solo a causa della centralità della comunicazione per i primi e della registrazione per i secondi, ma anche e, da un punto di vista storiografico, soprattutto per la facilità di archiviazione della carta e la difficoltà di archiviazione dei file: il nucleo dei nuovi media è sì la registrazione, ma usa e getta (un’illusione di archiviazione), così come il loro prodotto è sì un immenso archivio, ma confuso. In definitiva la registrazione a breve termine tipica degli oggetti sociali prodotti con i nuovi media sembra più simile a quella parziale e frammentata propria della cronaca, anziché essere l’evoluzione della registrazione archivistica e collezionistica – storica – propria della scrittura, e questo ha conseguenze non solo dal punto di vista storiografico, ma anche ontologico, dato che la perdita della registrazione digitale con cui si è dato vita a un oggetto sociale ne decreterebbe la scomparsa, producendo una responsabilizzazione a orologeria.
Aprendo la sfera della motivazione all’azione a una pluralità di sollecitazioni esterne irriducibili a un’origine monocausale, come la legge morale kantiana o il capitale marxiano, Ferraris si emancipa anche dalla “fisica del potere”, articolandola in una più complessa “microfisica del potere” à la Foucault. Siccome il potere sta nei flussi di scrittura che impartiscono ordini, chiamando alla mobilitazione, e visto che grazie al web assistiamo a una iper-registrazione a cui consegue una iper-responsabilizzazione, è necessario interpretare il potere come un “reticolo fatto di relazioni, scambi, strutture minime e non evidenti” (p. 36), con la differenza, rispetto al filosofo francese, che questo reticolo deontico non dipende dal sapere, ma dal più complesso alveo delle registrazioni (p. 35-37).
Il nucleo della teoria della motivazione di Maurizio Ferraris, tuttavia, risiede nella disposizione umana, lo hexis aristotelico, ed è proprio questo elemento a essere il fulcro della rivelazione portata dal web (p. 63-77). Così come siamo disposti ad accogliere le “chiamate alle ARMI”, abbiamo essenzialmente una disposizione (prima passiva, di ricezione, e poi attiva, di intenzione) nei confronti dell’intero mondo sociale: siamo esposti non solo a sollecitazioni economiche (il capitale), ma anche psicologiche (l’intenzionalità collettiva), tecnologiche (il dispositivo), e in definitiva antropologiche (la dipendenza). La condizione umana è di sociodipendenza, non di sociocostruzione, come è evidente dal fatto che solo piccole porzioni del mondo sociale sono create grazie all’intenzionalità – ad esempio gli oggetti istituzionali, quali i matrimoni o le università – mentre “la massima parte della realtà sociale […] è socialmente dipendente: il patriarcato, la schiavitù, Giove e Giunone, i rapporti di subordinazione, il carisma non sarebbero esistiti se non ci fossero stati gli uomini, ma è difficile immaginare la scena di due persone che inventano Giove, il carisma o la schiavitù” (p. 78). L’antropologia negativa proposta si articola proprio grazie all’idea che l’umano sia sociodipendente e alla convinzione che il mondo sociale come quello naturale siano intrinsecamente gerarchici.
Oltre alla sociodipendenza, l’elemento che completa l’antropologia discussa in Mobilitazione totale è l’opacità. Se si abbandona l’idea della costruzione consapevole della società in favore della sua ricezione inconsapevole, l’uomo diventa opaco a sé stesso, perde l’accesso privilegiato alla comprensione del sociale e di sé. Quest’opacità umana e sociale è dovuta alla struttura fondamentale tramite la quale ha luogo l’ontogenesi, vale a dire l’emersione. È questo lo strumento filosofico che Ferraris prende dalla cassetta degli attrezzi, dopo avervi riposto quello della costruzione – e quindi, in parte, anche quello della decostruzione. Grazie alla registrazione, dal mondo fisico emerge il mondo sociale, così come da questo emerge l’uomo e, solo a un ultimo stadio, emergono l’intenzionalità, la volontà e la responsabilità. Ognuno di questi passaggi implica una complessità d’interazioni tale da decretarne l’opacità agli occhi dell’uomo, così come comporta l’irriducibilità dell’emerso da ciò da cui emerge, permettendo a Ferraris di legare l’umano al naturale e al sociale senza proporre un riduzionismo e giustificando la possibilità del libero arbitrio. La responsabilità, quindi, non può essere appiattita al sociale e, ancor prima, al fisico dai quali emerge, così come non può essere pensata come indipendente da questi, il che implicherebbe un rovesciamento dell’ontogenesi proposta, ammettendo l’esistenza primordiale di uno stato di natura, in cui l’uomo, autonomamente e nonostante la sua condizione presociale, è dotato di tutto ciò che serve per la costruzione della realtà sociale.
La direzione che ha preso il Nuovo Realismo è proprio quella dell’indagine sull’emergentismo, prospettiva introdotta in ambito positivista, in particolare da John Stuart Mill (Sistema di logica deduttiva e induttiva, 1843), e sviluppata nei primi decenni del Novecento da autori come Samuel Alexander (Spazio, Tempo e Deità, 1920), che è stata utile per spiegare la causalità dei fenomeni, una volta abbandonato il principio esterno – quello divino – fondante la visione teologica del mondo. L’emersione, in fondo, è la conseguenza di una impostazione ontogenetica sostanzialmente darwiniana e di una filosofia critica nei confronti dell’idealismo.
Sociodipendenza, opacità e struttura essenzialmente subordinante del naturale, del sociale e dell’umano sembrano non lasciar spazio a una prospettiva di liberazione dalla mobilitazione totale. L’antropologia negativa, infatti, è storicamente proposta dai conservatori per giustificare l’utilità delle dolci catene del controllo sociale, mentre le dottrine politiche dell’emancipazione insistono sulla fiducia nel potere dell’uomo di dare vita a una nuova realtà sociale, una volta annichilita quella precedente – idea che presuppone sia l’adozione di una teoria ontogenetica che pone l’uomo come antecedente (e causa) della realtà sociale, sia il sostegno di una teoria della motivazione all’azione fondata sull’autonomia. Nonostante questo limite storico, secondo Ferraris, proprio perché la volontà emerge, e non è semplicemente causata, dalla realtà sociale, non si deve intendere che “la risposta sia obbligata, e soprattutto che debba ridursi a ribadire lo stato di servitù volontaria che sembra essere una costante antropologica” (p. 87). La critica e il conflitto non sono esclusi dall’adozione di questa antropologia negativa, ma è necessario prendere coscienza di questa condizione limitata e opaca in cui si trova l’uomo, affinché una prospettiva di liberazione possa avere gli strumenti per affrontare la complessità della realtà sociale. Bisogna reagire al complesso sistema di documenti dai quali dipende il potere con un’uguale complessità, cioè con la cultura, infatti nota Ferraris: “la natura ammette strutturazioni gerarchiche, anzi, è intrinsecamente gerarchica, e tutto lo sforzo della cultura consiste nel decostruire questa gerarchia, e nel ridurre con la tecnica lo svantaggio fisico rispetto alla forza bruta” (pp. 97-98). Solo la cultura permette di uscire dalla mobilitazione totale a cui siamo chiamati, cioè permette di sapere che cosa rispondere alla mobilitazione, senza assecondarla ciecamente. Perciò la proposta di Ferraris si struttura sul ripensamento delle discipline umanistiche, auspicando un loro uso politico di liberazione che potrebbe essere facilitato dagli apparati di mobilitazione. Il ripensamento delle humanities parte dal superamento degli idola che limitano il potenziale della cultura: da una parte la scissione, vale a dire la specializzazione moderna dei saperi, che implica l’abbandono del sospetto con cui il postmodernismo ha guardato alla conoscenza, e dall’altra l’utilità, cioè la professionalizzazione delle discipline umanistiche, che impone di legare il sapere umanistico al risultato economico. Superati questi ostacoli, che gli umanisti impongono a sé stessi, la cultura potrà svolgere la sua funzione di alfabetizzazione e di formazione, aprendo le porte alla risposta umanistica che prepara l’uomo a gestire la mobilitazione totale in cui è gettato.

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