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133. Recensione a: Mircea Eliade, Da Zalmoxis a Gengis Khan. Studi comparati sulle religioni e il folklore della Dacia e dell’Europa orientale, trad. it. di Alberto Sobrero, a cura di Horia Corneliu Cicortas, Edizioni Mediterranee, Roma 2022, pp. 276. (Igor Tavilla)

Horia Corneliu Cicortaș, traduttore e curatore di diversi volumi di Mircea Eliade, Emil Cioran, Ioan Petru Culianu e altri autori di assoluto rilievo della compagine romena, cura per le Edizioni Mediterranee una nuova edizione del Zalmoxis eliadiano, apparso per la prima volta nella collana “Bibliothèque historique” dell’editore parigino Payot (1970). La traduzione italiana di Alberto Sobrero, uscita nell’ormai lontano 1975, presso Astrolabio-Ubaldini (Roma), viene oggi riproposta, in un’edizione riveduta e corretta, accompagnata dall’introduzione del curatore e con in appendice la traduzione di un breve testo dedicato alla danza rituale dei Călușari, inedito in italiano, che nelle intenzioni di Eliade avrebbe dovuto integrare le successive edizioni dell’opera.
Da Zalmoxis a Gengis Khan si presenta come un “mosaico” composto da otto capitoli, sei dei quali erano stati pubblicati in precedenza sotto forma di saggi su vari periodici specializzati, tra cui l’omonima “Zalmoxis”, la rivista di studi religiosi diretta dallo stesso Eliade tra il 1938 e il 1942. A dispetto dell’apparente “artificialità” del volume, frutto dell’assemblaggio di materiali disparati, diversi studiosi, tra cui lo stesso curatore, hanno sottolineato l’unità di metodo che accomuna i testi compresi nella silloge, frutto di una ricerca svolta nella prospettiva della storia generale delle religioni, e caratterizzata da un approccio di tipo comparativo, come il sottotitolo dell’opera si incarica di documentare. Curiosamente, ma non per caso, Da Zalmoxis a Gengis Khan fu pubblicato anche nella Romania comunista, giacché in quest’opera, un unicum in tutta la produzione post-bellica, Eliade – che allora veniva “corteggiato” dal regime – si occupava di temi culturali specificamente romeni, andando involontariamente incontro all’indirizzo nazionalista impresso all’ideologia di partito da Ceaușescu.
Nella Prefazione, Eliade enuncia la finalità dell’opera, quella di «presentare al lettore gli aspetti principali della religione dei Geto-Daci e le più importanti tradizioni mitologiche e creazioni folkloriche della cultura romena» (p. 15), dando così prova della possibilità di un’ermeneutica di universi spirituali arcaici, privi di una espressione scritta. Non dimentichiamo che, in altre occasioni, Eliade aveva presentato il folklore non solo come “strumento di conoscenza” degli universi magici e immaginari, ma anche come il luogo di sedimentazione di una “religione cosmica” risalente al Neolitico le cui strutture arcaiche accomunano, senza perciò esaurirne il significato, tutte le grandi religioni e civiltà.
Possiamo dare solo un breve cenno ai diversi spunti contenuti in quest’opera. «In una prospettiva mitologica della storia si potrebbe dire che questo popolo [i Daci] fu generato sotto il segno del lupo, predestinato a guerre, a invasioni, ed emigrazioni» (p. 30). I principati romeni furono fondati in seguito alle invasioni di Gengis-Khan e dei suoi successori, il cui antenato, così narra il mito genealogico che li riguarda, era un lupo grigio. Nel primo capitolo, “I Daci e i lupi”, Eliade tenta perciò di spiegare la derivazione dell’eponimo etnico dal nome stesso del lupo (frigio: dàos). Tra le varie ipotesi prese in esame, il nome potrebbe discendere dall’abitudine dei Daci di tramutarsi in lupi (licantropia) o di imitare ritualmente il comportamento del lupo in occasione di iniziazioni militari, appropriandosi magicamente delle proprietà della belva o indossando la pelle del lupo per partecipare della natura del carnivoro, realizzando così la metamorfosi di un essere umano in una belva. Verosimilmente, dunque, il nome di una confraternita guerriera potrebbe essere passato ad indicare l’intera tribù oppure potrebbe essere stato adottato per effetto della conquista da parte di un gruppo di giovani immigrati vincitori divenuti successivamente l’aristocrazia guerriera.
Il secondo capitolo è dedicato alla figura del Dio dei Geti Zalmoxis, di cui riferisce Erodoto nelle sue Storie. A partire da questa fonte, Eliade mette in evidenza alcuni aspetti mitico-religiosi sfuggiti alle maglie dell’interpretazione razionalista dello stesso Erodoto: l’occultamento per tre anni di Zalmoxis nella dimora sotterranea che si era fatta costruire appare allo storico delle religioni romeno come un tipico esempio di rituale iniziatico, il descensus ad inferos che prelude alla “ricomparsa” del dio. Il nucleo centrale dell’insegnamento di Zalmoxis, come del resto dei Misteri eleusini ed orfici, è la conquista dell’immortalità dell’anima. Per Eliade il culto di Zalmoxis non è assimilabile dunque a esperienze sciamaniche o taumaturgiche, sull’esempio di quelle di Abari o di Empedocle, né tantomeno è un semplice culto dei morti, o uno dei tanti miti riconducibili alla mistica dell’agricoltura. Ben lo spiega, il sacrificio umano che a Zalmoxis era tributato. Ogni quattro anni i Geti “inviavano” al dio un loro messaggero lanciandolo in aria e facendolo trafiggere dalle lance per ristabilire il contatto originario e riferire al dio i loro desideri. Il sacrificio – compare qui un tema fondamentale di tutta la fenomenologia del sacro di cui Eliade è stato interprete – non fa altro che ripetere simbolicamente la fondazione del culto, riattualizzando l’epifania del dio dopo tre anni di occultamento.
Nel terzo capitolo, Eliade indaga le presunte influenze bogomile sul folklore romeno, prendendo in esame il mito dell’immersione cosmogonica e della creazione del mondo ad opera di due esseri antagonisti: il buon Dio e il diavolo. Prima Dio crea la terra con l’aiuto del diavolo, che si immerge per tre volte nelle acque primordiali riportando in superficie la “semenza della Terra”, e poi grazie al riccio, il più astuto degli animali, viene a capo di un problema altrimenti insolubile: come fare posto alle acque dopo che la terra si è espansa a dismisura. Il Dio di cui parla la leggenda è molto diverso dal Dio onnipotente e onnisciente della credenza cristiana: affetto da una stanchezza prima fisica e poi mentale, il buon Dio ricorda il deus otiosus delle culture religiose più arcaiche. Eliade sconfessa perciò l’interpretazione “dualista” del mito, ricordando, tra l’altro, come in realtà esso, pur essendo tra le leggende più diffuse sulla terra, sia sconosciuto in Iran, patria di ogni dualismo. Probabilmente in origine era Dio stesso ad immergersi, poi sono intervenute modificazioni successive, che hanno fatto sì il mito venisse reinterpretato e rinnovato. Gli elementi dualistici si sarebbero dunque innestati solo successivamente, su una forma pre-dualistica «patrimonio religioso di popolazioni protostoriche dell’Europa sud-orientale» (p. 114).
Nel quarto capitolo, “Il principe Dragoș e la ‘caccia rituale’”, Eliade prende in esame il mito di fondazione del Principato di Moldavia ad opera di Dragoș, voivoda di Maramureș ai confini nord-orientali dell’Ungheria, che durante una battuta di caccia all’uro si era spinto fino alla Moldavia per cacciare la sua preda. Sebbene il tema della caccia all’uro sia indubbiamente autoctono, l’uro funge da animale guida – motivo questo largamente diffuso in tutti i miti d’origine dell’Occidente: «l’apparizione, l’inseguimento e, qualche volta, l’uccisione di un animale selvaggio o domestico sono in rapporto con il formarsi di un popolo, con la fondazione di una città o di una colonia, o con l’interrogazione di un oracolo» (p. 135). Lungi dall’essere il semplice adattamento di una leggenda ungherese, la versione romena del mito testimonia, secondo Eliade, elementi propri dei riti d’iniziazione antichi (tauromachia mediterranea, Misteri di Mitras). La caccia assume dunque i connotati di una prova di tipo eroico: l’inseguimento si conclude infatti con un cambiamento radicale del modo di essere del cacciatore: «Si tratta di una “rottura di livello”: si passa dalla vita alla morte, dal profano al sacro, dalla condizione ordinaria alla sovranità» (p. 150).
Il quinto capitolo, “Mastro Manole e il monastero d’Argeș” affronta la celebre ballata romena del mastro costruttore che per portare a termine la propria opera è costretto a murare viva la sua sposa. Al di là della loro esistenza reale, le immagini di cui le ballate sono intessute manifestano il loro simbolismo primordiale. «In una ballata, come in ogni altra creazione fantastica, non esistono “oggetti reali”, ma immagini, archetipi, simboli» (p. 174). L’immagine del monastero alla cui edificazione Manole attende è dunque una imago mundi e il suo sacrificio cruento si inscrive nell’ambito dei miti cosmogonici, il cui modello esemplare è rappresentato dall’uccisione di un Uomo o gigante primordiale (Ymir, Purusha, P’an-ku) che ha dato origine al cosmo. È questo l’orizzonte mitico all’interno del quale lo storico delle religioni può comprendere l’ideologia che sta a fondamento dei riti di costruzione. Se pare quasi certo che i sacrifici cruenti di costruzione siano una prerogativa dei paleo-coltivatori, Eliade si domanda perché alcuni popoli li abbiano conservati e altri respinti. La ricettività dell’area balcanica rispetto a questo scenario mitico si giustificherebbe col comune sostrato ereditato dai traci e da elementi pre-indeoropei conservatisi meglio che in altre località d’Europa.
Nei capitoli sesto e settimo Eliade considera rispettivamente le pratiche magiche nella Moldavia storica e più in generale il culto della mandragora in Romania. Al di là delle possibili analogie, Eliade esclude categoricamente l’esistenza di un sostrato sciamanico nella cultura popolare romena, contestando l’attribuzione di fenomeni estatici riferiti dal missionario Bandinus (XVII), probabilmente diffusi presso l’etnia Ciango, così come di alcune pratiche rituali di difesa contro la peste (l’innalzamento del priapos di quercia ad ogni crocicchio o il solco tracciato intorno al villaggio da giovani e fanciulle nude), testimoniati invece presso i popoli di etnia slava e Ugrofinnica. Riguardo poi alla “caduta delle Rusalii”, sorta di trance para-estatica che colpisce le donne della regione di Timoc (Serbia) nei tre giorni della Pentecoste, Eliade preferisce raccordare questo fenomeno al tarantismo studiato da Ernesto De Martino. Diversamente, il culto della mandragora risulta ben attestato in Romania. Di esso Eliade fa un dettagliato resoconto, presentando le proprietà magiche della pianta (il cui impiego contempla un ampio ventaglio di possibilità: “per amore”, “per sposarsi”, “per ballare”, ma può anche essere utilizzata “per odio”) e il complesso procedimento di estrazione della radice, a cui in genere attende una “vecchia praticona”.
L’ottavo e ultimo capitolo è dedicato alla pecorella veggente, protagonista della più celebre ballata popolare romena, Miorița (nota anche come La pecorella veggente). Presente in tutte le regioni abitate da Romeni, la notorietà di questo componimento folklorico va ben al di là della perfezione letteraria raggiunta nella versione pubblicata dal poeta Vasile Alecsandri nel 1850. La storia dell’agnellina prodigiosa che rivela l’assassinio del pastorello, con quest’ultimo che non pensa a difendersi ma interpreta la morte come uno sposalizio con “la prima delle regine, la padrona del mondo”, è stata a lungo considerata (basti qui ricordare soltanto lo “spazio mioritico” di Lucian Blaga) come emblematica dell’atteggiamento pessimista, passivo e rassegnato del popolo romeno. Per Eliade, il colind racchiude un significato più arcaico: l’interruzione violenta di una vita rende disponibile una somma di energia che è in grado di animare qualsiasi oggetto o impresa di cui l’uomo sia artefice. Il senso della ballata è piuttosto tragico e va riconosciuto nella volontà del pastore di mutare il proprio destino, trasformando la sua disgrazia in una liturgia cosmica, la sua condanna a morte in “nozze mioritiche”. Il successo della ballata è legato perciò al fatto che in essa il popolo romeno ha riconosciuto a specchio il proprio destino, trovando al contempo rappresentata la possibilità di un riscatto dal “terrore della storia”.
Il volume, che Eliade stesso presentava a Claude-Henri Rocquet, nel libro-intervista L’épreuve di labyrinthe (1978), come “un libro molto personale e al tempo stesso un’esperienza di metodo” avrebbe avuto forse – lo chiarisce il curatore nella sua nota introduttiva – dimensioni ancora maggiori se Eliade non fosse stato contemporaneamente impegnato su altri fronti editoriali, tra tutti quello del suo opus magnum, la Storia delle credenze e delle idee religiose in tre volumi.
Malgrado il carattere apparentemente marginale degli argomenti affrontati, il testo conobbe una notevole diffusione, con traduzioni negli Stati Uniti, in Italia, Giappone, Germania, Spagna e Turchia e, per quanto possibile, dati i progressi compiuti dagli studi di settore negli ultimi cinquant’anni, il suo valore scientifico sembra reggere ancora all’offesa del tempo. Per quanto infatti i primi due capitoli, quello relativo all’eponimo mitico dei Geto-Daci e a Zalmoxis, siano stati oggetto di contestazioni e critiche, l’opera nel suo insieme rimane un punto di riferimento per chiunque intenda orientarsi nella materia, per l’ampiezza della documentazione presa in esame e la ricchezza dei riferimenti e delle informazioni provenienti dall’area romena e balcanica, ma anche da altri spazi culturali eurasiatici. Una ragione in più per salutare con apprezzamento questa interessante iniziativa editoriale.

(25 giugno 2022)

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