martedì , 19 marzo 2024
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69. Recensione a: Jasna Koteska, Kierkegaard on Consumerism, Kierkegaard Circle/KUD Apokalipsa, Toronto-Ljubljana 2016, pp. 132. (Igor Tavilla)


Jasna Koteska (Skopje 1970) è scrittrice e filosofa macedone, docente di letteratura, teoria psicoanalitica e gender studies presso l’Università dei Santi Cirillo e Metodio di Skopje, nonché membro del CERI-SK (Central Europe Research Institute Søren Kierkegaard) di Lubiana.
Kierkegaard on Consumerism, uscito nel 2016 per le edizioni KUD Apokalipsa, in collaborazione con il Kierkegaard Circle di Toronto, consta di tre saggi, già pubblicati in altre sedi, concernenti il tema del consumismo nell’opera del filosofo danese Søren Kierkegaard (1813-1855).
“Sebbene Kierkegaard non si fosse occupato del capitalismo, egli fu uno dei più autorevoli esponenti dell’esistenzialismo, e il suo contributo alle scienze economiche, oltre che allo studio della psiche umana e della religione, consistette nell’aver sottolineato l’importanza delle scelte e delle decisioni individuali” (p. 17). Data questa premessa, l’autrice intende affermare che Kierkegaard avrebbe messo a tema della propria riflessione il cosiddetto “rischio d’investimento”, negli anni in cui la moderna economia occidentale prendeva forma, constatando, con profetica lungimiranza, come gli esseri umani si trovino quasi sempre a dover compiere delle scelte sulla scorta di informazioni parziali e di una conoscenza del reale che non è mai completa.
Il testo si articola in tre sezioni eterogenee, ricondotte a unità in ragione della corrispondenza con i tre stadi dell’esistenza umana individuati dal filosofo danese: lo stadio estetico, l’etico e il religioso.
Nella prima parte, dal titolo The consumer impulse, Koteska introduce il concetto di “coazione al consumo”, riconoscendone la radice psicologica profonda in quel desiderio o appetito per il nuovo che appare già in forma evidente, sebbene apparentemente innocua, ogni volta che il bambino, rinunciando alla rassicurante pretesa che la favola venga ripetuta ogni sera identica a se stessa, scopre il divertimento di introdurre, di punto in bianco, un elemento inedito nella storia.
Kierkegaard ha messo lucidamente in guardia dalla ricerca disperata del nuovo che contraddistingue l’esistenza estetica, e che trova la sua emblematica rappresentazione nel Don Giovanni kierkegaardiano – il seduttore bulimico che accumula un’infinità di esperienze erotiche in sequenza senza mai riuscire ad appagare il desiderio che lo consuma, perché il godimento non sta per lui nel possesso ma nell’atto stesso della conquista – il quale, scrive Koteska, “più divora e più è affamato, essendo perciò condannato a passare da un’avventura all’altra” (p. 19).
Il tema della paradossalità della scelta emerge con forza nella seconda parte, intitolata Choice, movement and repetition. L’aporeticità dello scegliere si profila sin dal principio dell’opera kierkegaardiana, a cominciare dalla falsa alternativa con cui il filosofo danese inaugura la propria produzione. In Enten-Eller (1843) si tratta, infatti, di scegliere se vivere un’esistenza estetica, giocata tutta nella sfera della sensibilità, oppure optare per una vita etica, all’insegna dell’impegno morale. In realtà, entrambe le vie conducono alla disperazione, la quale si manifesta in un caso come noia e nell’altro come senso di colpa. L’“o questo o quello” si traduce, di fatto, in un “né l’uno né l’altro”, giacché, in definitiva, né l’estetico né l’etico appagano la natura spirituale dell’uomo. La terza via che a questo punto sembra aprirsi, quella dell’esistenza religiosa, pur annunciandosi come risolutiva non è però meno paradossale. In questo caso, “il paradosso consiste nel fatto che gli uomini sono incapaci di oltrepassare l’abisso tra il finito e l’infinito, e la vita moderna nella metà del XIX secolo non faceva che rafforzare tale impossibilità” (p. 33).
Nello scritto pseudonimo La ripetizione (1843), che l’autrice considera una sorta di “manifesto kierkegaardiano della scelta” (p. 34), il giovane poeta, protagonista della vicenda, è di fatto incapace di compiere il movimento della ripresa (in danese “ripetizione” è Gjentagelse, da tage, prendere, e igien di nuovo) – un movimento, osserva l’autrice, analogo al fort-da freudiano e alla struttura morfologica delle fiabe (armonia-disarmonia-restaurazione dell’armonia) indagata da Vladimir Propp. Se in Timore e Tremore era l’atto di fede del patriarca Abramo a imporsi con statuaria grandezza, ne La ripresa è Giobbe a testimoniare la solitudine inarrivabile dell’uomo religioso, al cui cospetto la vicenda di cui Constantin Constantius è voce narrante – l’innamoramento del giovane poeta e la rottura del suo fidanzamento – appare niente più che una farsa.
Ma in Kierkegaard è l’esistenza stessa del movimento, cui si lega la possibilità di scegliere, ad essere messa in discussione. L’illusorietà del movimento unisce la speculazione degli eleati, cui Kierkegaard si richiama all’inizio de La ripresa, all’indagine sulla natura psicologica del movimento svolta da Freud alla fine dell’Ottocento. Da ciò Koteska può concludere che: “Se non c’è movimento nella realtà oggettiva, allora l’autentica liberazione dal circolo consumista può venire solo dalla comprensione che ciò che guida il circolo consumistico non è altro che il desiderio (come entità reale), mentre tutto il resto (il sistema monetario, i flussi di denaro, gli scambi finanziari neoliberisti) possiedono solo una natura illusoria” (p. 41).
In alcune pagine de La ripresa è dato poi riconoscere una critica ante-litteram dell’odierna società dei consumi, che Kierkegaard avrebbe saputo smascherare con acume non minore a quello di cui Marx e i filosofi della Scuola di Francoforte hanno dato prova. La prima notazione critica riguarda l’abitudine, da parte di chi viaggia, di fare del viaggio un’esperienza consumistica: si comincia, infatti, coll’eleggere a meta designata la località che la guida ci raccomanda di visitare, ponendoci così sulle orme dei viaggiatori che ci hanno preceduto, per farci a nostra volta promotori degli stessi itinerari. Kierkegaard osserva come questo protocollo conformista renda la presenza del viaggiatore ben accetta alle autorità, diversamente da quella del vagabondo, viandante senza meta, le cui possibilità di consumo sono praticamente nulle. “Non è solo – osserva l’autrice – che tu desideri viaggiare. Desideri anche comunicare il tuo viaggio agli altri, così che anche gli altri possano andare e ‘annusare’ quel che anche tu hai ‘annusato’. Non sei solo un viaggiatore. Sei condannato ad essere allo stesso tempo l’inserzionista del tuo viaggio” (p. 48). Così Koteska può affermare che “ci siamo trasformati in inserzionisti! Non ci limitiamo a consumare. Dobbiamo fare in modo di fare pubblicità a ciò che abbiamo consumato” (p. 50).
Durante il suo secondo viaggio alla volta di Berlino, Constantin Constantius sperimenta inoltre la spiacevole sensazione di formare una sola massa con gli altri passeggeri della carrozza in cui è stipato, tanto da perdere la percezione di quali siano le proprie gambe in mezzo a quelle degli altri. È questa, secondo Koteska, l’immagine riuscita dell’uniformità coatta che la società dei consumi impone agli individui, costringendoli a perdere il senso della propria individualità in un’orgia di corpi e desideri eterodiretti.
Nella terza parte, The concept of Kingdom, l’autrice mette in campo un inedito confronto tra Kierkegaard e il Giorgio Agamben di Il Regno e la Gloria (2007). In realtà, le citazioni del “Regno di Dio” nell’opera di Kierkegaard sono alquanto rare. Fatta salva la cautela di non circoscrivere la realtà della fede in una qualsivoglia definizione oggettivante, la reticenza di Kierkegaard a parlare del supremo valore, al cospetto del quale ogni impulso consumistico è ridotto al silenzio, si spiega col fatto che il Regno di Dio avrebbe, come tutto ciò che riguarda essenzialmente il cristianesimo, una natura paradossale.
La concezione kierkegaardiana del Regno aiuta a comprende la veemente polemica contro il clero luterano, accusato di condurre un’esistenza borghese, mossa da interessi economicisti, incompatibile con il rigore della testimonianza apostolica. I governi terreni, con i quali la cristianità ha finito per contaminarsi, non sono altro che una successione di tirannie che si usurpano a vicenda esaurendo il loro potere nella sfera della “temporalità”. Ma nel Regno di Dio il tempo non esiste, esso esiste solo sulla terra; per questo chi cerca prima di ogni altra cosa il Regno di Dio sarà ricompensato con la vita eterna.
Ciò che accumuna Kierkegaard e Agamben, malgrado le profonde divergenze (di ordine storico-culturale, religioso ed etico) che li separano, è l’aver colto il nesso tra l’esperienza cristiana e l’oikonomia, intesa alla maniera aristotelica, come tecnica della corretta gestione dei beni terreni. Se Kierkegaard smaschera l’ipocrisia della cristianità di Stato, mantenendo l’opposizione tra “beni terreni” e “Bene supremo”, Agamben riconosce come “dietro ogni nozione secolare in materia politica ed economica vi sia un concetto teologico” (p. 108), da cui seguirebbe la necessità di prevenire l’utilizzo di argomenti teologici al fine di giustificare cattive forme di gestione del potere politico ed economico.
Pochi sono gli studi che riguardano il rapporto tra Kierkegaard e l’economia, e il lavoro di Jasna Koteska intende colmare questo vuoto. In continuità con gli sforzi operati dall’Istituto di ricerca Søren Kierkegaard del Centro Europa, volti ad “attualizzare” il pensiero di Kierkegaard nell’odierno panorama socio-economico, segnato da universalismo ben più insidioso e impersonale di quello hegeliano – parliamo del totalitarismo del mercato –, il saggio dimostra efficacemente che l’opera di Kierkegaard dispone ancora di un’insospettata vitalità e di affilati strumenti critici per affrontare l’odierna “non-ideologia” dominante.

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