martedì , 19 marzo 2024
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115. Recensione a: Alberto Giovanni Biuso, Animalia, Villaggio Maori Edizioni, Catania 2020, pp. 184. (Stefano Piazzese)

Cosa significa per una persona non vegetariana o vegana – per correttezza è giusto chiarire la prospettiva di chi guarda – leggere Animalia di Alberto Giovanni Biuso? Certamente, questa è un’opera che interroga, che pone davanti a una realtà con la quale anche il carnivoro deve confrontarsi non solo come umano tra gli umani che abitano il mondo, ma soprattutto come responsabile diretto di quella «massa di corpi e di dolore […] generata, prodotta e stritolata ogni giorno in anonime strutture vicine alle nostre case» (p. 19), di cui egli è consumatore diretto e ministro.
Se la filosofia ha come risultato la nascita di uno sguardo disincantato sul mondo, dove la meraviglia e il terrore (in questo caso solo il terrore) sono binomio inscindibile del ‘vedere’, allora Animalia è proprio dal dato fenomenologico della negazione di quel continuum relazionale, filogenetico, culturale, che lega Homo sapiens alle altre specie che prende le mosse per affermare che «l’umano va dunque compreso all’interno del più ampio cerchio ontologico del quale è parte. Esso non è infatti opposto e neppure al di fuori dell’animalità ma ne costituisce uno specifico ambito» (p. 22).
Una visione antica dell’essere umano, certo, ma formulata in modo nuovo, come nuova è ogni teoresi che nel suo inseparabile legame con la storia del pensiero non rinuncia a risemantizzare ogni ambito dello spazio e del tempo. E qual è la visione che qui si ha dell’essere umano? Un ente in natura riconciliato con la sua dimensione ontologica fondamentale (che è suo fundamentum), la sua animalità. Un’animalità che finalmente riconosce il suo simile, il quale non è circoscritto solo al cerchio ristretto degli altri Homo sapiens; qui il simile è l’animale in quanto tale.
Se pensare vuol dire percorrere la propria via fino alle sue estreme conseguenze, questo è ciò che avviene lungo i sentieri delle pagine che qui analizziamo. Il pensare l’animale come ‘simile’ diviene una necessità posta dal percorrere la strada teoretica inaugurata sul fondamento della problematicità di ogni forma di antropocentrismo. Guardando le condizioni in cui versa il pianeta a causa del non responsabile dominio sulla natura da parte dell’uomo, come non essere d’accordo? La hybris degli esseri umani ha condotto alle catastrofi ambientali a cui assistiamo da decenni fino ai nostri giorni (e a cui assisteremo sicuramente nel futuro). Tuttavia, la domanda fondamentale che qui viene posta è la seguente: è davvero possibile uscire da un paradigma antropocentrico? E se il problema non fosse il dove (al centro o no) ma il come (in che modo sta al centro)? Non si tratta di un invito a una forma di antropocentrismo debole, ma di una constatazione de facto: considerato lo sviluppo del concetto e della realtà pragmatica del dominio dovuto alla techne, e soprattutto alla luce della gigantomachia di quest’ultima che viviamo noi esseri umani del Ventunesimo secolo, è davvero possibile uscire da tale dimensione dello “stare al mondo”? Uscirne vorrebbe dire rinunciare a ogni forma di dominio a cui lo sviluppo della tecnica ha consacrato l’essere umano (nel bene e nel male). È possibile ciò? Oppure il dominio – non si dà alcuna valenza positiva o negativa a questa parola – è l’ineluttabile destino dell’Occidente?
Di fronte a queste domande, e queste prospettive, che sembrano indicare come soluzione un’etica del dominio, Animalia si colloca nel segno della rivolta intesa secondo le parole dello scrittore e filosofo francese Albert Camus: «La rivolta nasce dallo spettacolo dell’irragionevolezza, davanti a una condizione ingiusta e incomprensibile. […] Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no» (A. Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano 2010, pp. 44, 47). Ma in Biuso tale concetto prende una forma sui generis, andando ben oltre ciò che Camus intendeva: la condizione ingiusta che viene denunciata nell’opera non è quella degli altri Homo Sapiens, ma quella degli altri animali; il no che Biuso pronuncia non lo pronuncia per se stesso o per altri uomini, ma per tutti gli animali e in quanto animali suoi simili.
Animalia è un razionale e agonico grido di rivolta contro la tracotanza dell’umano innalzarsi al di sopra della natura in cui vive e della natura che è. Non per ragioni estetiche abbiamo adoperato qui il termine rivolta e non quello di rivoluzione. Se la rivoluzione mira al capovolgimento di un ordine costituito per affermare un nuovo ordine – che spesso, magari, come la storia insegna, non si rivela migliore del precedente se non peggio –, la rivolta non mira a una sostituzione di forme di dominio, di dominatori, essa è una dimensione esistenziale dove l’essere umano, per effetto di una visione disincantata del mondo, dice alla terra (Nietzsche). Interessante a tal riguardo l’utilizzo che Biuso fa di ogni parola, certamente non neutrale, mai innocente o casuale. In relazione a quanto detto prima sul concetto di rivolta, viene adoperato il termine affrancare. Ecco espressa l’essenza della rivolta che anima l’opera: «Affrancarci dal paradigma umanistico significa fare della sua dialettica una forma della consapevolezza del limite che inerisce a ogni ente, evento e processo, compreso l’evento umano; significa riconoscere la comune struttura di finitudine che ogni mortale condivide. Il processo di emancipazione non può fermarsi al genere, all’etnia, alla classe. Esso avrà qualche possibilità di compiersi soltanto quando diventerà un processo condiviso con l’animalità della quale siamo parte e manifestazione» (p. 95).
Non è possibile affrancarsi da qualcosa-qualcuno se non si mette in atto una rivolta contro ciò da cui ci si vuole affrancare. Le parole di rivolta contro il paradigma umanistico-illuminista esprimono la constatazione di Horkheimer e Adorno: «Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura» (M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997, p. 12.).
Un altro aspetto che attraversa tutta l’opera riguarda il sacro – argomento che permea tutto il pensiero dell’autore. I sacrifici rituali hanno sempre avuto al centro del loro carattere cultuale la violenza contro l’animale. Ma ciò che qui viene specificato è che il rituale del sacrificio nella grecità non ha niente a che vedere con il massacro razionale, sotto forma di catena di montaggio – in questo caso di annientamento –, che ha luogo negli allevamenti intensivi dei nostri tempi. Quanto di originale è espresso dalla volontà di ritornare al valore del sacro è una relazione autentica dell’uomo col tutto, relazione che, stando ai greci, però, non esclude la violenza contro l’animale; una violenza, certo, che non ha niente a che vedere con la reificazione dell’animale, bensì con la sua divinizzazione.
La consapevolezza della complessità che risiede nell’affrontare un tema così vasto e delicato è ben presente all’autore: «La pratica del sacrificio rituale ha genesi e significati assai più complessi. Essa è un evento nel quale la continuità tra natura e cultura, tra umano e animale si mostra nel modo forse più imprevedibile ma anche più profondo» (p. 74). Il ritorno al sacro, alla sacralità del mondo, della vita, di ogni animale, si esprime all’insegna di una continuità natura-cultura, umano-animale, che sebbene sia espressa e articolata teoreticamente in modo originale, può esser collocata nella strada inaugurata da molti studiosi che hanno fatto luce in modo particolare sull’aspetto cultuale della religione dei Greci. Come, ad esempio, sostiene Karl Kerényi nella sua Opera Dioniso: «La zoé non ammette l’esperienza della sua propria distruzione. […] La religione greca si comporta come sempre: essa mostra statue e immagini nelle quali il segreto si approssima all’uomo. […] In un luogo puro: sulla scena di avvenimenti che non si svolgono nelle dimensioni dello spazio, bensì in una dimensione propria, una dimensione potenziata dall’uomo, nella quale si attendono e si cercano le apparizioni degli dèi» (K. Kerényi, Dioniso, archetipo della vita indistruttibile, Adelphi, Milano 1992, p. 21).
Il cercare le apparizioni e le manifestazioni degli dèi, la teofania, è il motivo principale dei sacrifici, infatti «l’obiettivo del sacrificio non è dunque la morte della vittima ma consiste nello spargimento del suo sangue, nell’offerta della sua linfa vitale alla Terra e alle divinità superne» (p. 79). Qui si traccia una linea di demarcazione netta, il limes sacro, tra la violenza rituale della religione greca e la violenza indiscriminata, ingiustificata di Homo Sapiens nei confronti degli altri animali per qualsiasi motivazione (alimentazione, sperimentazione, addomesticamento, puro sadismo); violenza che consiste in una vera e propria mortificazione ontologica. È possibile condividere, nei limiti in cui lo può fare un carnivoro, certo, la tesi di fondo, che può essere espressa nel seguente modo: recuperare la dimensione del sacro vuol dire abitare nella consapevolezza di un mondo trasfigurato, dove è bandita ogni forma di violenza che continuamente viene gridata dai nostri simili trucidati per il puro piacere.
La posizione teoretica, ontologica e anche etica di Biuso (quest’ultima, forse, la dimensione più complessa e delicata del suo pensiero) è espressione di una sapienza greca che getta luce sull’endemica strage degli innocenti animali. I carnivori, come chi scrive queste parole, sono chiamati a riflettere, a interrogarsi. Indagare attraverso uno sguardo antropologico che consideri l’essere umano un «ente tra gli enti in natura», la cui Haltung nei confronti del mondo si esplica nell’umiltà ontologica di una nuova ermeneutica dell’alterità (cfr. p. 57), che è ermeneutica della finitudine (cfr. p. 147) come condizione trascendentale dell’umano.
Animalia non è un manifesto al servizio di un’ideologia alla moda, e neppure una forma di proselitismo fanatico che tenta di convertire il lettore le cui scelte etiche sono diverse, bensì un momento di riflessione dove vengono problematizzati diversi aspetti di una realtà che riguarda tutti, indistintamente, e davanti alla quale tutti siamo chiamati a rispondere anche nella verità di un atteggiamento di legittimazione e diretta responsabilità.

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