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Discipline Filosofiche XXXII, 2, 2022: Le forme dello pseudos, a cura di Venanzio Raspa

XXXII, 2, 2022: Le forme dello pseudos. A cura di Venanzio Raspa

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copertina-2016-1-fronte1. Quante sono le forme dello pseudos? In Verità e menzogna in senso extramorale, Nietzsche ne elenca diverse: «l’illudere, l’adulare, il mentire e l’ingannare, il parlar male di qualcuno in sua assenza, il rappresentare, il vivere in uno splendore preso a prestito, il mascherarsi, le convenzioni che nascondono, il far la commedia dinanzi agli altri e a se stessi, in breve il continuo svolazzare attorno alla fiamma della vanità». Alla finzione, alla menzogna e all’illusione possiamo aggiungere l’allucinazione, l’errore, la parvenza, il sogno, la simulazione. Ovviamente, il falso. Ma che cosa si dice falso? Un discorso può essere falso. Possono essere dette false anche le cose? Diciamo falsa una proposizione e diciamo falsa una banconota o un quadro d’autore, ma sono falsi in maniera diversa. Una proposizione falsa rimane una proposizione; una banconota falsa, se riconosciuta tale, non ha nessun potere d’acquisto; un quadro d’autore falso resta un quadro, come la proposizione, ma inganna sulla sua origine, come la banconota. Perché la riflessione filosofica si è accanita fin dalle origini sulle forme dello pseudos e continua a farlo? Perché, nel momento in cui le esaminiamo, siamo portati a rivedere e raffinare le nostre concezioni sul mondo, e perché esse fanno parte del nostro mondo.
Parlo di forme e non semplicemente di pseudos, perché comprendere significa fare opportune distinzioni. Aristotele, che ama distinguere i vari sensi dei termini, nel capitolo 29 di quel dizionario filosofico che è il quinto libro della Metafisica parla appunto di diversi sensi di pseudos. Tale operazione era stata avviata da Platone, che nell’Ippia minore distingue fra uno pseudos volontario e uno involontario. Aristotele si ricollega all’operazione platonica, tant’è che cita l’Ippia minore, e la completa. “Falso” si dice in primo luogo di una cosa, ma, considerati gli esempi – è falso che la diagonale sia commensurabile o che tu sia seduto –, Aristotele sembra intendere quei pragmata che oggi noi chiamiamo stati di cose; alcuni, come il primo, sono sempre falsi, altri, come il secondo, lo sono talvolta. Queste cose sono non-enti (ouk onta). Un altro tipo di cose false sono quegli enti che appaiono in modo diverso da come sono, come la skiagraphia e il sogno. In secondo luogo, falso è il discorso che ha per oggetto le cose che non esistono. Infine, falso si applica agli esseri umani: è falso l’uomo che fa deliberatamente discorsi falsi. Il mentitore racconta qualcosa che non è, un pragma falso, un non-ente, ed è per questo che il suo discorso è falso. Ma se la menzogna ha o può avere effetti, allora essa è parte del nostro mondo, e con essa quella sua componente che è il falso pragma, il non-ente, oggetto del discorso menzognero.
Distinguere fra i vari significati di un termine come pseudos significa distinguere fra significati affini, non disparati. Falso, finzione, inganno, menzogna sono forme dello pseudos, non sono sinonimi, ma sono affini, si richiamano l’un l’altro. Sono modi diversi di dire il non-vero, che – se la verità è un limite – ammette gradazioni. Come scrive Aristotele, non sbaglia allo stesso modo chi pensa che quattro sia cinque e chi pensa che sia mille. Un’ipotesi, in quanto tale, non è ancora stata verificata, ma è più o meno plausibile o probabile. Una falsa teoria scientifica (come quella del flogisto) non mente, ma trae in inganno chi la crede vera. Una menzogna dice il falso ed esprime una finzione, ma non ogni finzione è menzogna; non lo è, ad esempio, una barzelletta o una favola. La ricerca su questi argomenti è così vasta, che alcuni punti possono essere considerati come acquisiti e appartenenti al discorso tradizionale sullo pseudos.
Diciamo, ad esempio, che senza intenzione non c’è inganno; che la menzogna è diversa dall’errore, poiché la prima implica una intenzione di ingannare e, in certi casi, anche di nuocere, che invece manca all’errore; che la bugia presuppone la consapevolezza di mentire e, quindi, la conoscenza della verità (anche se non tutta) da parte del mentitore, ma anche l’immedesimazione di questi nell’altro che vuole ingannare, per cui la menzogna esige che ci sia almeno un altro.
Del mentire si parla da tempo come di una capacità adattiva, propria non soltanto degli esseri umani, ma anche di altri animali. Alcuni studiosi inseriscono tra le forme della menzogna – che non consiste unicamente in un enunciato dichiarativo, ma in un atto – il truccarsi, l’abbigliarsi in maniera da migliorare il proprio aspetto, l’indossare scarpe con tacchi alti. Se così, siamo degli animali menzogneri in modo inemendabile. D’altra parte, non è gentile dire sempre il vero, non è necessario e può anche essere nocivo. Come osserva Vladimir Jankélévitch, la menzogna aiuta a smussare le incompatibilità fra noi e gli altri, e a farci stare in maniera più confortevole in società. La trasparenza rende la vita non interessante, perché non ci sarebbe nulla da scoprire.
2. Nel 1943, Alexandre Koyré scrive che «non si è mai mentito come al giorno d’oggi». Perché lo dice? Non perché non sia consapevole del fatto che «la menzogna è vecchia come il mondo» o perché ritenga semplicemente che la menzogna sia pervasiva della società; egli dichiara esplicitamente che siamo immersi nell’inganno, nel falso, nella menzogna. Questa è sì – come dice Aristotele – il risultato di una scelta individuale, ma l’individuo non è isolato, bensì vive all’interno di una società, che è impregnata di una certa cultura, che gli è stata trasmessa attraverso l’educazione e la propaganda. La propaganda. Perché quello che interessa principalmente a Koyré è dare una valutazione della storia recente e mostrare come la menzogna sia l’essenza dei totalitarismi, l’essenza dell’hitlerismo. La menzogna è pervasiva delle società governate dai regimi totalitari. L’antropologia totalitaria – scrive Koyré – considera l’essere umano non un animale razionale, ma un animale credulo, che crede a ciò che gli si dice, purché glielo si ripeta con insistenza; lo crede indipendentemente dal fatto che sia inverosimile o incoerente. I capi dei regimi totalitari disprezzano sia le masse sia i seguaci che credono in loro; possono farlo, perché hanno successo nei loro paesi e presso i loro popoli. Diversamente starebbero le cose nei paesi democratici: questi, «rimanendo ostinatamente increduli, si sono mostrati refrattari alla propaganda totalitaria» e i loro cittadini hanno dato prova di essere esseri pensanti. Possiamo oggi condividere queste ultime affermazioni?
In effetti, le tesi iniziali del saggio di Koyré – pur senza un esplicito riferimento a lui – ricorrono in più testi sulla menzogna. Ma oggi, a distanza di alcuni decenni, viene da dire che anche la nostra è una società dello pseudos, che il falso è divenuto pervasivo, come mostrano ormai i tanti discorsi sulla post-verità e sulle fake news. Queste crescono su un terreno favorevole, altrimenti non mettono radici, ma si seccano. Dire il falso non è un atto straordinario, ma è divenuto parte della abituale pratica discorsiva. I nostri ragazzi e ragazze, nel momento in cui usano i social media, non solo non si fanno scrupolo di mentire, non considerandolo disdicevole, ma si aspettano che anche gli altri facciano lo stesso.
Abbiamo detto che tradizionalmente si distingue la menzogna dalla falsità e dall’errore per l’intenzione di ingannare, e che già in Platone troviamo la distinzione fra menzogna volontaria e menzogna involontaria. Ma una menzogna involontaria non è propriamente una menzogna, mancando appunto dell’intenzione di ingannare (di quel «cuore doppio» di cui parla Agostino); in genere, essa è dovuta all’ignoranza. Ignoranza che però non sempre è innocente: chi è responsabile della propria ignoranza, per cui non può che dire il falso, è responsabile delle falsità che proferisce. Probabilmente non intende ingannare – e nessuno può conoscere con certezza le intenzioni altrui –, ma non si preoccupa di conferire effettiva veridicità alle proprie parole. E questo ci intrappola tutti o quasi tutti: nessuno è infatti esente dal sostenere convinzioni che ritiene scontate, perché così gli sono state insegnate – quanto è grande la responsabilità dei manuali! – e non si è curato, per le vicende della vita, di verificarle.
3. Si pensi a come vengono definite le identità nazionali. Si è soliti indicare quali “criteri oggettivi” per identificare una nazione la lingua, l’etnia, la religione, il territorio o la memoria storica. Eric J. Hobsbawm ha mostrato come nessuno di questi criteri regga a un’attenta analisi storica; spesso si tratta di storie (“tradizioni inventate”) che raccontiamo e alle quali crediamo, perché – come suggerisce J.M. Cootzee – ci permettono di avere una buona opinione di noi stessi. Più che con la memoria collettiva abbiamo a che fare con un autoinganno collettivo. Anche laddove, poniamo, una certa società coloniale possa mostrarsi ossessionata dal proprio passato schiavistico, il fatto che i membri di quella società vivano tutto sommato bene e non si curino di calpestare un territorio strappato ad altri con la violenza, sta a dire che quelle storie del passato servono comunque da conforto, dal momento che permettono loro di pensarsi ormai diversi dai predecessori. Un autoinganno collettivo è ravvisabile anche nella nostra comprensione della storia recente. Dopo la Seconda guerra mondiale, la colpa dei tedeschi era così grande da esentare gli altri popoli europei dal confrontarsi col fatto di avere collaborato con i nazisti, e questo perché ci si identifica più volentieri con le vittime che con i carnefici. Poi, la Resistenza ha permesso di riconoscersi nella parte buona del nostro popolo. Ma – si diceva – anche quando si crede in buona fede si è responsabili della propria falsa credenza, se non si è provveduto a verificarla o a trovare ragioni in suo favore, soprattutto quando essa non è circoscritta all’etica individuale, ma riguarda la storia e il destino dei popoli.
Bernard Williams parla delle genealogie come di narrazioni volte a spiegare un certo fenomeno, che consistono in parte di storia reale in parte di storia evolutiva immaginaria. Il loro scopo è spiegare come siano venuti alla luce un concetto, un’istituzione; nel fare questo, usano modelli che sono in buona parte proprio dei racconti. E tuttavia queste storie ci sono d’aiuto. Le storie prodotte dalla scienza politica per spiegare l’origine dello Stato a partire da quella finzione che è lo stato di natura, ad esempio, sono racconti insoddisfacenti quanto ai fatti, nel senso che noi sappiamo che i fatti non si sono svolti così come la storia li narra, ma sono soddisfacenti quanto alle leggi; pertanto, esse sono possibili e, in quanto possibili, sono anche utili, «perché mostrano che un certo processo è possibile». Inoltre, fanno emergere come funzionale alla spiegazione un fenomeno, un concetto, che precedentemente non era visto come tale, e ci preservano dal considerare come storia effettiva quella che è una narrazione.
In maniera analoga, una storia controfattuale, che narra cosa sarebbe accaduto se un certo evento non si fosse verificato o si fosse sviluppato in maniera differente da come è accaduto in realtà (ad esempio, se Hitler avesse vinto la Seconda guerra mondiale), racconta falsità, ma arricchisce di significato la storia reale. La descrizione di come si sarebbero svolti i fatti se le cose fossero andate diversamente da come sono andate è mera finzione, ma ci fa comprendere la rilevanza di ciò che è effettivamente accaduto. All’inverso, nel paventare le conseguenze di una certa situazione vogliamo spronare a cambiarla. Simili storie non ci fanno conoscere il nostro mondo per come è, ma ci permettono di conoscere le conseguenze implicite nelle nostre credenze sul mondo.
4. Un esperimento mentale costruisce una storia, una finzione, indaga le conseguenze di una situazione non attuale, una situazione che in alcuni casi può anche essere pensata come contravveniente alle leggi logiche o alle leggi della fisica. Non sono pochi gli scienziati, i filosofi, i logici che si avvalgono con profitto di esperimenti mentali. Escludere determinate leggi valide nell’ambito dei fenomeni e indagare cosa accade qualora si prescinda da esse consente di conoscere in maniera più chiara in che misura le leggi che sono state escluse influiscono sul corso dei fenomeni. Certo non tutti gli esperimenti mentali sono affidabili e possono ovviamente anche fallire, ma permettono di testare e valutare le virtù non empiriche di una teoria come la coerenza e la potenza esplicativa.
In altra sede, ho sostenuto che la letteratura – ovviamente non qualsiasi testo letterario – è un’ipotesi su come stanno le cose, esprime interpretazioni sul mondo che hanno un certo grado di probabilità. Se «esperimento mentale significa testare ipotesi nella mente – logicamente piuttosto che fisicamente», se l’esperimento mentale racconta una storia, allora anche la letteratura può essere (ed è stata) intesa come un esperimento mentale, una simulazione di una situazione possibile. Per un verso, la letteratura viene così a occupare un ruolo rilevante nell’ambito del processo della conoscenza, per un altro, si pone nell’ambito dello pseudos, che può però anche essere istruttivo, come dichiara Platone nella Repubblica, dove critica sì l’epica e la tragedia nella misura in cui esse forniscono delle immagini sconvenienti e inappropriate degli dèi e degli eroi, e tuttavia non le espunge dalla città, ritenendo i racconti necessari per l’educazione. E lo ripete, in altra forma e con ancora più forza, Aristotele nella Poetica: pur narrando non ciò che è, ma ciò che è possibile secondo probabilità o necessità, la poesia ha per Aristotele un forte valore cognitivo, permettendoci di conoscere noi esseri umani, come siamo fatti, come sentiamo e come agiamo, e ci permette di farlo in forma universale.
5. Quante sono le forme dello pseudos? Certo più di quelle menzionate sopra, soprattutto se si amplia lo spettro semantico del termine e si operano distinzioni all’interno di ciascun genere. Basti pensare alle varie classificazioni della menzogna più o meno classiche da Agostino a Jankélévitch. Come si suol dire, su questi argomenti la letteratura è sterminata. E se quindi il discorso su questi argomenti non può evitare la ripetizione, trattandosi di temi affrontati da tanto tempo e da tante menti, tuttavia l’attualità che li caratterizza fa sì che nella ripetizione si aggiunga sempre qualcosa di nuovo. Del resto, non solo la letteratura sullo pseudos è sterminata, sterminato è anche l’oggetto di studio, lo scibile, per dirla ancora con Aristotele. Se è vero che la nostra è una cultura del commento, come sostiene Michel Foucault, allora il commento implica la ripetizione, se non altro del commentato. Se però è un vero commento, non ripete soltanto e semplicemente, ma estrae dal testo commentato qualcosa che in esso era celato, non ancora esplicitato, rimasto segreto. E così la speranza è che dai discorsi che qui vengono presentati emerga qualcosa di nuovo, che era nascosto nelle pieghe dei testi degli autori trattati.

Indice
(cliccando sul titolo si può leggere l’abstract)

Venanzio Raspa, Introduzione
Roberta Ioli, Strategie narrative ed epica antica: inganno, falso, simile al vero
Francesco Fronterotta, “Vero” e “falso” fra ontologia e logica in Platone (e Aristotele)
Luigi Trovato, Il falso e la predicazione impossibile nel De Principiis di Damascio
Alessio Lembo, Pseudo-filosofia e scrittura reticente in Spinoza. A partire da un saggio straussiano
Alice Ragni, The Golden Mountain. Remarks on the Principle of Conceivability in the Early-Modern Age (Clauberg, Tschirnhaus, Hume)
Venanzio Raspa, Quando mentire equivale a dire il vero
Giulia Zerbinati, Quando l’arte si fa merce. L’idea adorniana di industria culturale come pseudos
Bernardo Paci, Dalla menzogna politica al mito politico: per una genealogia coloniale della menzogna moderna a partire da Arendt e Derrida
Wolfgang Huemer, Daniele Molinari, Valentina Petrolini, The Trade between Fiction and Reality. Smuggling across Imagination and the World
Martino Manca, Esistono libri che non esistono. Pseudobiblia: una definizione e uno studio degli effetti
Francesco Asante, Ta pseudé: prolifération du faux et émergence de la post-vérité
Lamberto Colombo, Il veleno dell’informazione: itinerari pre-digitali di verità e menzogna

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