martedì , 19 marzo 2024
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121. Recensione a: Andrei Oisteanu, L’immagine dell’ebreo. Stereotipi antisemiti nella cultura romena e dell’Europa centro-orientale, Salomone Belforte & C., Livorno 2018, pp. 902. (Igor Tavilla)

Nel saggio L’immagine dell’ebreo nella cultura romena (questo il titolo dell’opera nella versione originale, apparsa in prima edizione nel 2001 per i tipi dell’editrice Humanitas di Bucarest, e giunta nel 2012 alla terza edizione [Polirom, Iași] rivista, ampliata e illustrata) Andrei Oișteanu, storico delle religioni e della mentalità, etnologo e antropologo culturale romeno, si è proposto di indagare «l’origine, lo sviluppo nel tempo, la diffusione spaziale e la sopravvivenza […] dei cliché che costituiscono il ritratto fisico, professionale, spirituale, morale, magico-mitico e religioso dell’“ebreo immaginario”» (p. 19). Finanziato dal Centro Internazionale per lo Studio dell’Antisemitismo (Università di Gerusalemme), il testo di Oișteanu affronta una tematica assai sensibile, dalla quale per lungo tempo gli addetti ai lavori si sono mantenuti prudentemente a distanza. Sotto la dittatura nazional-comunista, infatti, l’aspirazione a realizzare una società omogenea dal punto di vista etnico-culturale ha fatto sì che ogni riferimento agli ebrei, come anche agli zingari, nell’ambito degli studi etnologici, folclorici e delle scienze sociali venisse accuratamente evitato.
Nell’introduzione cha apre il saggio, Oișteanu rivendica alla propria opera la categoria dell’imagologia etnica, “una scienza relativamente giovane, fiorita nel mondo accademico europeo e americano specialmente negli ultimi decenni del Novecento” (p. 30). Esaminando un campione sorprendentemente ampio di fonti folcloriche, etnologiche, letterarie e iconografiche, e avvalendosi di un approccio comparativo, che percorre con sguardo sinottico lo spazio centro-europeo e non solo, Oișteanu ricostruisce l’immagine stereotipica dell’ebreo, prendendo atto del divario esistente tra il ritratto dell’“ebreo immaginario” e quello dell’“ebreo reale” e al tempo stesso – a specchio – portando impietosamente alla luce lo stereotipo autoindulgente del romeno accogliente e tollerante in materia religiosa, ritratto anch’esso immaginario, destinato a non trovare alcuna corrispondenza nei fatti, almeno fino al 1923 quando la Costituzione sancì effettivamente il riconoscimento dei pieni diritti civili e politici agli ebrei e alle altre minoranze religiose.
Nel primo capitolo Oișteanu traccia il ritratto fisico dell’ebreo: “labbra carnose, sensuali (il labbro inferiore un po’ sporgente) e un grande naso adunco” (p. 83). La caratteristica acconciatura, i boccoli rituali e la barba irsuta completano un identikit immediatamente riconoscibile a cui si sono arresi persino scrittori come Heinrich Heine e Thomas Mann e intellettuali del calibro di Nicolae Iorga, per citarne solo alcuni. All’ebreo vengono attribuiti anche efelidi e capelli rossi e a questo riguardo la saggezza popolare prontamente chiosa: “gli uomini dai capelli rossi sono malvagi” (p. 131). La demonizzazione dell’“uomo rosso” è del resto una superstizione ben nota anche nell’Europa occidentale come, tra l’altro, attesta – aggiungiamo noi – il falso nesso di causalità con cui si apre la celebre novella di Giovanni Verga Rosso Malpelo. Un altro tratto persistente nella caratterizzazione spregiativa dell’ebreo è la sua proverbiale sporcizia e il suo odore pestilenziale. Indice palpabile dell’alterità – “lo straniero ha un odore diverso” – il foetor iudaicus trova in verità la propria giustificazione sul piano teologico, quale stigma del deicidio e ancor più dell’impurità conseguente al rifiuto di sottoporsi al rito battesimale.
Il profilo professionale dell’ebreo immaginario, affrontato da Oișteanu nel secondo capitolo, lo descrive come unicamente dedito al commercio, una professione di per sé vergognosa, praticata per giunta dall’ebreo con risaputa disonestà. Come recita un detto romeno: “un greco inganna due romeni, un armeno inganna due greci e un ebreo inganna due armeni” (p. 253). L’identificazione dell’ebreo con alcune professioni moralmente disdicevoli è stata a tal punto completa che “l’etnonimo ‘ebreo’, originariamente un attributo etnico, veniva ora impiegato per designare una caratteristica professionale (commerciante, usurario, taverniere, ecc.) e morale (imbroglione, astuto, ecc.)” (p. 291). L’ostilità nei confronti dell’ebreo mercante trova la propria ragione di essere nella percezione della natura “parassitaria” del commercio e nella vocazione anti-capitalista dell’etica ortodossa (a differenza di quella protestante di cui parlava Weber) la quale ritiene di fatto che l’unico lavoro onesto sia quello dei campi. In realtà gli ebrei, che non erano solo commercianti, ma anche abili artigiani e in qualche caso persino agricoltori, contribuirono con il loro lavoro in misura determinante al fabbisogno materiale della comunità ospite, come fu drammaticamente evidente all’indomani dei provvedimenti di espulsione e deportazione che colpirono gli ebrei di Romania nel 1941 con conseguenze deleterie sul tessuto produttivo della nazione.
Nel terzo capitolo, dedicato al ritratto morale e intellettuale dell’ebreo immaginario, all’ebreo viene riconosciuta una intelligenza spiccata, che degenera in furbizia, scaltrezza e imbroglio. Tra i tratti morali predominano anche la remissività e la viltà. “In guerra non è morto nessun ebreo” dirà Nicolae Iorga, smentendo la realtà dei fatti che ha visto molti ebrei romeni partecipare con entusiasmo alla guerra balcanica del 1913 e alla guerra di riunificazione del paese 1916-1919 dando prova di eroismo e valore. Ciò non bastò a dispensare gli ebrei romeni dall’ignominiosa accusa di mancanza di lealtà e tradimento. Anche quando si esprime un sincero apprezzamento delle qualità umane dell’ebreo, ciò avviene sempre in antitesi alla sua identità ebraica: “è un brav’uomo, pur essendo giudeo”. Così affermazioni apparentemente obiettive, come “non tutti gli ebrei sono cattivi” nascondono un pregiudizio ancora più subdolo, giacché tentano maldestramente di riconciliare la realtà con lo stereotipo. Dalle leggende eziologiche sui caratteri etnici assegnati da Dio ai vari popoli, si deducono altri motivi di commiserazione. L’ebreo è sordo e cieco, come l’aspide, perché refrattario alla buona novella, e infatti nell’iconologia bizantina la personificazione della Sinagoga ha gli occhi bendati a indicare il mancato riconoscimento del Messia.
Nel quarto capitolo, Il ritratto mitico e magico, Oișteanu analizza il fenomeno della demonizzazione dell’ebreo nei suoi presupposti antropologici e teologici. “Essendo l’ebreo – secondo la mentalità europea – l’homo alienus per eccellenza, il prototipo dello ‘straniero’, dell’‘altro’, era in qualche modo naturale ch’egli fosse designato il cliente prediletto dell’Inferno” (p. 547). All’ebreo è stato attribuito sovente lo statuto di stregone negromante, dedito a varie pratiche demoniache quali: l’omicidio rituale di bambini cristiani, la profanazione dei sacramenti, le messe nere, la pratica delle scienze occulte. Nell’Europa centro-orientale, l’ebreo mago assume le sembianze più rassicuranti del solomonar, uno stregone popolare dotato di poteri meteorologici, soprattutto apportatore di pioggia. La natura infera dell’ebreo affonda in realtà le proprie radici nella leggenda dell’ebreo errante, il calzolaio Ahasverus, maledetto da Gesù a non trovare mai requie per avere scacciato il Crocifisso sulla via del Calvario. Alla popolarità della leggenda ha certamente contribuito la violenta polemica antisemita di Lutero, e le migrazioni di migliaia di ebrei cacciati tra il XIV e XV secolo verso est non hanno fatto altro che fornire al mito dell’eterno ebreo errante una controprova fattuale. A tal punto l’erranza perpetua era percepita un carattere indissolubilmente associato all’ebreo, che persino l’apolide Emil Cioran poteva scrivere di sé: “Je suis métaphysiquement juif”.
Nel quinto e ultimo capitolo Oișteanu delinea infine il ritratto religioso dell’ebreo. Sugli ebrei grava l’accusa di deicìdio, oltre che il martirio di alcuni santi e una quantità di atti di profanazione (dell’ostia, della croce, della chiesa o dell’icona) che riattualizzano la loro colpa originaria. La sofferenza plurisecolare del popolo ebraico trova nella perfidia degli ebrei stessi la propria ragione sufficiente – opinione questa tutt’ora diffusa presso ampi strati del popolo romeno e non solo. Tuttavia l’accusa più grave imputata agli ebrei resta l’infanticidio rituale, crimine che verrebbe commesso ogni venerdì santo. Se nell’Europa occidentale questa taccia si diffonde relativamente presto – si pensi alla tristemente nota vicenda di “San” Simonino di Trento ucciso nel 1475 –, nell’Europa cristiano-ortodossa si afferma a partire dalla seconda metà del Seicento, e in Romania solo tra Settecento e Ottocento. Mentre poi in Transilvania questa superstizione fu arginata dalle autorità temporali e religiose, in Moldavia e in Valacchia le accuse di omicidio rituale erano frequenti e seguite da persecuzioni e pogrom. A ben vedere, quello dell’omicidio rituale appare essere il più radicato e longevo degli stereotipi mentali, tant’è che ancora nella seconda metà degli anni ’90 del secolo scorso la stampa dava risalto a un presunto traffico di bambini ordito da una organizzazione tentacolare supportata dai servizi segreti israeliani.
Se la ricchezza e la varietà delle informazioni che il testo offre è il pregio sostanziale di questo generoso volume, va riconosciuta a Oișteanu la capacità, certamente non comune tra gli studiosi, di trasfondere una mole davvero imponente di dati, leggende e interpretazioni in una prosa scorrevole e limpida, mai pedante, da cui emerge con forza la contraddizione tra il ritratto dell’ebreo immaginario e quello reale, l’antinomicità delle superstizioni popolari (l’ebreo è sudicio ma la donna ebrea è indescrivibilmente bella e desiderabile, l’ebreo è maledetto ma incontrare un ebreo per strada porta fortuna, ecc.) e il ruolo che la cultura tradizionale ha giocato nell’elaborazione dell’antisemitismo politico. Esiste infatti un’azione reciproca tra gli stereotipi atavici, di matrice folklorica, e quelli che gli esponenti dell’antisemitismo politico hanno confezionato sapendo di fare presa su una mentalità già predisposta a ricevere i loro slogan. Meritano infine di essere segnalate la pregevole qualità tipografica dell’edizione, riccamente corredata di illustrazioni e documenti, con caratteri facilmente leggibili e un adeguato margine di pagina, e la traduzione, sapientemente curata da Horia Corneliu Cicortaș e Francesco Testa che si sono suddivisi in parti uguali la “fatica” traduttiva. Nonostante la considerevole quantità di informazioni che esso veicola, il testo di Oișteanu resta uno strumento agile ed efficacie, oltre che per la mai abbastanza elogiata felicità di scrittura, anche perché ogni capitolo può essere affrontato separatamente, essendo un ritratto “monografico” in sé concluso e autosufficiente. L’ingegnoso sistema di note, concepito dall’autore, consente poi di godere appieno della lettura senza affaticarsi in acrobatici ed estenuanti rinvii al monumentale apparato bibliografico (nell’ordine dei mille titoli citati), a cui non è strettamente necessario ricorrere, se non quando l’indice di nota, contrassegnato in grassetto, ci inviti discretamente a farlo.

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