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145. Recensione a: Byung-Chul Han, Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete, a cura di F. Buongiorno, Einaudi, Torino 2023, pp. 79. (Mattia Spanò)

L’intero fluisce, mutando e permanendo, nell’avvicendarsi dei frammenti che lo costituiscono. L’uomo ne ascolta, elabora, metabolizza e ripropone i cenni, gli spunti, le indicazioni. Avvolto dal meraviglioso e terribile mutare permanente e permanere mutevole, non può che configurarsi – ancora e sempre – come Zeigender: colui che indica. Non basta, però, fermarsi a ciò. Farlo significherebbe contestualizzare l’umano in un perimetro tutto sommato generico ma, al contempo, foriero di nuovi interrogativi: da dove e verso dove indica l’uomo? E, soprattutto, c’è un limite ultimo oltre il quale non è dato procedere? Quest’ultimo reca i tratti dell’interrogativo fondamentale, primo e ultimo, sull’origine e sull’esito. E, non da ultimo, antinomico ed aporetico. Ed è su questa via – dell’antinomia e dell’aporia – che si deve, in ordine, procedere.
Antinomico perché l’attraversamento del domandare in questione conduce ad un bivio dal sapore kantiano, ad un duplice itinerario i cui sentieri – l’uno in confronto all’altro – potrebbero rivelarsi veri o falsi. Ritornando all’interrogativo in questione – all’uomo in quanto essere indicante è imposto un limite ultimo oltre il quale non è dato procedere? – ci si accorge, infatti, che la risposta è duplice e, almeno nei termini della ferrea logica alla quale siamo abituati, contraddittoria. , un limite incontrastato fonda la norma del procedere umano: la ricerca non può che configurarsi come asintotica in quanto, per dirla con un’espressione felice della Grecia arcaica, l’intero soverchia di gran lunga qualunque tentativo di com-prensione il frammento avanzi. Ma all’interrogativo si potrebbe rispondere anche, procedendo sulla trama logico-definitoria alla quale siamo abituati, che questo limite non è, nella misura in cui non soggiace a leggi di decidibilità; in altri termini, l’uomo in quanto Zeigender è contrassegnato essenzialmente da una ricerca potenzialmente in-finita perché mai-del-tutto de-finitiva e, dunque, potenzialmente il-limitata.
A questo punto la dimensione antinomica dell’interrogativo fondamentale che si sta attraversando si interseca con il suo fondo aporetico, già a tratti emerso: l’impossibilità di pervenire ad un punto assolutamente conclusivo – il limite – pone l’uomo in un dispositivo ermeneutico asintotico ed ininterrotto – potenzialmente il-limitato. L’essere umano, dunque, si configura come colui che indica ancora e sempre – che addita il nulla, direbbe Heidegger, intendendo con questo termine non la nullificazione assoluta ma l’eccedenza di essere, l’oltre che, ancora e sempre, reca in sé il già-dato.
In questa cornice-orizzonte, allora, l’uomo tenta di dare una forma all’evento, di tracciare posture nel e del fluire, di restituire quadri di comprensione di un intero che, inesorabilmente, ne soverchia le bordature. Ma è questo stesso ineludibile scacco che alimenta, nella sua potenza e urgenza, l’impresa veritativa umana. E se fondi di stabilità hanno, da sempre, caratterizzato questo meraviglioso e terribile itinerario, secondo il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han, nell’attuale temperie è in atto una crisi della verità senza precedenti che conduce ad uno spaesamento spoglio di saldi e condivisi scenari di orientamento: «Oggi si sta diffondendo un nuovo nichilismo» che «nasce nel momento in cui perdiamo fede nella verità stessa. […] L’informazione circola ormai completamente scollegata dalla realtà in uno spazio iperreale. Si perde la fiducia nella fattualità. Viviamo in un universo de-fatticizzato. In definitiva scompare, con le verità fattuali, il mondo comune a cui potremmo riferirci nelle nostre azioni» (p. 60). Nello scorgere il graduale sfaldarsi di ogni solido punto di riferimento ad un «orizzonte di schemi interpretativi concordanti» (p. 41), Han denuncia gli esiziali rischi a cui sono esposti l’agire comunicativo, la razionalità discorsiva e l’impianto democratico nel nuovo vortice nichilistico, «sintomo della società dell’informazione» (p. 63). È l’epoca della Infocrazia, «quella forma di dominio nella quale l’informazione e la sua diffusione determinano in maniera decisiva, attraverso algoritmi e Intelligenza Artificiale, i processi sociali, economici e politici» (p. 3).
In questo quadro di riferimento, posto il legame a doppio filo che intercorre tra l’informazione e la nuova, dilagante, forma di nichilismo che incide pesantemente sull’attuale stato di cose, urge la necessità di tracciare una «fenomenologia dell’informazione» (p. 24). Ed è ciò che propone Han nella sua ultima fatica: Infocrazia.
È il titolo stesso dell’opera a suggerire che la fenomenologia dell’informazione tracciata si traduca, nella prospettiva dell’autore, in una co-emergente fenomenologia della forma di dominio ad oggi ritenuta imperante. D’altronde come scindere o compartimentare in luoghi specifici, sfere esistenziali ed esistentive così profondamente e densamente co-implicantesi come le visioni del mondo, le pratiche di vita, l’assetto culturale, l’attività politica, i meccanismi di potere e dominio?
Han si sofferma, allora, sulla fitta rete che costituisce la trama dell’impianto culturale – norme, valori, credenze e simboli – e dell’assetto politico-comunitario nelle sue molteplici e polimorfe declinazioni: dai mezzi di comunicazione alla possibilità di un margine dialogico, transitando da come, quanto e perché particolari modi di intendere la vita individuale e collettiva scalfiscano, erodano, destrutturino esizialmente il nucleo profondo della democrazia. In questo quadro, e si struttura come una provocazione tanto intellettuale quanto pratica, emerge un interrogativo liminare: dove finisce la cultura ed inizia la politica? E, ancora, dove ha termine il fare politico e si approda al lavoro culturale? Ed è, allora, entro queste coordinate mobili che Han tenta di strutturare una genealogia del potere – inteso in quanto potestas – attraversandone scaturigine, sviluppi ed evoluzioni che si estrinsecano anche come potentia. Come le forme di dominio, culminate nell’odierno totalitarismo dell’informazione, mutano e si rigenerano al variare di molteplici fattori, anche le proposte ermeneutiche che ne tentano una comprensione sono chiamate a rinnovarsi, modificandosi sulla scorta delle mutazioni complessive. Ecco, allora, che Han si propone di analizzare l’epoca dell’infocrazia – dove «decisivo per la conquista del potere non è il possesso dei mezzi di produzione, bensì l’accesso a informazioni che vengono utilizzate ai fini della sorveglianza politica, del controllo e della previsione dei comportamenti» (p. 3) – proprio a partire dallo studio dell’informazione e della sua diffusione, in relazione ai media che hanno scandito la vita individuale e collettiva delle epoche precedenti. Perché – ed in questo assunto il filosofo sudcoreano è particolarmente netto – «ogni trasformazione mediale decisiva dà vita a un nuovo regime. Medium è dominio» (p. 15). Da questa prospettiva si diparte la strutturazione di una genealogia delle forme di potere che, inevitabilmente, secondo Han, procedono in stretta correlazione con quei media che restituiscono all’uomo-individuo e all’uomo-collettivo una cornice percettiva e orientativa peculiare: «la storia del dominio può essere descritta come dominio di schemi diversi» (p. 21).
Così, se «il medium decisivo agli albori della democrazia è il libro», che «fonda il discorso razionale dell’Illuminismo» al quale si deve un «discorso politico» caratterizzato da «tutt’altra estensione e complessità» (pp. 18-19), con l’avvento del sistema massmediatico elettronico si perviene alla distruzione del «discorso razionale plasmato dalla cultura libraria» (p. 19). Anche la politica, in subordine al potere dei nuovi media, si trasforma in intrattenimento, messinscena performativa dove a prevalere sono le tecniche di persuasione piuttosto che i contenuti politici. In questo nuovo anfiteatro, precipita l’intensità della concentrazione, del ragionamento, del discorso, del riscontro e, con questi, l’attenzione nei confronti delle questioni d’interesse pubblico decisivamente pregnanti per la vita collettiva. È la volta della telecrazia, epoca del dominio incontrastato del mezzo televisivo, dove al controllo subentra l’intrattenimento: «gli esseri umani sono storditi dal divertimento, dal consumo e dal piacere. La vita è dominata dalla costrizione alla felicità» (p. 23).
Ma nuovi scenari si stagliano all’orizzonte quando allo schermo televisivo si affianca il touchscreen ed il nuovo mezzo per antonomasia, lo smartphone, inaugura un nuovo regime dell’informazione, in cui «gli esseri umani non sono più spettatori passivi, che si arrendono al divertimento: sono tutti trasmettitori attivi. Producono e consumano informazioni in modo permanente» (p. 23). È l’era dei produttori-consumatori, dei cosiddetti prosumer, impegnati costantemente nella produzione e nel consumo di contenuti. Potenzialmente il produttore-consumatore è ognuno di noi. Il luogo principe dell’attività dei prosumer è la rete, che pretende connessione piuttosto che isolamento – evidenzia Han, in relazione ai precedenti dispositivi di gestione del dominio – e «abolisce in generale la solidità del fattuale, anzi la solidità dell’essere, totalizzando la producibilità. Nella producibilità totale, non c’è nulla che non possa essere annullato. […] La digitalizzazione indebolisce la coscienza dei fatti e delle circostanze, persino la coscienza della realtà stessa» (pp. 68-69).
Dall’infotainment si transita nell’infodemia. I ritmi vitali accelerano, sono serrati, determinando una nuova cifra percettiva. Le informazioni, in questo processo, sono determinanti perché tracciano un rinnovato concetto di temporalità, «manca loro la stabilità temporale» (p. 24). In questa bolla informativa – continua il pensatore sudcoreano – «le pratiche cognitive temporalmente intensive, come il sapere, l’esperienza e la conoscenza, sono rimosse dall’obbligo dell’accelerazione tipico delle informazioni» (p. 25). Le prassi temporalmente intensive come il discorso, la razionalità, «l’auto-osservazione della società» (p. 28) sono estromesse e, in parte, sostituite da nuove pratiche. Come nel caso della nuova razionalità digitale sostenuta dai dataisti, che vedono nell’IA e nei Big Data «un equivalente funzionale della sfera del discorso pubblico, per loro oggi in decadenza» (p. 48) e «sognano una società che proceda interamente senza politica» (p. 52); dimentichi, però, del fatto che se da un lato «il concetto di fondazione è intrecciato con quello di apprendimento», dall’altro «L’Intelligenza Artificiale non fonda, ma calcola. Al posto degli argomenti subentrano gli algoritmi» (p. 49). E, allora, se nella prospettiva dataista – continua Han – «l’essere umano si dissolve in una misera serie di dati» (p. 58), priva di autonomia e libertà, si ritorna al nucleo profondo sul quale si erge l’assetto infocratico. Si ritorna alla crisi della verità senza precedenti denunciata dall’autore di Infocrazia, alle fondamenta del nuovo e dilagante nichilismo che attanaglia l’uomo postmoderno. Perché «le informazioni o i dati da soli non illuminano il mondo. La loro essenza è la trasparenza. Luce e buio non sono proprietà dell’informazione. Come bene e male o verità e menzogna, essi sorgono nello spazio narrativo. […] Pertanto, nella società dell’informazione denarrativizzata essa perde radicalmente il suo significato» (pp. 71-72).
Ma di questa caverna digitale-informazionale, si chiede allora Han, quanto siamo consapevoli? È possibile uscirne? E, una volta rientrati, quale sarà la reazione di chi, all’interno delle pa-reti, continua ad assistere e ad intervenire nel vortice delle informazioni? O, forse, «non c’è affatto un esterno rispetto alla caverna» (p. 77)? Fenomenologia dell’informazione, fenomenologia del potere, con-sapevolezza: «il dominio si compie nel momento in cui libertà e sorveglianza coincidono» (p. 7).

(9 febbraio 2023)

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