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9. Recensione a: Francesco V. Tommasi, Philosophia trascendentalis. La questione antepredicativa e l’analogia tra la Scolastica e Kant, Olschki, Firenze, 2009, pp. 236 (Alice Ragni)

Il lavoro di Francesco Valerio Tommasi segna un imprescindibile punto di svolta rispetto allo stato della ricerca sulle fonti kantiane e, in modo particolare, rispetto all’indagine sulla genesi terminologica della Transzendentalphilosophie. Lavoro magistrale di ampio respiro e di acume teoretico, il volume di Tommasi si colloca lungo un percorso di studi, inaugurato da Giorgio Tonelli e da Norbert Hinske, a favore di un’ipotesi di correlazione tra Kant e l’aristotelismo tedesco. Un percorso di ricerca che, tuttavia, ha sofferto per decenni di una forte limitazione, in mancanza di un “anello di congiunzione” evidente (p. IX). Grazie alla recente pubblicazione dei Vorlesungsverzeichnisse der Universität Königsberg da parte di Riccardo Pozzo e di Michael Oberhausen, l’ipotesi riguardante quella correlazione ha ricevuto un’effettiva conferma. Dall’Ordine degli studi è emerso, infatti, che all’epoca in cui il giovane Kant iniziava i suoi studi, l’aristotelismo non era scomparso dall’ambiente universitario. Franz Albert Aepinus, caposcuola dell’aristotelismo, e la sua Introductio in philosophiam erano ancora oggetto di insegnamento all’Albertina, quantomeno in modo indiretto. In particolare, è proprio il titolo dato da Aepinus alla sezione di metafisica della sua opera, Philosophia transcendentalis, a destare un forte interesse che, in presenza di prove effettive, conduce all’approfondimento e alla conferma di una continuità speculativa di fondo. Alla luce di tutto questo, Tommasi si pone l’obiettivo di «rendere conto adeguatamente del portato teorico del nuovo dato storiografico, analizzando alcuni tratti significativi sia della storia del vocabolo in senso stretto, sia dell’idea e dei problemi che esso veicola» (pag. X). La tesi di fondo è che tra il trascendentale scolastico e quello kantiano vi sia una continuità rispetto alla questiona centrale «del paradosso teorico per cui è al contempo necessario ed impossibile pensare una trascendenza rispetto all’ambito categoriale» (p. X).
Il primo dei cinque capitoli ripercorre la storia del termine “trascendentale”.  Di questa nozione, nata nell’alveo del transcendens scolastico, Tommasi evidenzia tre aspetti fondamentali che sarebbero alla base dell’adozione kantiana del termine, mediata dall’aristotelismo tedesco. La nozione di “trascendentale”, che appartiene, in primis, all’ambito della predicazione, è fortemente connessa alla questione dell’analogia dell’ente e giunge a rivestire un ruolo fondativo di tipo metafisico, poiché connesso alla necessità di riferirsi ad elementi assolutamente primi. Ne è prova il fatto che alcuni esponenti dell’aristotelismo tedesco, come Scharf ed Aepinus, usano l’espressione philosophia transcendentalis come sinonimo di filosofia prima, intendendo con ciò sottolineare l’aspetto di anteriorità che la filosofia possiede rispetto alle altre discipline. Il “trascendentale” (secondo aspetto evidenziato da Tommasi) si accompagna sempre a una grave tensione teorica, rinvenibile nella duplice istanza di comunanza (communissima) e di eminenza (prima) che i nomina transcendentia possiedono sin dalle prime riflessioni attorno alla possibilità stessa della predicazione. Il verbo “essere” esprime l’apice di questa tensione, poiché di esso può essere individuato il tratto che lo rende un sincategorema o uno strumento di predicazione esistenziale. Ens rappresenta un vuoto sostrato predicabile di tutto e, allo stesso tempo, il fondamento di tutte le determinazioni intensionali che rendono conto della diversità reale degli enti: è lo scarto tra predicazione ed essere, quello stesso scarto che ha un ruolo decisivo nella riflessione metafisica kantiana. La volontà di tenere conto di entrambe le esigenze (comunanza ed eminenza) è per Tommasi «il cuore della dottrina dei trascendentali e dell’analogia dell’ente» (p. 48), esigenza che si acuisce nell’ambito della scolastica gesuita attraverso il tentativo di sistematizzare la metafisica. Lo sforzo di conservare l’universalità e il primato della scienza in questione trova riscontro nei pensatori tedeschi della Schulphilosophie protestante. A partire dalla questione dei trascendentali, essi operano alcune scelte decisive nell’ambito della distinzione tra metafisica generale e metafisica speciale. La philosophia transcendentalis sorge allora alla base di un problema che «si costituisce attorno ad una tensione tra aspetto estensivo ed intensivo […] e tra aspetto semantico e sintattico, conoscendo un fragile tentativo di equilibrio nella dottrina dell’analogia dell’ente» (p. 60). Kant sarà, dunque, il destinatario di un termine e di tutte le tensioni teoriche ad esso connesse.
Il secondo capitolo è rivolto all’indagine dettagliata degli elementi convalidanti l’ipotesi della dipendenza di Kant dall’aristotelismo tedesco, con particolare riferimento alla distinzione tra analitica e dialettica. Alla luce del contenuto dell’Ordine degli studi dell’Università di Königsberg, l’Introductio in philosophiam di Aepinus era il manuale di riferimento di Thomas Burckhard, professore all’Albertina in un periodo che coincide parzialmente con la presenza di Kant studente. Al di là delle difficoltà e delle incongruenze storiche che Tommasi non manca di segnalare, «è molto probabile l’ipotesi che ancora negli anni quaranta del settecento gli studenti dell’Albertina potessero facilmente entrare in contatto con la philosophia transcendentalis sive metaphysica di Aepinus» (p. 66). Tommasi mette in evidenza che «in Aepinus si possono rinvenire quasi tutte le tradizioni con cui il termine “trascendentale” giunge al settecento tedesco, secondo la descrizione di Hinske» (p. 68). I termini utilizzati nell’Introductio (quali “categorie”, “sillogismo scientifico”, “anfibolia”, “paralogismo” e “antitesi”) «come notato appunto da Tonelli, si ritrovano secondo un’accezione tecnica identica o molto simile nella Critica della ragion pura» (p. 69). Tuttavia, il dato più rilevante è la presenza della divisione della logica, tipica dell’aristotelismo, in analitica (rivolta al vero) e in dialettica (rivolta al probabile), che «rappresenta un tratto centrale del rapporto tra Kant e la tradizione» (pag. 69). Aepinus, sulla base del rifiuto dello scetticismo radicale, separa la forma dalla materia della conoscenza, secondo un’esigenza che Kant farà propria in vista dell’acquisizione di un criterio generale di verità privo di ogni tratto contenutistico. La questione del fondamento trascendentale della verità è per Kant un confronto con la dottrina dell’adaequatio e con i suoi limiti interni. Questo principio, infatti, «non è in grado di garantire l’eterogeneità tra atto ed oggetto di conoscenza, e ingenera una circolarità» (p. 77) tra ente e intelletto, tra ciò che trascende e ciò che conosce adeguatamente. Proprio la separazione tra la forma e la materia della conoscenza permette dunque il superamento del criterio della verità come adaequatio e consente a Kant di operare, sul piano metodologico, la scelta di separare l’ambito puramente formale e metodico (“canone”) da quello materiale e contenutistico (“organo”) della conoscenza.
Il terzo capitolo approfondisce la questione della dialettica come logica del probabile e come arte del disputare, che «costituisce un altro importante legame tra la tradizione scolastica e Kant» (p. 89). La mediazione è operata ancora una volta da Burckhard che è «dedito all’insegnamento del cosiddetto collegium dialectico-analyticum, mettendolo in relazione con il collegio disputatorium» (p. 89). Secondo il modello aristotelico scolastico, la dialettica, indagando il probabile, procede per dispute ed è manifesto il rischio di degenerazioni nella sofistica e nello scetticismo. Lo sviluppo della dialettica trascendentale kantiana è, dunque, il punto cui approda la critica alla logica delle dispute, in vista di un criterio generale di verità. L’istanza di un fondamento universale è già presente in Scharf, sia nel Processus disputandi, sia nelle Institutiones logicae, ma il rimando più interessante è quello che Tommasi fa ancora una volta ad Aepinus. A dispetto del progressivo abbandono dell’aristotelismo nel corso del Settecento, l’arte del disputare riveste ancora un ruolo fondamentale per Aepinus. Si presenta, tuttavia, l’ambiguità «per cui la dialettica è posposta all’analitica, ma le dispute sono collocate in ambito analitico» (p. 112). Oltre al fatto che emerge chiaramente l’esigenza di ricondurre la logica del probabile all’incontrovertibilità dell’analitica, tale ambiguità richiama quella già descritta a proposito della comprensione trascendentale e analogica dell’ente. Il rapporto tra analitica e dialettica è parimenti equivoco, poiché produce una circolarità: da un lato la dialettica è subordinata metodologicamente all’analitica, dall’altro lato quest’ultima, essendo puramente formale, non può prescindere dalle premesse materiali della prima. In altre parole, le dispute, per poter essere risolte, richiedono preliminarmente delle definizioni certe, e tuttavia l’individuazione di queste definizioni dovrebbe costituire, al contempo, il risultato delle dispute stesse. Le definizioni certe dovrebbero riferirsi, allora, a una dimensione antepredicativa, ma «nell’indicare il problema rappresentato dagli antepredicamenta, ossia di determinare il rapporto tra termini e definizioni, l’analogia e il trascendentale sembrano perciò mostrare l’intrascendibilità del piano predicativo del linguaggio, e la contemporanea necessità di attribuirgli un fondamento esterno» (p. 117).
Il quarto capitolo entra nel vivo della trattazione kantiana del rapporto tra realtà e linguaggio che vede di nuovo investita la tensione propria della dottrina dei trascendentali a fronte di uno «iato incolmabile» (p. 121) tra essere e predicazione. Tommasi introduce un nesso ulteriore tra Kant e la Scolastica. Si tratta di Michael Piccart e della sua Isagoge in lectionem Aristotelis (1605). Kant probabilmente non conobbe mai direttamente l’opera, ma molte annotazioni nel lascito manoscritto del periodo precritico e nella Deutlichkeit (1764) conducono ad ammettere una significativa influenza di questo autore della Scuola di Altdorf. Nel delineare i tratti della tradizione altdorfina, Tommasi evidenzia la distinzione tra dialettica e analitica, la quale rispetto alle posizioni di Aepinus, è intesa come una radicale separazione tra logica disputatoria per il volgo (filosofia essoterica) e logica metodicamente scientifica per i dotti (filosofia acroamatica). Tuttavia gli aspetti centrali della filosofia di Altdorf ripresi e sviluppati da Kant sono molteplici. Vi è, in primo luogo, la definizione della matematica come un procedere dalle parole alle cose e quella della filosofia come un procedere dalle cose alle parole. Di qui deriva, per Kant, che la filosofia, al contrario della matematica, ha sempre a che fare con un linguaggio ordinario, inaggirabile, che deve essere costantemente chiarito, fino all’arresto di fronte a termini primi e irresolubili (primato della sintassi). In secondo luogo, Kant riprende la critica alla possibilità che il linguaggio operi matematicamente e polemizza, quindi, con J. G. Darjes, allievo di Aepinus e sostenitore della filosofia come ars characteristica combinatoria. Tutti elementi, questi, che portano Tommasi a sostenere che «la questione del fondamento del linguaggio e della sua possibile referenza alla realtà assume anche nel Kant precritico una centralità metafisica, e ciò avviene, significativamente, proprio a partire dall’indagine del rapporto antepredicamentale tra termini e definizioni e da quella dei termini primi, nella quale gioca un ruolo rilevante l’analisi dei sincategoremi» (p. 144).
Nell’ultimo capitolo, Il criticismo come philosophia transcendentalis, l’autore dà prova della tenuta della propria ipotesi. Tutte le tensioni finora descritte trovano soluzione, infatti, nell’Io trascendentale, il punto più alto della riflessione critica kantiana. «Il nuovo nomen transcendens» (p. 159), privo di contenuto al pari di un sincategorema, sostituisce l’ente compreso analogicamente e risolve la tensione interna all’analogia entis, poiché esprime lo scarto tra il piano categoriale dell’essere e la sua inattingibile inseità. «L’io costituisce i fenomeni in sostanze e si colloca su di un livello qualitativamente altro rispetto alla predicazione: privo di significazione semantica, è il fondamento e il limite della predicazione stessa, nella sua valenza categoriale, e garantisce l’eccedenza della realtà rispetto al pensiero» (p. 160). Il piano antepredicativo, essendo meramente formale-funzionale, è totalmente sganciato dall’essere ed è anteposto al dictum come sua condizione di possibilità. L’essere è solo un modo del giudizio e non vi è dunque un fondamento veramente esterno all’ambito categoriale. Di conseguenza, ogni giudizio si stabilisce sempre e solo su un piano modalizzato, poiché si collega alle diverse determinazioni dell’est della copula inevitabilmente accompagnate dall’aspetto temporale. «L’aspetto fondativo è tutt’uno con quello limitante» (p. 180). La costituzione dell’aspetto semantico si dà, dunque, solo nell’immanenza della predicazione, le cui condizioni di possibilità sono garantite dall’Io come funzione unificatrice. Il riferimento all’Io comporta, tuttavia, la difficoltà di collocare l’analogia all’interno della logica. «Kant definisce […] induzione ed analogia come procedimenti inferenziali che non appartengono propriamente alla logica, ma che altrimenti non hanno collocazione»  (pp. 187-188). L’analogia rimane per Kant lo strumento della logica della scoperta, in quanto in grado di garantire l’accrescimento conoscitivo. Nella Critica del giudizio questa viene ad assumere il ruolo ancora più rilevante di figura che media tra ambiti eterogenei, cioè tra quello intuitivo e quello discorsivo, tra forma e materia. È interessante osservare come sia proprio la conoscenza simbolica, ossia analogica, a rientrare nell’ambito della conoscenza intuitiva, la quale si contrappone a quella discorsiva che opera solo mediante concetti. Riguadagnata l’analogia su un nuovo livello, acquista pregio il percorso speculativo di Tommasi: «descrivere i tratti salienti del passaggio tra una metafisica fondata sulla dottrina dell’analogia entis e il kantismo significa altresì descrivere un’analogia tra i due ambiti: da qui la seconda parte del sottotitolo, volutamente equivoca, del presente lavoro» (p. XII).

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