martedì , 19 marzo 2024
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77. Recensione a: S. Rosen, La questione dell’essere. Un capovolgimento di Heidegger, trad. it. di G. Frilli, ETS, Pisa 2017, pp. 306. (Alberto Giovanni Biuso)


Il dispositivo teoretico dell’heideggerismo produce di continuo critiche, riprese, abbandoni. L’ambizione di Stanley Rosen di capovolgere tale dispositivo contiene in sé tutti questi elementi. L’obiettivo di Rosen consiste, infatti, nell’analisi critica della tesi heideggeriana che interpreta la filosofia di Nietzsche come platonismo capovolto e dunque in ogni caso come platonismo, nel noto significato per il quale, nello sviluppo da Platone a Nietzsche, la metafisica si orienterebbe in base agli enti, lasciando impensato l’Essere. Il Wille di Nietzsche – la volontà di potenza – capovolge l’eidos di Platone – la forma – ma ne condivide l’immanenza ontica rispetto alla trascendenza ontologica. Quest’interpretazione costituisce, per Rosen, «il più grande impedimento all’attuale comprensione della metafisica, e perciò anche della filosofia. Ciò è dovuto al potere della sua [di Heidegger] intelligenza e all’estensione delle sue conoscenze, per quanto dannoso possa essere l’uso che egli fa di queste capacità davvero considerevoli» (p. 9). E dunque il capovolgimento tentato a sua volta da Rosen vuole essere «al tempo stesso una ricostruzione dello spirito del platonismo: uno spirito che deve rinnovarsi a ogni generazione, come una fenice che rinasce dalle ceneri della confutazione» (p. 9).
La prima parte del testo è volta a «mostrare che quello che Heidegger chiama platonismo deve più propriamente essere chiamato aristotelismo» (p. 23). La seconda parte coniuga questo elemento di fondo con la lettura heideggeriana del pensiero di Nietzsche come antitesi del platonismo. Il vero e complessivo obiettivo di Rosen non consiste però in un ritorno alla metafisica nel senso della scienza dell’essere in quanto essere, ma in tre diversi scopi, più circoscritti e tuttavia unitari: una delineazione del platonismo come interminabile ricchezza aporetica; la difesa dell’esistenza quotidiana come ciò che è da pensare; la dimostrazione dell’implausibilità di ciò che Heidegger chiama differenza ontologica.
Come l’essere, anche la metafisica si dice in molti modi. Il modo platonico non può secondo Rosen essere identificato con la teoria delle Idee e tanto meno esaurirsi in essa. Infatti, non bisogna dimenticare che l’analogia tra il Sole e l’Idea suprema del Bene ricorre una volta sola nei dialoghi, i quali rimangono non soltanto sempre aperti, e su molte questioni aporetici, ma sono profondamente radicati sul terreno della vita quotidiana e della sua struttura comunitaria; è anche da qui che nascono l’attenzione husserliana alla Lebenswelt e quella heideggeriana all’ermeneutica dell’effettività.
Platone si oppone ad ogni forma di nichilismo, ad ogni riduzione della vita a pura illusione, sia che tale atteggiamento si articoli nella metafisica parmenidea dell’Uno, sia che si esprima nella «fisica», la quale «tanto nella sua forma antica quanto in quella moderna, riduce la vita umana all’illusione» (p. 175).
Il platonismo di Nietzsche si mostra in molti modi, tra i quali: lo stile teoretico mai dogmatico; la centralità della grosse Politik; il ritenere la filologia più scientifica della fisica, la quale «come tutte le scienze naturali, è un’interpretazione; lo scopo del filologo consiste nel regolare o tenere sotto controllo l’interpretazione» (p. 272).
Il platonismo nietzscheano si esprime soprattutto nella posizione sull’intero che si esplica solo e sempre come pieno significato di ogni sua parte; proprio il contrario, per Rosen, della differenza ontologica che dissolve la dimensione ontica nell’assolutezza dell’esigenza ontologica: «Più meditiamo sull’Essere, meno vediamo gli enti. Dall’altro lato, più attentamente studiamo gli enti, maggiore chiarezza ne ricaviamo sull’Essere» (p. 294).
Il pensare di Platone e di Nietzsche è rivolto agli enti, mentre quello heideggeriano all’essere. Ma la filosofia è pensiero del mondo, il quale è fatto sempre e soltanto di enti. Nasce da qui la necessità di ‘capovolgere Heidegger’.
A unificare le tre critiche rivolte alla teoresi heideggeriana come opposta a quella platonica è il concetto di Er-eignis, poiché «a rigore, l’E-vento non è un accadimento, se con siffatta espressione ci riferiamo a qualcosa di definito, a cose o eventi identificabili. Riguardo all’E-vento non accade nulla; è l’E-vento a eventuarsi» (p. 16). E tuttavia, anche in questo modo Heidegger mostra la consistenza del debito contratto con Nietzsche, con questo «metafisico del caos» (p. 154) che ha voluto imprimere al divenire il carattere dell’essere, e al caso il carattere della necessità.
Nonostante l’ampia e articolata critica rivolta ad alcuni dei fondamenti del pensiero di Heidegger, Rosen riconosce al filosofo di essere «talvolta estremamente illuminante» (p. 40). Di esserlo non soltanto per le «molte cose che si possono imparare» da lui, compreso «come spogliare la filosofia del suo guscio accademico o scolastico e riportarla alla vita» (p. 12), ma anche per la capacità che il pensiero heideggeriano possiede di capovolgere la stessa intenzione critica di Rosen in una chiara riproposizione, da parte di quest’ultimo, della differenza ontologica.
Lo studioso distingue nettamente, infatti, tra essere ed esistenza, affermando che la seconda è una modalità circoscritta del primo, la cui forma non richiede necessariamente un’esistenza nello spazio-tempo, e tanto meno un’esistenza empirica. Romeo e Giulietta (l’esempio è mio) non sono mai esistiti ma senz’altro sono; «Platone e Heidegger sono esistiti in un dato tempo, ma adesso che sono morti o non esistono più possono esser detti ‘essere’ nel senso che possiamo incontrare le conseguenze della loro precedente esistenza, che davvero lo facciamo o no» (p. 121); figure geometriche, ricordi del passato, attese del futuro, baricentri e valori non esistono da qualche parte, ma certamente possiedono un loro pieno statuto ontologico.
È evidente che queste argomentazioni, mie e di Rosen, affondano anche nella teoria dell’oggetto di Meinong. Infatti, da qui si transita facilmente alla differenza ontologica, espressa da Rosen come differenza tra «i concetti e le categorie, [che] ‘sono’, e le cose percepibili dai sensi, [che] ‘esistono’» (p. 201). La differenza ontologica si conferma quindi un dispositivo teoretico fondamentale, espressione e ramificazione di ciò che nel Politico – come lo stesso Rosen ricorda – lo Straniero chiama «il mare infinito della dissomiglianza» (273 d 6 sg.; qui a p. 204) e che nel Sofista articola come eidos, come aspetto universale che accomuna ogni particolare e offre loro un senso. «Nessuno», afferma Rosen, «può fissare direttamente gli enti; ogni sguardo agli enti è in realtà diretto al loro aspetto» (p. 96), fatto di mutabilità e permanenza, identità e differenza.
Ciò che Rosen descrive come l’«insistenza costante» di Heidegger «sull’interazione di presenza e assenza» – laddove la presenza è la visibilità, l’aspetto, la forma che però si fondano sull’invisibile e sull’assenza – è uno dei nuclei stessi della metafisica, la quale è anche un discorso sul visibile a partire dall’invisibile. Differenza ontologica significa anche questo. Rosen non attua quindi, come pur lascerebbe pensare il sottotitolo del libro, A Reversal of Heidegger, un capovolgimento, se non nel senso di far emergere contro la propria stessa volontà il platonismo di Heidegger. Platonismo che viene riconosciuto anche nell’Appendice dedicata alla pubblicazione delle lezioni heideggeriane sul Sofista, giudicate «assolutamente superior[i] a ogni successiva interpretazione heideggeriana di Platone a me nota» (p. 297).
La lettura che Rosen offre della filosofia di Heidegger non si mantiene sempre a questo livello. Cade infatti a volte in quell’autentica volgarità ermeneutica che afferra implacabilmente quanti, nonostante il dispiegamento di tutti i loro strumenti, non riescono semplicemente a comprendere Heidegger. Al riguardo, fornisco un solo esempio: «È meglio esser sani che malati, e quindi se abbiamo il cancro è meglio andare dal chirurgo che essere affrancati verso l’Essere» (p. 258). Affermazione che non necessita di ulteriori commenti.
L’elemento più debole della lettura di Rosen non è comunque questo, ma consiste nell’evidente e costante reificazione dell’essere. Qualunque analisi si formuli del pensiero di Heidegger e in qualunque modo lo si valuti, ciò che non si deve fare è ricondurre l’essere a una sostanza, a una cosa, a un ente, a una causa. La radice antimetafisica della filosofia heideggeriana sta, infatti, nella non riconducibilità dell’essere alle categorie del linguaggio platonico e aristotelico. Questo non significa però che l’essere non possa venir detto, poiché ciò costituirebbe una tesi autocontraddittoria, ma che vada pronunciato in modi ancora più tradizionali, quelli che attingono ai pensatori delle origini e alla nascosta ma pervasiva dimensione apofatica e gnostica di questo pensiero.
Rosen ha ragione nel dire che «fare teoria significa contemplare non qualche altro mondo, bensì la natura di questo mondo» (p. 173), la quale è fatta di suoni e di silenzio, di tenebra e di luce, di presenza e di assenza, di essere e di nulla. È anche questo l’infinito oceano della differenza.
Non ho difficoltà a riconoscere che Rosen ha ragione nel ritenere che su Platone e su Nietzsche Heidegger si sia sbagliato. Quello di Platone non è, infatti, un pensiero ontico, una metafisica della presenza, ma costituisce uno sforzo ontologico tanto tenace quanto ripetuto e radicale, i cui esiti più convincenti sono proprio quelli individuati nel Sofista, un dialogo che lo stesso Rosen riduce però a un esempio di primato della retorica sulla dialettica: «Benché dedichi grande attenzione e mediti a fondo le parole esatte dello Straniero di Elea, e nonostante le analisi davvero magnifiche di alcuni passi -soprattutto le sette definizioni del sofista nella prima parte del dialogo- Heidegger legge tali parole con le lenti dell’ontologia fondamentale. Con tutta la sua perspicuità e attenzione al dettaglio, Heidegger dimentica presto, e rischia di farci dimenticare, che stiamo leggendo un componimento di finzione su qualcuno che non è Socrate né Platone, e che presenta una dottrina tecnica che non può essere attribuita immediatamente a Platone» (p. 299). Il lavoro filosofico è però anche quest’interrogare la ‘finzione’. Per quanto riguarda Nietzsche, egli non è ‘l’ultimo metafisico dell’Occidente’, ma colui che ha radicalmente compreso la struttura eventuale e non permanente dell’essere.
Su Platone e Nietzsche, Heidegger si è quindi sbagliato. E tuttavia non si possono che condividere le parole conclusive del libro: «Come testimonianza del mio apprezzamento per il genio di Heidegger, chiudo questo studio con le seguenti parole delle lezioni sul Sofista: ‘solo quando saremo storici [geschichtlich] capiremo la storia [Geschichte], e una volta capita, essa sarà eo ipso superata’» (Il «Sofista» di Platone, trad. it. di N. Curcio, Adelphi, Milano 2013, p. 284; qui a p. 301). Che cosa implichi e significhi tale appropriazione della storia e del tempo è il senso stesso della filosofia di Martin Heidegger.

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