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82. Recensione a: Giovanni Matteucci, Estetica e natura umana. La mente estesa tra percezione, emozione ed espressione, Carocci, Roma 2019, pp. 271. (Nicolò Bugiardini)

Che cosa caratterizza l’estetico? Che cos’è un’esperienza estetica? Che ruolo gioca l’estetico nella configurazione complessiva del mondo della vita di Homo sapiens? Queste le domande a monte della ricerca condotta da Giovanni Matteucci nel suo libro Estetica e natura umana. La mente estesa tra percezione, emozione ed espressione, edito da Carocci e pubblicato a settembre 2019. Un libro complesso, vasto, denso e, quindi, “indiscreto”, volendo giocare con le parole e richiamando così la polarità dinamica densità/discretezza che emerge a più riprese all’interno del volume e che riteniamo centrale al fine di comprenderne la portata. Se l’impostazione di fondo è chiaramente riconducibile a influenze fenomenologiche – o “quasi-fenomenologiche” (p. 15) –, le più recenti ricerche negli ambiti della philosophy of mind, delle scienze cognitive e degli studi sull’evoluzionismo non sono state affatto trascurate. Infatti, l’obiettivo, come segnalato fin dalle prime righe dell’Introduzione, ruota intorno a un’indagine sull’estetico alla luce di recenti sviluppi teorici nei suddetti campi. La vastità e complessità dell’opera risalta inoltre a partire dalla scelta degli autori di riferimento, autori spesso presi in esame a partire da ambienti di ricerca diversi e distanti fra loro. Matteucci, infatti, rintraccia un piano comune al di sopra del quale appare possibile instaurare un dialogo sia con Husserl sia con Wittgenstein, con Dewey così come con Adorno. A partire da ciò, e spingendosi ben oltre il richiamo all’auctoritas di questi e di altri grandi filosofi, l’indagine viene a inserirsi perfettamente nella costellazione delle nuove prospettive in materia (Malafouris, Shusterman ecc.) con le quali si confronta proponendo al contempo delle soluzioni originali e inedite. L’autore afferma di farsi promotore di un approccio analitico-materiale, ritenendo inoltre utile, al fine di segnalare alcuni elementi di novità della ricerca in questione, l’impiego di alcuni (quasi-) neologismi. Termini quali “compaginazione”, “collusione”, “aisthemata” (distinto da “aistheton”), “percettualizzazione” (distinta da “concettualizzazione”), intervengono allora a comporre questo lessico dell’estetico, compiendo una serie di slittamenti concettuali tanto sottili quanto cruciali. Il titolo sembra già tracciare, del resto, le linee orientative dell’intera opera. Da una parte, si tratta di chiarire cosa si intenda per “estetico”, prendendo le distanze da alcune caratterizzazioni tradizionali del termine e, in primis, slegandolo dall’artistico. Qui ci troviamo infatti di fronte a un procedimento inverso: non è l’artistico a costituire una condizione per l’estetico, ma il contrario, e senza che vi sia simmetria tra le due parti. L’opera sembra inoltre tentare di segnare un distacco dall’approccio valutativo e attributivo espresso nel “giudizio”, la cui affermazione è imputabile a una serie di schemi canonici ereditati dalla modernità. Sulla scia del modello cartesiano e delle sue varie interpretazioni, la radicale distinzione mente/ambiente, soggetto/oggetto, interno/esterno ha spesso impedito di cogliere la reciproca ibridazione dei termini in questione. Matteucci insiste invece sulla necessità di porre l’accento sull’interazione esperienziale fondante, sull’“intima implicazione dell’organismo nei processi materiali in cui si manifesta l’ambiente circostante”, implicazione che può essere definita “collusione materiale” (p. 12), considerata come tale da comprendere una componente di creatività intesa come lo “stare al gioco dell’esperienza facendo emergere le linee di forza di un campo” (p. 85). L’opera in oggetto muove quindi a partire da quella “mediazione radicale” che è la relazione, specificando come con questo termine non s’intenda “una struttura istituita” ma “un processo istituente la cui realizzazione equivale al suo stesso manifestarsi attraverso il modo in cui i vari vettori si dispongono nella loro reciprocità” (p. 28). L’idea di “mente estesa” si delinea a seguito di questa caratterizzazione della relazione e, anzi, “dal punto di vista dell’estetico, la mente stessa risulta una modalità dell’interazione esperienziale” (p. 43), una mente che agisce in virtù dei propri caratteri enattivi, incarnati e sedimentati in un ambiente. Dall’altra parte, si tratta di abbozzare una definizione di “natura umana” che non stia a indicare la “dotazione naturale di un essere speciale”, quanto piuttosto “un’esplorazione da condurre […] entro una nicchia che è forma di vita” (p. 212). Proprio sui concetti di nicchia (ecologico-culturale) e di forma di vita troviamo il punto di incontro tra i due termini salienti presenti nel titolo, là dove Lebensform è un concetto chiave wittgensteiniano che sta a indicare un insieme di pratiche sociali condivise preesistenti rispetto al linguaggio: un “orizzonte di sensatezza non proposizionale a cui è affidato il buon esito di pratiche espressive” (p. 60). L’estetico è orizzonte all’interno del quale si dà la possibilità della co-evoluzione biologico-culturale di Homo sapiens. Ma qui non troviamo un’argomentazione lineare. Sarebbe forse più corretto parlare, infatti, di percorso “modulare”, di certo più adeguato a “esprimere” la materia – o, meglio, il materiale – in questione, a rendere l’immagine dinamica del contenuto complessivo del campo esperienziale inteso come campo energetico “efficiente” e comprendente una serie di vettori. Ad ogni modo, come segnalato già nell’Introduzione, il libro può essere diviso in due parti. I primi tre capitoli introducono i caratteri generali del paradigma dell’“esperienza-con”, fulcro dell’intera opera, distinto dal paradigma dell’“esperienza-di” secondo il quale è stata spesso intesa l’attività estetica nelle sue varie declinazioni. L’“esperienza-con” fa emergere l’elemento primitivo dell’esperienza, il fondo denso nel quale soggetto e oggetto non sono separati, ma “collusi” in quanto vettori di un medesimo campo energetico. Gli ultimi tre capitoli si occupano invece di esplorare nel dettaglio “le prassi dell’aisthesis” a partire da questo nuovo paradigma, in un confronto serrato tanto con una serie di testi cardine della tradizione filosofica, quanto con le più recenti prospettive in materia. Assistiamo qui al ripensamento globale, indotto dall’approccio analitico-materiale, del percepire, del sentire così come dell’espressività. Ad attribuire un ampio respiro alla ricerca condotta sono inoltre le prospettive che a partire da questa si possono delineare e che forniscono strumenti al fine di comprendere una serie di fenomeni propri alla contemporaneità. Ad esempio, il paradigma dell’“esperienza-con” presenta delle chiavi di lettura certamente utili per l’indagine sulle nuove tecnologie impiegate per fare esperienza, le quali intervengono nella composizione del nostro intorno quotidiano: facendo leva sugli elementi interazionali di tali dispositivi, Matteucci afferma che questi, “lungi dall’essere meri oggetti o protesi”, sono “media nel senso di ambienti d’esperienza, dove i relata tanto oggettuali quanto soggettuali possono anche evaporare in una virtualità integrata con il senso del reale” (p. 33). Su questa scia, anche lo statuto di artisticità di un’opera muta notevolmente: si passa dall’esperienza dell’opera d’arte all’esperienza con il dispositivo estetico, il quale genera “flussi esperienziali che hanno l’effetto di plasmare un gusto svincolato dai singoli oggetti” (p. 69): la moda costituisce in questo senso un caso emblematico. Infine, riprendendo il tema centrale – “estetica e natura umana” – ci sembra utile riportare qui, a conclusione di questa recensione, un passaggio particolarmente significativo e chiarificante: “l’estetico è manifestazione primitiva (inderivabile) di una mente estesa […] Saper gestire il sistema complesso della manifestatività anche in assenza di riferimenti a strutture profonde dell’esistenza è la competenza richiesta in misura crescente all’essere umano contemporaneo, e forse decisiva in generale per l’essere umano da sempre, nella misura in cui Homo sapiens è spinto per propria natura a vivere nel dialogo con qualcosa che non può restare meramente ‘esterno’” (p. 71).

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