martedì , 19 marzo 2024
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42. Recensione a: Vincenzo Bochicchio, Percezione, Guida, Napoli 2013, pp. 228. (Alberto G. Biuso)

bochicchioUno degli elementi più importanti del sapere filosofico è che ogni suo specifico problema riflette tutti gli altri. Non è possibile, ad esempio, praticare l’indagine sulla conoscenza al di fuori di una precisa concezione dell’essere, né – di converso – l’ontologia è separabile dalla gnoseologia. Il tema della percezione è particolarmente adatto a comprendere la profonda unità della filosofia poiché «la percezione non ci “parla” mai solo dell’oggetto visto o toccato, ma ci dice sempre anche qualcosa del soggetto percipiente, del modo in cui sta al mondo come singolo individuo, e come esponente della specie umana» (pp. 182-183). Indagare l’enigma della percezione significa dunque conoscere meglio l’umano e il «suo modo di stare al mondo» (206).
Merito principale del libro di Bochicchio è aver restituito per intero la storia della percezione in quanto snodo e sintesi della storia filosofica europea, senza tuttavia limitarsi a una prospettiva storiografica ma entrando anche con grande attenzione e chiarezza nei gangli teoretici del problema.  Percepire è un’azione che si rivolge chiaramente a qualcosa che sembra stare al di là di colui che sta percependo, ed è proprio nel contatto di una mente che osserva con un frammento di mondo osservato che si costituisce la differenza tra ciò che chiamiamo mente e ciò che definiamo mondo. Una differenza che tuttavia non è pensabile senza un rapporto strettissimo, inscindibile, tra mente e mondo È qui che abita l’enigma. Come è possibile che l’infinita ricchezza della materia venga percepita, conosciuta, vissuta da una sua parte, la mente?
Il fondamento dello studio di Bochicchio è che la ricchezza dell’indagine sulla percezione non dipenda dalle diverse risposte che sono state date ma dal modo in cui la domanda è stata posta. La grande varietà delle spiegazioni -dai primi pensatori greci sino alle raffinate analisi contemporanee- è riassumibile in tre paradigmi: il referenzialismo, il costruttivismo, la fenomenologia.
Le differenze tra tali paradigmi confermano i nessi radicali che in filosofia si danno tra i vari suoi ambiti. Il modello della referenza si basa infatti su un’ontologia realistica, sulla convinzione che il mondo sia là – indipendente da ogni sguardo – e che il compito della filosofia consista nel comprendere come questo mondo esterno si rifletta nelle strutture interne dell’essere umano, nella sua psyché. La separazione tra il “corpo” e l’“anima” rende però tale legame oscuro e quasi miracoloso. All’interno del paradigma referenzialistico si è tentato in molti modi di attenuare tale inspiegabilità.
Per i pensatori greci delle origini non si dà in effetti alcuna radicale separazione tra mente e corpo. Gli atomisti, Empedocle, Eraclito (e non solo loro) sono ad esempio accomunati dalla consapevolezza che la psyché «sia fatta della stessa materia del cosmo e che conosca percependo, cioè riferendosi al cosmo» (21). Aristotele elaborò la distinzione – divenuta da allora canonica – tra i cinque sensi e diede un significativo privilegio al tatto in quanto immediata relazione tra il corpo e il mondo. Persino il dualismo platonico diventa meno netto quando il filosofo analizza la complessa relazione che l’anima intrattiene con il cosmo. In Plotino, poi, la concezione realista/referenzialistica è esplicita in quanto per lui «è l’oggetto a disporre della percezione, non viceversa» (73). È quindi tutta la filosofia greca a essere permeata di un chiaro riconoscimento della esistenza oggettiva della materia, che la psyché percepisce e comprende in una varietà di modi.
Su questa base, il paradigma della referenza si arricchisce nel pensiero medioevale declinandosi come intenzionalità poiché senza la dimensione attiva di una mente che si diriga verso il mondo «il dato percettivo viene perduto e smarrito, non viene colto, e rimane sostanzialmente cieco, anzi si può dire che non esista affatto» (77).  Se il mondo/materia ci si dà è dunque perché la psyché è capace di dirigersi verso di esso e strutturarlo dentro di sé in determinati modi e non in altri.
Il paradigma referenzialistico giunge al suo culmine e insieme alla sua crisi con Descartes, per il quale la percezione stessa non è altro che un pensiero, un’alterazione che avviene dentro l’anima sulla base di input che provengono dall’esterno. È l’anima che sente, non il corpo. Il referenzialismo diventa così un esplicito rappresentazionalismo per il quale «l’oggetto della percezione, insomma, non è la cosa, ma la sua rappresentazione. In tal modo, Cartesio scava un solco davvero profondo fra il dato percettivo e l’oggetto: il dualismo ontologico fra res cogitans e res extensa, e la natura rappresentativa delle sensazioni rendono la referenza un “fatto” misterioso, difficile da concepire e spiegare» (94). L’impegno di gran parte del pensiero moderno consiste nel rendere conto della percezione a partire da tale dualismo ontologico. Ancora una volta la questione della conoscenza risulta inseparabile da quella dell’essere.
Locke, come poi farà anche Schopenhauer, distingue la sensazione – in quanto dato immediato dei sensi – rispetto alla percezione come operazione che la mente attua sui dati ricevuti dal corpo. Berkeley propone una soluzione radicale che parte dal rifiuto della ormai classica distinzione tra le qualità primarie degli oggetti (estensione, figura, movimento) e quelle secondarie (colore, odore, sapore). Berkeley osserva infatti che «estensione, figura e movimento, astratte da tutte le altre qualità sono inconcepibili. Perciò, dove sono le altre qualità sensibili, devono esserci anche queste, vale a dire nella mente e in nessun altro luogo» (Trattato sui principi della conoscenza umana, Bompiani, Milano 2004, p. 299). Una cosa esiste dunque «solo come effettiva rappresentazione intenzionale, senza rimandare ad un’altra esistenza extramentale e materiale» (109); non si dà un rappresentato al di là e al di fuori della rappresentazione stessa. Questo non vuol dire naturalmente che non esista un mondo fuori dalla mente ma che esso non abbia quelle caratteristiche fisico-materiali che troppo facilmente gli attribuiamo: «I corpi esistono, esistono certamente e realmente, come insieme di qualità intenzionate nella mente» (111). Per quanto assai lontana in molti dei suoi specifici contenuti, questa risposta è nel suo nucleo vicina al legame che filosofi come Condillac e Brentano pongono tra la coscienza primaria della percezione di oggetti e la coscienza secondaria che consiste nel sapere  che stiamo percependo degli oggetti.
Un paradigma davvero alternativo a quello che percorre il pensiero europeo dalle origini a Leibniz appare con David Hume, viene argomentano nella forma più innovativa e radicale da Kant, arriva sino alla fisiologia del Novecento. Si tratta dell’idea che la percezione non consiste nel riflesso – declinato in modi diversissimi – di un mondo dato ma nella costruzione di questo mondo da parte degli apparati percettivi dell’ente che conosce. Se un oggetto mi appare costante nelle sue misure, nonostante lo veda più grande quando mi avvicino e più piccolo se mi allontano; se al di là del dinamismo continuo delle fiamme io vedo sempre lo stesso e unico falò è perché la costanza e la coerenza del mondo sono strutture che non appartengono al mondo ma a me che sto percependo. Si tratta del paradigma costruttivista, che diventa radicale in Kant per il quale «non c’è spazio per un costituente “originario” o “immacolato” che non sia espressione di alcuna forma: tutto ciò che si dà e si pensa, tutto ciò che si concepisce consapevolmente o opera inconsapevolmente, obbedisce ad una forma. O meglio, rappresenta una “messa in forma”. Perciò anche la sensazione, il mero sentire, deve essere espressione di una forma o di un principio trascendentale» (149-150). Costruire in questo senso il mondo nel corpomente non significa però crearlo. Non si dà qui alcun idealismo ma piuttosto la raffinata consapevolezza, propria anche e soprattutto degli studi scientifici sulla percezione, che «ciò che percepiamo è il frutto di un’elaborazione, di una costruzione» (172), «che l’attività nervosa non produca un’immagine che si riferisce all’oggetto esterno, ma una qualità che è espressione delle leggi di funzionamento dello stesso sistema nervoso» (168). Il neuropsicologo John Pinel, ad esempio, sostiene che «il sistema visivo non dà origine a fedeli riproduzioni interne del mondo esterno. […] Il sistema visivo crea una percezione tridimensionale, accurata e ricca di dettagli, e, per certi versi, anche migliore della realtà esterna da cui deriva» (Psicobiologia, Il Mulino, Bologna 2007, p. 179).
La ricchezza e i limiti del referenzialismo e del costruttivismo trovano risposte e aprono nuovi itinerari nel paradigma fenomenologico, nella radicalità che spinge Husserl a domande come queste: «Quando diciamo di vedere, di percepire, una “casa”, cosa percepiamo effettivamente? Cosa ci è dato nella percezione? […] Ma della casa come contenuto intenzionale, al nostro sguardo si manifesta o si presenta solo una certa porzione. […] Il contenuto intenzionale della percezione, cioè, è diverso dal suo contenuto effettivo: quest’ultimo rappresenta solo una porzione dell’oggetto, un suo adombramento, che percepiamo in funzione della nostra collocazione nello spazio. Queste porzioni o parti effettivamente percepite Husserl le chiama “manifestazioni autentiche”, mentre le parti non percepite, eppure intenzionate, sono delle “manifestazioni in autentiche”. Lo scarto tra manifestazione autentica ed inautentica è connaturato al processo percettivo, ne costituisce l’essenza stessa perché è impossibile percepire l’oggetto con uno sguardo panottico o onnilaterale: la nostra percezione è sempre, irrimediabilmente, unilaterale e prospettica» (191-192).
Non si tratta più di trovare la corrispondenza tra l’oggetto percepito e il soggetto percipiente, né di individuare i modi in cui la psyché costruisce le proprie rappresentazioni a partire dalla materia data. È molto di più: si tratta di comprendere che mente e materia costituiscono una sola e unica realtà, la quale in quella parte di materia che è l’umano si struttura in forme del tutto specifiche, che permettono al corpomente di installarsi nel resto del mondo materiale e in esso conoscere, vivere, percepire, muoversi. Una delle più radicali, complete e affascinanti indagini sulla percezione, quella di Merleau-Ponty, giunge infatti alla conclusione che «il corpo è una “struttura stabilizzata” di senso che pre-dispone il campo percettivo in virtù della sua attitudine più autentica e più propria, il movimento» (197).
E con il movimento e dentro il movimento si arriva alla comprensione della struttura temporale della percezione. La Critica della ragion pura aveva capito che «la percezione, infatti, si dispiega sempre nell’ordine del prima e del poi, o della contemporaneità, e questo rapporto Kant lo chiama forma del senso interno» (140). Il tempo diventa in questo modo una fonte di conoscenza, oltre che una struttura ontologica, poiché «affermare che spazio e tempo abbiamo carattere trascendentale, significa stabilire a priori che la percezione assumerà sempre e necessariamente una struttura spazio-temporale, perché spazio e tempo sono l’unica forma che possediamo per strutturare il sensibile. […] Ed è proprio questo il senso più profondo della svolta trascendentale compiuta nella filosofia critica: la forma rappresenta un contenuto. Ecco perché Kant afferma che “tempo e spazio sono due sorgenti conoscitive, da cui è possibile attingere a priori svariate conoscenze sintetiche”» (141).
Il costruzionismo radicale di Kant diventa lo sguardo fenomenologico e quindi temporale di Husserl, per il quale «l’ora di questa manifestazione autentica assume significato in virtù del suo allora e del suo ancora: la cosa percepita si costituisce perciò in una struttura schiettamente temporale, perché la manifestazione autentica attuale inevitabilmente richiama quella che ho percepito poc’anzi, e in qualche modo mi prospetta anche quella che percepirò subito nella forma dell’“attesa”» (194).
Se l’indagine sulla percezione è parte ed espressione principe della questione ontologica – vale a dire della filosofia e non soltanto della fisiologia del corpo umano – è perché attraverso di essa si giunge a comprendere con chiarezza la struttura temporale del mondo come appare agli umani e come è fatto.

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