martedì , 19 marzo 2024
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95. Recensione a: Gianluca Bianchi, Lévinas e la difesa dell’interiorità, pref. di Emanuele Felice, Mimesis, Milano-Udine 2019, pp. 148. (Edoardo Poli)

Gianluca Bianchi, nel suo testo Lévinas e la difesa dell’interiorità, tenta, tramite una analisi stringente dell’opera più conosciuta e, forse, sistematica di Levinas – Totalità e Infinito – l’apologia dell’interiorità dell’io. Sebbene Levinas stesso dichiari la sua intenzione di difendere la soggettività, lo fa tuttavia in un modo particolare, ovvero in relazione all’Altro o all’esteriorità, dunque all’idea di Infinito.
Bianchi, al contrario, vuole, attraverso due fondamentali proposte teoretiche, la teoria della sensibilità e il desiderio dell’inizio, mostrare come l’interiorità del soggetto sia necessaria per un rapporto ancora migliore con l’Altro rispetto a quello che Levinas propone nella sua opera magna.
Il testo è divisibile idealmente in due parti: la prima che va dal primo al terzo capitolo, mentre la seconda dal quarto al sesto: tale suddivisione è funzionale all’esposizione, con tanto di riferimento puntuale ai testi, dei due punti teoretici poc’anzi indicati.
Già nell’introduzione è possiible notare un passaggio interessante, non privo di rischi, poiché Bianchi afferma che «di fatto, Levinas propone quello che è un grande e ingegnoso sistema. Levinas non è, come è stato sostenuto, il più grande filosofo morale del XX secolo. Semmai, è il più grande filosofo sistematico e metafisico del XX secolo» (p. 15). Il motivo per cui Levinas non sarebbe un filosofo morale, bensì un metafisico, sarebbe insito nella sua proposta filosofica, poiché la metafisica coinciderebbe con l’etica. Metafisica, per Levinas, vorrebbe dire lo sconvolgimento del Medesimo da parte dell’Altro: in questa proposta Bianchi vedrebbe una struttura ontologica piuttosto che morale, in quanto Levinas non fornisce alcun precetto etico che influisca sul comportamento del soggetto. Al contrario, i due principi cardine del progetto filosofico levinassiano – il “non uccidere” e l’essere-per-l’altro – «dipendono dalla conformazione dell’essere, dal modo che il soggetto ha di vederne la struttura attraverso lo psichismo della propria interiorità» (ibid.). Bisognerebbe puntualizzare che per Levinas la metafisica precede l’ontologia: già prima di ogni comprensione dell’essere, l’ente è in rapporto con l’alterità, ma non in una dimensione di potenza e volontà, bensì in un faccia a faccia che fa sorgere nell’ego il Desiderio dell’Infinito, di qualcosa che eccede il soddisfacimento di ogni bisogno, di ogni mancanza. Sebbene il confronto con l’ontologia sia sempre presente nell’opera levinassiana, divenendo forse il tema principale delle riflessioni del filosofo francese, possiamo affermare che l’eticità dei principi levinassiani può portare a una morale, poiché permette al soggetto di plasmare la propria condotta in modo tale da privilegiare l’alterità, difenderla dalla solitudine che l’esposizione alla morte comporta, rettitudine che espone all’omicidio ma anche al sacrificio.
La dimensione del godimento, di un soggetto isolato e felice, è la base dalla quale Bianchi parte per esporre la sua teoria della sensibilità, attraverso l’impianto teorico levinassiano. Difatti, Levinas dedica un’ampia sezione a questo tema. La sensibilità, per l’autore, permette a Levinas di compiere un passaggio importante dall’intuizione oggettivante a quella del godimento, cioè dalla rappresentazione degli oggetti all’assimilazione di questi, tramite due logiche che, tuttavia, hanno un funzionamento diverso. L’intenzionalità oggettivante, propria dell’apparato concettuale husserliano, è distinta in due momenti, uno negativo e uno positivo: il primo significherebbe ridurre la realtà al soggetto stesso, grazie all’adeguazione dell’oggetto al soggetto, coscienza che intenziona un ente e lo riconduce a sé; il secondo, quello positivo, invece, permetterebbe all’io di ritornare a sé come Medesimo, nonostante tutte le rappresentazioni che si susseguono. In questo processo vediamo un movimento che va dal soggetto all’oggetto, poiché è la coscienza che dona senso alla realtà che lo circonda. Nell’intenzionalità del godimento, invece, abbiamo la possibilità che l’oggetto cambi la costituzione del soggetto: è il corpo che ponendosi nel mondo vive un rapporto che lo vede circondato dall’elemento: «rispetto all’elemento il soggetto si trova in una situazione che possiamo definire “essere-in” o “essere dentro”; in alternativa possiamo dire che il soggetto si approccia all’elemento per mezzo della propria sensibilità» (p. 36). Il “vivere di…” che Levinas propone, del quale la sensibilità è il modo, vede il soggetto porsi in mezzo al mondo senza doverlo necessariamente comprendere; non è neanche tutto in vista dell’esserci, come vorrebbe Heidegger, ma si mangia per mangiare o semplicemente si vive per il gusto di vivere: è il soddisfacimento immediato e gratuito di un bisogno.
Nella dimensione egoistica del soggetto, in cui egli vive ateisticamente, cioè senza rapportarsi a nessun altro che non sia sé stesso, compare, tuttavia, il volto: «la cosa in sé che emerge dall’essere è un volto» (p. 41), segno dell’entrata in scena dell’alterità, che permetterebbe al soggetto di vivere religiosamente, ovvero, in un rapporto di trascendenza con l’Altro.
Grazie alla sua teoria della sensibilità, sintetizzata in sette proposizioni, Bianchi, insieme a Levinas, mostra che l’io e la coscienza non sono la stessa cosa, poiché vi è uno scarto tra ciò che l’io vive e quello che rappresenta, il che ci porta a dire che la sensazione è ciò che permette ogni rappresentazione, ma viene sconvolta quando Altri si manifesta, portando il rapporto non più sul piano del fenomenico ma dell’essere: «passare all’essere significa oltrepassare la dimensione fenomenica della vita» (p. 46). Si va oltre, cioè, all’esperienza di godimento propria dell’io ateo, per dirigersi verso l’esperienza per eccellenza. La sensibilità, in ogni caso, ci mostra come il soggetto non sia prima di tutto uno spettatore ma un essere nel mondo, che è immerso in esso e ne gode.
L’accento si sposta poi dalla sensazione al linguaggio, nonostante resti lo stesso quesito di fondo a cui però non corrisponde la medesima risposta: «in definitiva, avevamo già posto la domanda – “è possibile individuare qualcosa di esteriore che vada oltre il mondo fenomenico dell’io, cioè che non venga riassorbito entro la sua vita riflessiva?” – e avevamo già fornito la risposta – “la rivelazione dell’altro come cosa in sé” –, ma l’avevamo fatta in termini differenti» (p. 59). Ora l’accento si sposta sull’apparizione di Altri, ma legata alla parola e al linguaggio.
A differenza dell’interiorità espressa dalla sensibilità, il linguaggio permette all’altro di esprimersi, di significare qualcosa, costruendo le basi per quella che sarà la responsabilità del soggetto per l’altro, poiché è nel linguaggio che quest’ultimo pretende una risposta. Il linguaggio permetterebbe, secondo Bianchi, quell’eccedenza che apre il dialogo tra due cose in sé: l’io e l’altro. Incontro che è definito come giustizia: l’altro mi pone delle domande a cui è necessario rispondere e questo apre la strada alla ricerca dell verità; morale, poi, che inizia nel momento in cui altri è arbitrariamente esposto alla violenza, alla possibilità di essere ucciso. Davanti a questa possibilità di violare il comandamento “non uccidere”, c’è l’esigenza di un’apologia, di una difesa che l’io può portare avanti individualmente, non affidandosi alla neutralità delle istituzioni o della storia: «la ricerca della verità è dunque un percorso puramente individuale. In cui l’io […] si fa essere morale» (p. 66). E l’essere morale non può che esprimersi in linguaggio, poiché solo tramite quest’ultimo è possibile instaurare un rapporto fecondo, mentre il silenzio è ciò che ci spaventa, afferma Bianchi, in quanto «esatto opposto della possibilità dell’io di entrare in relazione con l’altro» (p. 74).
La seconda parte del testo ha un duplice obiettivo: da una parte, proporre l’inizio come concetto chiave affinché l’altro sia il senso ultimo del soggetto; dall’altra trovare un nesso tra la teoria della sensibilità e quella del desiderio dell’inizio. I cardini di questa teoria sono l’insegnamento, dunque la figura del maestro, il perdono e il rapporto erotico.
Il concetto di insegnamento è fondamentale perché è attraverso la signoria del maestro che nasce nel soggetto del godimento la colpa che deve portarlo a redimersi, a giustificarsi e dunque a costruire una personale apologia. All’idea di redenzione, che Levinas mutua da Rosenzweig, si aggiunge quella di perdono: i due termini sono simultanei, si dispiegano nel tempo e danno avvio a una serie di nuovi inizi, in cui il tempo si fluidifica: al contrario dell’oblio, il perdono mostra come il passato possa mantenersi anche nel presente. Nel perdono non viene dimenticata la colpa, non si è innocenti ma si permette di andare oltre, di iniziare di nuovo.
L’idea di eros in Levinas è ambigua, poiché nell’amore l’io soddisfa il suo bisogno istintuale di godimento, ma, allo stesso tempo, l’altro è visto come ciò che trascende, come il volto. La relazione tra due innamorati per Levinas è una società chiusa, che non tiene conto del terzo.
L’idea di Bianchi è che l’eros possa essere sia l’equivoco per eccellenza, come direbbe Levinas, ma anche l’inizio per eccellenza, poiché ogni rapporto amoroso può finire, ma nell’essere umano vi è questo desiderio continuo di instaurare un nuovo rapporto, che non cancella quelli passati, come il perdono, ma che in più si concentra esclusivamente nel presente, su un inizio specifico.
È interessante come Bianchi insista sull’eros inteso come fecondità, che tuttavia non chiude il senso ultimo del soggetto, in quanto nella trascendenza che si esprime tramite il figlio viene mantenuta quella che l’autore chiama la trama dell’essere, ma che al soggetto in sé non apporterebbe nulla. Infatti, Levinas, in Totalità e Infinito, pone nel figlio la trascendenza che va al di là del volto, un io che è e, contemporaneamente, non è il figlio. Bianchi, a questo proposito, cerca di allargare la sua idea di eros anche a un rapporto che non sia immesso all’interno di logiche famigliari o procreative, in cui l’amore può esprimersi come desiderio dell’altro, donando senso all’io stesso. Non bisogna rinunciare al rapporto erotico: «rinunciare alla realizzazione di un nuovo inizio erotico significa rinunciare a una parte di sé che nutre l’amor proprio. Ma non è una rinuncia a sé totale. L’apertura all’altro, che in questo caso assume il ruolo di compagno per la vita, può comunque portare alla realizzazione dell’io, ma secondo gradi e aspetti differenti» (p. 124).
Quello che Bianchi chiama il vivere più che metafisicamente è un dramma in tre atti: l’io attraverso la sensibilità coglie la presenza dell’Altro, ne gode attraverso l’eros; l’innamoramento finisce, la relazione cessa e l’io soffre il dolore della fine, ma resta in lui il desiderio vivo di poter cominciare nuovamente; nel terzo momento, il soggetto si mantiene sospeso in questo desiderio del nuovo inizio e di un inizio effettivo.
In generale, il libro di esordio di Gianluca Bianchi cerca di partire da Levinas per poi costruire una teoria metafisica indipendente dal contesto levinassiano. Difatti, il lessico che l’autore usa si discosta abbastanza da quello del filosofo francese, in quanto è necessario nello studio del suo pensiero tenere conto anche degli sviluppi successivi a Totalità e Infinito. Un lessico troppo ontologico, come quello che usa Bianchi, sebbene lo riprenda dall’opera del ’61, non è accettabile alla luce della svolta di Altrimenti che essere, dove il rapporto con l’ontologia subisce una brusca frattura, tanto da condizionare la ricerca successiva del filosofo francese, che proverà sempre di più a pensare a un’alternativa alla dicotomia essere/non-essere. Anche il concetto di fecondità che viene adottato in Totalità e Infinito non è quello che perdurerà nelle altre opere, poiché andrà sempre più scomparendo e la stessa ambiguità dell’eros sarà intesa solamente nel senso dell’amore senza concupiscenza.
Ciononostante, il modo in cui Bianchi articola la sua proposta ci mostra come l’impianto concettuale levinassiano sia applicabile anche al di là del suo sistema, come lo definisce Bianchi, scaturendo in un modello non solo teoretico, ma anche morale, nonostante il giudizio espresso dall’autore e analizzato in precedenza. Attraverso una ridefinizione del senso del soggetto, in un vivere più che metafisicamente, viene rinnovato e ampliato il modo in cui il Desiderio può chiamare il soggetto stesso, malgrado la sua mortalità e la sua interiorità, a una dimensione di trascendenza che sfocia nella responsabilità per l’altro, ma non riducendosi interamente a questa, annullandone il punto di vista. Il soggetto del godimento permane, si apre all’Altro e resta in un’eccedenza di senso che permette al Medesimo di continuare a desiderare questa relazione, non riducendo l’Altro a sé. Questo è il progetto, a partire da e oltre Levinas, del vivere più che metafisicamente espresso in questo testo.

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