martedì , 19 marzo 2024
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127. Recensione a: Ágnes Heller, Tragedia e filosofia. Una storia parallela, a cura di A. Vestrucci, Castelvecchi, Roma 2020, pp. 228. (Stefano Piazzese)

La relazione tra filosofia e tragedia, delineata in termini di storia parallela, è il tema centrale dell’ultima opera (pubblicata postuma) di Ágnes Heller, figura di spicco della cosiddetta Scuola di Budapest. La filosofa parte dall’assunto hegeliano secondo cui un periodo storico è comprensibile solo a partire dalla sua fine. In particolare, tra le due forme del sapere umano in questione – tragedia e filosofia – vi sarebbe una dialettica alba-crepuscolo determinante lo spirito del tempo, ovvero: quando un periodo storico è nella sua massima fioritura la tragedia domina la scena; quando arriva il momento del suo tramonto, compimento, accade che la nottola di Minerva inizi il proprio volo, e dunque il tragico ‘tramonta’ cedendo la propria centralità al sorgere della filosofia. La prima testimonianza storica di questa alternanza dialettica, dice la filosofa, è riconducibile alla figura di Socrate, la cui filosofia fiorì quando la tragedia attica giunse al suo epilogo storico con la parola di Euripide.
Il problema che emerge sin da subito è che Heller considera la storia della filosofia a partire da Socrate. Se è vero che con quest’ultimo ha inizio, ad Atene, un nuovo modo di fare filosofia che è possibile sussumere nella forma dialogico-semantica del l?gos did?nai, evento teoretico che determinerà tutti gli sviluppi storici successivi della filosofia, non bisogna dimenticare che nei secoli che precedono Socrate la filosofia non era inesistente o storicamente presente come un esercizio debole della ragione che andrà rafforzandosi nel tempo: la filosofia nasce grande, come Atena dalla testa di Zeus. Stupisce come una pensatrice che ha studiato Heidegger non ricordi quanto il filosofo sostiene in merito alla fase aurorale della filosofia. Da qui la comodità storiografica (o pregiudizio) molto riduttiva di chiamare i pensatori delle origini con il nome di presocratici. Dunque, se consideriamo l’universo teoretico dei pensatori delle origini e della sofistica, che ha pervaso ogni ambito del sapere e della conoscenza di quel tempo aprendo nuovi orizzonti al pensiero, la tesi di Heller perde di forza. Mentre Eschilo nel 460 a.C. circa, presso il teatro di Dioniso, ad Atene, metteva in scena Prometeo incatenato il fermento della filosofia era già in atto.
Discorso diverso, come diversa è ogni epoca storica, va fatto per la modernità, periodo per il quale gli argomenti dell’opera risultano più precisi e puntuali anche se, ribadisce Heller, l’età moderna è il periodo storico che vede l’estensione della stessa dinamica descritta in riferimento all’antichità greca: Così fu ad Atene, e così è stato nell’Europa moderna (p. 19). Accostamento impreciso e storicamente problematico.
Tra le premesse metodologiche e teoriche iniziali vi è anche quella di considerare tragedia e filosofia solo come generi letterari. Le motivazioni principali di questo approccio risiedono nel fatto che secondo l’autrice le radici antropologiche della tragedia e della filosofia sono essenzialmente differenti (p. 21) ma, nella loro differenza, nessuna delle due risulta radicata «nella condizione antropologica, o, se lo sono, sono semplicemente una delle tante espressioni e manifestazioni del nostro innato “desiderio di sapere”» (p. 31). Anche questa premessa risulta molto povera, a tratti contraddittoria, sia dal punto di vista argomentativo che dal punto di vista storico. Che la tragedia e la filosofia non siano radicate nella condizione antropologica è una fallacia dell’evidenza soppressa, un errore dettato da uno sguardo miope che considera un genere letterario – volendosi limitare a questa prospettiva, per seguire Heller – come se fosse un prodotto della cultura totalmente scisso dalla propria situazionalità, dalla propria storicità, dal tempo in cui è generato, prende forma e si manifesta entro l’orizzonte culturale dell’epoca. Il cammino parallelo di cui parla l’autrice sfugge a ogni assoluta determinazione in termini accostanti di sorellanza o escludenti di nebulosa distanza: il confronto con Hegel è imprescindibile, certo, ma una storia parallela non può non tener conto di alcune considerazioni critiche e fondamentali in relazione a ciò.
Nella Fenomenologia dello spirito, precisamente nel capitolo sulla dialettica Knechtschaft-Herrschaft, il filosofo adopera il termine Versöhnung (conciliazione), che riprenderà nella sua Filosofia del diritto; concetto che implicitamente risponde alla domanda sulla relazione che la filosofia e la tragedia hanno da sempre avuto con la condizione umana, che è possibile considerare, oltretutto, loro fondamento costitutivo. L’epilogo della tragedia, in cui lo spirito tragico dis-tende tutta la sua potenza creatrice, termina con la riconciliazione dei due poteri universali in conflitto, ovvero lo spirto oggettivo e quello soggettivo, riconciliazione tra realtà e ragione che conduce di per sé all’eticità.
Heller tralascia i limiti della tesi hegeliana che Paul Ricœur ha messo in evidenza, laddove risulta evidente che la tensione dialettica della tragedia non è sempre risolta nella conciliazione, ma questo rimanere in superficie è dichiarato, forse, in modo indiretto sempre in riferimento a Hegel: «tutti gli importanti teorici o filosofi dell’arte generalizzano» (p. 33). Il tragico, al contrario di quanto sostiene Heller facendo riferimento a Hegel, ha come sua somma caratteristica quella di indicare le esperienze limite generatrici di aporie; la sua tensione come anche la sua stranezza (étrangeté du tragique) risultano ineliminabili.
La filosofia dell’arte, in particolar modo la filosofia della tragedia, è un caso di etero-interpretazione (p. 39). Essa diviene qui confronto con un genere letterario attraverso un dispositivo di doppio esercizio ermeneutico che consiste nel mediare un determinato genere letterario (la tragedia dice Heller) con il mondo e la filosofia del proprio tempo. L’obbiettivo di Gadamer, Horizontverschmelzung, è dichiarato impossibile da raggiungere. Eccoci di fronte a un’altra aporia del pensiero in questione. Se il doppio esercizio ermeneutico possibile svolge la funzione di mediare, per quale ragione la cosiddetta fusione dei due orizzonti risulterebbe impossibile? Va da sé che ciò non negherebbe la possibilità «che ognuno continui a leggere le tragedie da solo, e che a ogni lettura apparirà una nuova tragedia» (p. 40).
Heller definisce l’azione principale della tragedia conflitto verbale. Questa è l’essenza dell’ag?n, in quanto nelle opere dei tragediografi greci ha luogo lo scontro tra valori diversi, passioni contrastanti e differenti visioni del mondo. A tal proposito vi sono diverse ermeneutiche moderne di tali valori e delle passioni che a partire da essi si manifestano. Ecco che l’Orestiade, ad esempio, è interpretata come conflitto tra matriarcato e patriarcato che vede la vittoria di quest’ultimo grazie al voto di Atena – a dare forza alla tesi è il fatto che la dea non è madre.
La Fenomenologia dello spirito fa riferimento ad Antigone che incarna, secondo l’interpretazione classica della tragedia in questione, il conflitto tra le leggi degli dèi e le leggi dello Stato. La filosofa sostiene che «si possono interpetrare liberamente le tragedie e tuttavia non si sarà mai in grado di capire ciò che gli autori avevano davvero in mente» (p. 45). La possibilità, più che legittima, certo, di interpretare liberamente una tragedia non deve mai tradursi nell’assenza di limiti interpretativi; è quest’ultima che certamente conduce al risultato a cui l’autrice fa riferimento, e non un’impossibilità che riposa nella tragedia in sé. Pertanto, è possibile comprendere ciò che gli autori volevano dire se il dire degli autori è collocato all’interno di un determinato contesto storico, sociale ed esistentivo di riferimento che i filologi tedeschi chiamano Sitz im Leben. La caratteristica che accumuna la tragedia alla filosofia sarebbe «l’inserimento di riflessioni filosofico-esistenziali nella trama. In questi casi l’azione si ferma e la riflessione prende il suo posto. Nella tragedia greca è soprattutto il coro che riflette in modo filosofico-esistenziale sui conflitti tra azioni, a volte in modo inaspettato» (p. 46).
Le riflessioni di Heller spaziano dall’antichità classica alla modernità come se i mutamenti epocali di paradigmi culturali permettessero una passeggiata fatta di riferimenti storici, salti e ‘voli’ concettuali che vanno dal IV secolo a.C. direttamente al XVI secolo d.C.; la storia parallela di cui parla l’autrice è certamente un dato storico, ma i termini adoperati per descrivere questa storia diventano più chiari e non forzosi solo quando si arriva alle opere di Shakespeare, Racine, Diderot, al Trauerspiel (dramma barocco, o dramma luttuoso), forme del tragico che sono decisamente altro rispetto alla parola di Eschilo, di Sofocle, di Euripide. Dunque, la storia parallela assume caratteristiche diverse a seconda dell’epoca in questione, e allora sì, è possibile che quando i drammi degli autori sopracitati vengono interpretati come espressioni della fase che precede il crepuscolo di un determinato periodo storico la filosofia inizi a farsi strada. Ma anche qui si potrebbe problematizzare ribadendo quanto detto per l’antichità classica: quando Shakespeare scriveva Amleto il fermento filosofico-scientifico (epoca in cui tra scienza e filosofia non vi era una frattura o linea di demarcazione) era già in atto nelle opere, nelle ricerche e negli esperimenti di Galileo Galilei, giusto per fare un esempio, padre della modernità più di ogni altro.
La relazione posta in essere tra filosofia e tragedia fa sì che la filosofia assurga a oggetto di analisi a partire dal tragico, e viceversa: nessuna delle due può darsi senza l’altra, in quanto ognuna ha bisogno dell’altra per essere pienamente compresa. La formulazione della tesi di Heller in questi termini è fondata e accettabile, anche se molto generica. Ne consegue che l’espressione storia parallela risulta assai riduttiva e vaga, sarebbe più opportuno parlare di storia di innesti, intersezioni, affinità elettive.
L’idea hegeliana che sta a fondamento del saggio in questione, in alcuni parti dell’argomentazione, sembra tralasciare un dato di fondamentale importanza: ogni periodo è “dotato” di un paradigma culturale che comprende arte, politica, etica, scienza, e che permette all’uomo di quel tempo di esprimere il politeismo della propria sostanza – Zeitgeist. Per tale ragione, rintracciare la stessa dinamica dell’antichità nella modernità è un’operazione assai complessa, problematica e, in questo caso, non sostenuta dalla struttura e dallo stile del saggio, caratterizzato da periodi molto brevi e incalzanti, paragrafi altrettanto brevi che fanno riferimento a questioni molto complesse che richiederebbero maggiori argomentazioni. A conferma di ciò è totalmente assente il dibattito/confronto con la bibliografia critica inerente agli autori, agli argomenti e ai temi trattati. I limiti appena rilevati possono essere spiegati attraverso due ragioni: la prima risiede nel fatto che una delle caratteristiche dello stile di Heller, come afferma anche il curatore e traduttore Vestrucci, è quella di adoperare una scrittura quanto più vicina all’oralità per tenere viva l’attenzione di chi ascolta/legge; la seconda motivazione risiede nel rifiuto, altra caratteristica dell’autrice, di scrivere un libro secondo le norme scientifiche riconosciute dalla comunità accademica poiché, secondo questa corrente molto in voga nel mondo filosofico (e non solo), la qualità di un testo risiede nelle idee esposte anziché nel numero di note a piè di pagina (pp. 13-14). Vero è che in alcuni casi è così, purtroppo, ma è un errore assai ingenuo considerare un fenomeno a partire dai suoi “effetti collaterali”. Si tratta, in realtà, di una prospettiva molto problematica se si pensa che quando viene trattato un argomento della portata storico-filosofico-letteraria, come quelli chiamati in causa dall’autrice, solo il rigore metodologico permette alle idee, intuizioni e proposte ermeneutiche – presunte geniali – espresse nel testo di essere chiarite, spiegate ed esposte nel migliore dei modi. Da ciò la precisione dei riferimenti alle fonti, fase di lavoro imprescindibile per un umanista. Pertanto, porre un aut-aut tra “genialità e freschezza delle idee” e rigore logico-argomentativo-metodologico, come se quest’ultimo elemento soffocasse il primo, è un errore imperdonabile derivante da un anti-accademismo alla moda che al rigore dell’argomentazione preferisce il fluire di frasi, parole e periodi in modo ‘libero’ e non rigoroso. La sterilità e l’assenza di argomenti di alcuni saggi che, nel migliore dei casi, rivestono un impeccabile apparato di note non dicono nulla sulla validità dello stesso rigore metodologico di cui mai deve essere mancante l’ars scribendi di un filosofo, come non deve mai venir meno il rispetto e la volontà di mettersi in ascolto nei confronti di chi adopera un modo della ricerca diverso dal proprio. Feyerabend è maestro nel dire che il metodo non deve mai diventare una struttura rigida, immobile, fissa e soffocante.
Al di là della critica qui condotta, l’opera di Heller mantiene la sua utilità nel dare la dovuta attenzione alla vicinanza tra filosofia e tragedia, correlazione che troppo spesso viene tralasciata e/o ignorata. Il merito dell’autrice consiste nell’aver fornito molteplici spunti che ogni lettore/studioso può approfondire come sentieri di ricerca per i quali bisogna ancora indagare molto. Sui termini che l’autrice adopera per esporre la sua storia parallela ci si è ampiamente espressi ma, prima di concludere, è opportuno considerare le parole che leggiamo alla fine del penultimo capitolo dell’opera: «Tragedia e filosofia finiscono la loro vita insieme, ora, nel mondo moderno, portando una remota speranza di redenzione. Tuttavia, il Redentore è sconosciuto» (p. 221).
Tali parole, se corrispondono e sono coerenti con l’argomento sostenuto, contraddicono, non in minima parte, il principio di realtà, il mondo della vita dove, fin quando Homo sapiens ne calcherà il suolo e ne solcherà i mari, la parola tragica e il l?gos filosofico non cesseranno di coabitare. Le due dimensioni del sapere non sono portatrici di una speranza di redenzione. Disincanto del mondo, consapevolezza della morte, dominio di Necessità, temporalità di cui il cosmo è intessuto, sete e fame di conoscenza, gloria e indistruttibilità della materia, sono solo alcuni orizzonti ‘solcati’ da questo coabitare. Quella che Heller definisce storia parallela è, in realtà, la stessa vicenda in cui l’esserci, ponendo la domanda delle domande, arriva alla verità inconfutabile: ogni auspicato Redentore rimane sempre un’incognita irrisolta, un’orma anonima che appare sulla sabbia a testimoniare l’assenza di una presenza attesa, invocata e, infine, ridotta a res manipolabile. Tragedia e filosofia giungono, in modi diversi, alla stessa risposta: niente è più dèinos dell’uomo.

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