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8. Recensione a: Luca M. Possati, La ripetizione creatrice. Melandri, Derrida e lo spazio dell’analogia, Mimesis, Milano, 2013, pp. 114 (Emanuele Mariani).

La ripetizione creatriceÈ un tentativo di pensare en philosophe che Luca M. Possati ci propone con questo agile testo di appena 106 pagine, il cui titolo enuncia un programma, quasi un manifesto, di pensiero: «la ripetizione creatrice». Titolo suggestivo, e altrettanto suggestivo è l’accostamento che ritroviamo nel sottotitolo «Melandri, Derrida e lo spazio dell’analogia». Emerge così, e fin dalle prime battute, l’originalità dell’impresa con cui l’autore si confronta. Originale perché inedita e tanto più coraggiosa, questa impresa, se consideriamo il riferimento a Melandri, figura geniale e ingiustamente misconosciuta del nostro Novecento, la cui opera incomincia finalmente a registrare – ora grazie anche a Possati – una prima doverosa ricezione. Tra Melandri e Derrida, il passaggio tutt’altro che evidente, almeno all’apparenza, è reso chiaro alla luce del tema, l’«analogia», ovvero lo «spazio dell’analogia». Ed ogni parola conta: lo «spazio», infatti, non è solo lo spazio di una riflessione e, di conseguenza, la possibilità di un confronto tra due pensatori, «Melandri» e «Derrida» – nomi da intendersi, piuttosto, alla stregua d’aggettivi che qualificano due distinte costellazioni di pensiero. Lo «spazio» o, meglio, una certa concezione dello spazio, è la risposta all’«enigma della ripetizione» che Possati evince dalla sua lettura dell’analogia, il tema a cui Melandri aveva consacrato nel 1968 La Linea e il Circolo, «un capolavoro della filosofia del Novecento» – per riprende l’ormai celebre espressione di G. Agamben.
È dunque con Melandri che il confronto incomincia, e per «confronto» si dovrà intendere un corpo a corpo in cui la lettura, estremamente esigente, di questo libro ci impegna senza tregua. Riprendendo a proprio conto la riflessione sull’analogia, Possati cerca le zone d’ombra, i limiti di un gesto, in un certo senso incompiuto, a cui Melandri non sarebbe giunto. Il commentario si accompagna, pertanto, a una critica interna – una critica, però, non detrattiva che ambisce a radicalizzare il potenziale inespresso del pensiero analogico. Facciamo allora un passo indietro per meglio coglierne la strategia argomentativa. Melandri, come sappiamo, individuava nell’analogia il motivo di un’inedita rilettura della storia della filosofia, concepita in termini di Problemgeschichte. Sforzo eroico e monumentale, al servizio di un fine teoretico ben preciso: l’allargamento dei limiti della razionalità, storicamente vincolata alle esigenze di una logica che elegge a criteri fondativi i principi del terzo escluso e di bivalenza (vero-o-falso). Da un punto di vista formale, l’analogia risulterebbe di conseguenza costretta all’indigenza di un’alternativa che l’ha da sempre relegata tra gli argomenti della retorica o, al limite, tra le specie dell’induzione. Tra l’a priori e l’a posteriori, tra la formalità di un ragionamento e la materia di un contenuto refrattario a ogni formalizzazione, la natura dicotomica dell’opposizione avrebbe imposto all’analogia il compromesso, per non dire la mediocrità, di una via mediana come unica strategia di comprensione. Ed è questo il mantra che una certa vulgata ci ha effettivamente consegnato in merito alla cosiddetta «via analogica» in grado di coniugare in un unico gesto, dalle virtù funamboliche, l’univocità di un’identità formale e l’equivocità di una differenza incolmabile. Quest’aurea mediocritas nasconderebbe, però – e qui risiede la constatazione da cui muove La linea e il Circolo –, il frutto di una decisione che limita la razionalità ai criteri della logica, confinando l’analogia tra l’identità e la differenza.
Per Melandri, al contrario, non si tratta d’identità, né di differenza: la razionalità, se ce n’è una, di cui l’analogia fa prova, sta piuttosto nella capacità di fondare un calcolo inferenziale in base ad altri criteri, complementari e non antagonisti al calcolo logicistico. Al principio del terzo escluso subentra il terzo incluso; alla bivalenza la gradazione continua tra un massimo e un minimo di verità, e così via. Il senso dell’opposizione tra l’a priori e l’a posteriori, tra il formale e il materiale si riconfigura completamente, e in questo risiede il metodo «archeologico» – l’apporto forse più significativo dell’opera del 1968 –, applicato all’intero ambito della filosofia. «Archeologica» è, infatti, la regressione a una più profonda matrice di senso, da cui poter ricomprendere l’opposizione iniziale, non più pensata in base a un rapporto di contraddittorietà, dove un termine esclude l’altro, bensì di contrarietà, in virtù di un passaggio graduale tra gli estremi. Dall’esclusione all’inclusione: o… o, e… e. La dicotomia cede il passo alla complementarità. Da un’analogia extra-logica passiamo così a una logica dell’analogia che recupera all’interno di una più ampia razionalità ciò che inizialmente la estrometteva – i principi della logica.
La prassi dell’indagine, l’archeologia, viene allora a coincidere con l’argomento e in questo ritroviamo un’altra specificità del progetto di Melandri, da cui risulta un’ulteriore e significativa figura concettuale, il «chiasma ontologico». Qui emerge forse con più evidenza l’esatto funzionamento, ermeneutico oltre che metodologico, dell’analogia. Privilegiando, per esempio, la coerenza formale del discorso, rendiamo equivoca l’adeguazione alle cose e, viceversa, privilegiando l’adeguazione è la coerenza ad attenuarsi. Il principio d’individuazione, per dirlo altrimenti, opera in modo radicalmente diverso a seconda che si applichi una semantica di tipo proposizionale oppure nominale. Ogni opposizione può, di conseguenza, sciogliersi archeologicamente nell’intreccio di un chiasma, sostituendo all’iniziale contraddittorietà un rapporto di contrarietà – alla logica del terzo escluso, l’analogia del terzo incluso. Ogni operazione è reversibile nel suo contrario e la reversibilità indica un più profondo piano di simmetria su cui viene, in ultima istanza, a fondarsi l’operatività dell’analogia.
«Ma qual è il punto zero della simmetria?». Così si enuncia l’interrogativo che nella lettura di Possati funge da leva per un’ulteriore regressione. Nella risposta si racchiude tutto il significato dell’indagine: «c’è simmetria perché avviene una ripetizione»; «qualcosa si ripete […]» (p. 24). Dall’analogia alla ripetizione, passando per la simmetria, Possati ambisce a ricostruire la genesi del pensiero analogico, alla ricerca di un’origine che presiede ogni forma di razionalità. La ripetizione sarebbe, in un certo senso, l’ultima e al contempo la prima parola della ragione che conosce là dove «qualcosa si ripete». E per «ripetizione» dovremmo intendere l’Urphänomenon che racchiude in sé tutta una serie d’operazioni ulteriori che vanno dalla ricorsività alla reversibilità, dalla complementarità all’enantiomorfismo. Come, del resto, lo stesso Melandri statuiva nel 1974, in L’analogia, la proporzione, la simmetria, «nel profondo, ogni razionalità è simmetrica». E nel profondo, aggiungerebbe Possati, ogni simmetria è ripetizione. Tutto allora è ripetizione. Ma perché unificare piuttosto che distinguere? E qual è l’esatto guadagno di quest’ulteriore regressione? Una prima risposta risiede nel tentativo di disambiguare un certo uso che Melandri farebbe dell’analogia, intesa in chiave epistemologica e trascendentale. Dal calcolo dobbiamo, cioè, distinguere la ricomprensione che affida all’analogia la conciliazione degli opposti in funzione, direbbe Melandri, «dialettica». Analogia, logica, analogia: antagonista alla logica, è l’analogia «stessa» ad effettuare la ricomprensione dialettica del suo opposto, operando ora su un piano logico, ora, invece, invece, meta-logico. Qui Possati scorgerebbe il rischio di «una pericolosa regressio ad infinitum» e, di conseguenza, la necessità di enucleare con la «ripetizione» il senso profondo dell’«analogia». Resta, tuttavia, il dubbio se un tale gesto abbia un’effettiva legittimità e, soprattutto, se permetta di cogliere ciò che Melandri non avrebbe intravisto. L’analogia, come Melandri la intende –  ed è importante ricordarlo – non è un concetto, ma indica piuttosto una famiglia di concetti affini. Parliamo così di un calcolo, di un giudizio, di un argomento per analogia. Non si tratta cioè di un genere, e le distinzioni in tal senso contano ben più delle sintesi. L’estensione della razionalità a cui l’analogia aspira, per dirlo altrimenti, non è un sistema che può chiudersi su se stesso, in modo definitivo. Tutta la difficoltà di La ripetizione creatrice sta, allora, nell’evitare che il movimento regressivo si traduca in un gesto fondativo che disconoscerebbe il senso dialettico, ovvero pragmatico e contestuale della filosofia di Melandri – il quale a tale proposito, e non a caso, prospettava una riduzione del trascendentale in praxi.
In risposta a queste difficoltà si compie, strategicamente, il passaggio a Derrida che negli intenti di Possati preserva la ripetizione – qui intesa in tutta la sua plasticità – dall’irrigidirsi in fondamento. Il «chiasma ontologico» di Melandri confluisce così nella chora, concetto originariamente platonico che Derrida rilegge in chiave decostruzionista. E per «chora» si dovrà intendere, in primo luogo, la grafia greca della parola: nella «χ» di χώρα ritroviamo figurativamente l’articolazione del chiasma ridefinito, ora, come la «strutturalità della struttura» – il che stabilisce la possibilità del ripetersi e tramite la ripetizione, essenzialmente grafica, rende possibile il segno e, di conseguenza, il senso. Per Derrida, l’intenzionalità del voler-dire si riconduce all’iterabilità della scrittura, all’articolazione di uno spazio in cui i segni ripetendosi si differenziano. Différance come répetance, aggiunge Possati, dove la chora funge da «istanza d’iterabilità-differenziabilità»: ricettacolo universale, in cui si svolge il divenire; luogo senza luogo, dove tutto si segna e che in se stesso non è segnato; spazio privo di connotazioni topologiche; spazializzazione, allora, che rende possibile il ripetersi e il differenziarsi di qualsiasi cosa. Ecco la conclusione a cui perviene la lettura incrociata di Melandri e Derrida: «se nell’analogia qualcosa si ripete, è perché uno spazio si fa largo» (p. 105). Ed è così che si esplicita, di contraccolpo, l’indicazione del sottotitolo: «lo spazio dell’analogia», ovvero l’al di qua di ogni intenzionalità, la matrice grafica del senso a cui mette capo questa duplice regressione, archeologica e decostruttiva.
Dello «spazio» o, meglio, di questo «spazio» concettualmente irriducibile che costituisce l’esito finale dell’indagine non potremmo dare altro che esempi, ogni volta contestualizzati, ogni volta provvisori e interni a una determinata lettura. Esempi, e non definizioni. Le digressioni, le immagini e i contrappunti che accompagnano l’intera argomentazione ricoprono esattamente questa funzione – da Glenn Gould a Rodin passando per Mondrian, Albers, Bacon e Pollock. Assistiamo a una prolificazione del testo, ed è qui che risiede probabilmente il tratto più originale, non privo d’azzardo, di questa ricerca, il cui metodo procede per contaminazione. Il pharmakon, il supplemento, il gramma, la traccia, «les indecidables» che Derrida va ricercando per questionare, a sua volta, il paradigma dell’identità e della differenza, diventano altrettanti luoghi di un’archeologia à la Melandri. Né identità, né differenza – questo vale sia per gli «indecidables» che per l’analogia. E alla fine di questo percorso tra Melandri e Derrida ciò che resta, potremmo a nostra volta chiosare, non è né Melandri, né Derrida. La lettura di Possati conduce, inevitabilmente, a un pensiero ibrido che attribuisce un carattere archeologico alla decostruzione e opera, per riflesso, una decostruzione dell’archeologia, trovando nel «chiasma-chora» la sintesi della sua proposta.
Al di là delle conclusioni e dello stile, la cui concisione, pur apprezzabile, tende a volte ad imporsi sull’intelligibilità della dimostrazione, rimane il dubbio se tutto ciò possa ancora definirsi «fenomenologia» come Possati suggerisce, invocando la novità di una «fenomenologia grafica» che avrebbe rimpiazzato il principio dell’intenzionalità con l’écriture. Ma come opera, esattamente, una fenomenologia non più intenzionale? E soprattutto che ne è del «problema più arduo» che Possati enuncia, fin dall’incipit, una volta introdotto il tema della ripetizione, ovvero l’«irripetibile»? Tali domande restano in sospeso e spetterà probabilmente al seguito della ricerca – che auspichiamo prossima – confermare, se non addirittura ripetere creativamente il potenziale «creativo» di quest’inedita «ripetizione».

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