martedì , 19 marzo 2024
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102. Recensione a: Silvia Federici, Genere e Capitale. Per una lettura femminista di Marx, DeriveApprodi, Roma 2020, pp. 102. (Paola Puggioni)

Il libro di Silvia Federici Genere e Capitale. Per una lettura femminista di Marx, edito da DeriveApprodi, è una raccolta di saggi all’interno dei quali si propone la rilettura del corpus teorico marxiano. Federici spinge la sua riflessione oltre le linee dello stesso Marx, interrogando i silenzi in relazione alle differenze di genere e razza nella definizione del modo di produzione capitalistico e della lotta di classe. Il lavoro proposto nei saggi, pertanto, è l’esito di un incontro tra la critica marxiana e la critica femminista, che articola un dibattito non ancora risolto.
Il problema centrale riguarda il rapporto teorico-politico che persiste tra il marxismo ed il femminismo, riflettendo sulla definizione di “lavoro”: «ripensare femminismo e marxismo significa anche porre al centro della “lotta di classe” la problematica delle divisioni costruite dal capitalismo all’interno della “classe” […] un tema quasi completamente assente in Marx» (p. 10). Di qui l’osservazione della filosofa nella definizione di un marxismo come teoria politica, incapace di esprimere i bisogni che sorgono dalle lotte di quanti si riproducono con i lavori informali, non rimunerati e precari. Nei saggi, l’intento è quello di delineare un femminismo anticapitalista, determinato a mettere la vita al centro della politica sociale: è urgente portare il discorso femminista “fuori dalla casa”, provando a comprendere le ragioni dell’assenza, nella riflessione di Marx, di una divisione del lavoro del proletariato sulla base del genere e della razza e sulla funzione del lavoro non pagato e coatto nel processo di accumulazione.
Il primo tema d’indagine è offerto dalla marginalità del lavoro domestico per la riproduzione del capitale: «secondo la sinistra, le donne, in quanto casalinghe, non soffrono a causa del capitale ma a causa della sua mancanza» (p. 18). Federici accusa la sinistra di offrire a chi è senza salario una lotta che è solo lotta per il capitale, passando attraverso forme di sfruttamento. Il tentativo è dimostrare che, sebbene il lavoro domestico non frutti un salario, ciò che producono le donne è il risultato più prezioso che appare sul mercato: la forza-lavoro. La famiglia, così come la conosciamo in Occidente, è considerata dalla filosofa come istituzionalizzazione del lavoro femminile non salariato e della dipendenza delle donne dall’uomo proprio in quanto non salariate, al fine di disciplinare sia le donne che gli uomini. «La mancanza di salario per il lavoro che facciamo in casa è stata anche la principale causa della nostra debolezza sul mercato del lavoro salariato. […] E siccome “donna” è diventato sinonimo di casalinga, dovunque andiamo ci portiamo dietro questa identità e le “attitudini domestiche” che abbiamo acquisito fin dalla nascita» (p. 23).
Il percorso che viene delineato nella raccolta affronta l’attualità di un grave problema, presente all’interno della nostra società, nonché il pregiudizio per cui la donna serva solo per il sesso e per la riproduzione. Il vero problema, generato dalla mancanza di salario nel lavoro domestico, è l’aver permesso di nascondere la reale estensione della giornata lavorativa femminile, traducendo così la debolezza sociale dei senza salario nella debolezza sociale dell’intera classe operaia rispetto al capitale. Le basi del sessismo e del razzismo sono, allora, la diretta espressione di differenti mercati del lavoro, dove è lo stesso potere a far comprendere le proprie esigenze: «nel caso delle donne, provare a educare gli uomini ha significato solo che la nostra lotta è stata privatizzata e combattuta nella solitudine delle nostre cucine e camere da letto. È il potere che educa» (p. 27). Se, come mostra Federici, il potere “educa” secondo le proprie esigenze, è con il potere stesso delle donne che può iniziare la lotta sociale per il salario. Chiedere il salario per il lavoro domestico vuol dire rifiutare di accettare questo lavoro come un destino prettamente biologico, in quanto la donna è stata sempre ripagata unicamente con “l’amore”. Il motore della riflessione reclama a gran voce il salario per il lavoro domestico, inteso come forma di emancipazione dall’uomo e più potere per la donna; il problema è che, rimanendo privatizzato, il lavoro delle casalinghe non può prefigurare un nuovo ordine spezzando il vecchio.
Nell’opera di Marx vanno riconosciuti gli strumenti forniti per pensare il rapporto tra “sesso, razza e classe” ma, nonostante ciò, la filosofa ritiene che Marx abbia solo analizzato e privilegiato il lavoro industriale: «la tradizione marxista ha trattato genere e razza come questioni culturali dissociate da una prospettiva di classe» (p. 40). Seguendo le tracce della produzione del valore, Federici intende individuare nel femminismo le modalità attraverso le quali poter attuare l’emancipazione dell’intera umanità: leggendo le operaie come “vittime”, Marx non innesca nella figura femminile il movente rivoluzionario, trascurando perciò il contributo delle donne.
Per l’attivista, altro grande assente nell’opera del teorico, oltre al lavoro femminile, è anche il lavoro schiavista finalizzato all’accumulazione di capitale, che la filosofa rilegge fornendo un’indicazione importante all’interno del meccanismo produttivo: «generazioni di marxisti hanno guardato alla proletaria casalinga come a un soggetto retrogrado, incapace di organizzazione, hanno accusato i movimenti femministi di dividere la classe o li hanno definiti movimenti culturali, domandandosi come si possano riconciliare genere e razza con la classe» (p. 52). Passando per la critica della concezione di un soggetto universale, Federici dimostra come l’identificazione della casalinga come parte del mondo non-salariato e l’individuazione del salario come mezzo per occultare aree di sfruttamento del lavoro siano fortemente connesse con il sessismo ed il razzismo. Ripensando Marx, pertanto, si può comprendere che il capitalismo abbia autorizzato gli uomini a comandare il lavoro delle donne e a disciplinarne i tempi e gli spazi. Proprio la necessità di una prospettiva di genere ha condotto Federici a ripensare l’analisi di Marx sull’accumulazione originaria, analizzando il percorso storico a partire dal XVI e XVII secolo, rilevando negli uomini la paura che le donne potessero usurpare le prerogative maschili. Ricostruendo le origini e lo sviluppo del lavoro sessuale negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, l’approdo è quello di una liberazione sessuale che diviene liberazione dal “sesso” e non intensificazione del lavoro sessuale.
La proposta di Federici, nel saggio che conclude la raccolta, fa luce sulla prospettiva femminista dei commons, auto-organizzazioni che possono essere realizzate solo attraverso l’attività comune, che «è una deviazione radicale da ciò che il comunismo ha significato per la tradizione marxista a partire dall’opera di Marx» (p. 94). Lo scopo dei commons, individuato dall’autrice, è quello di superare l’attuale separazione tra produzione e riproduzione, non in vista della sua riorganizzazione su scala industriale, ma per creare nuove forme di cooperazione.
In questo volume, Silvia Federici elabora nuovi strumenti politici e concettuali, capaci di cogliere le sfide del presente in cui viviamo, sia sul piano teorico che su quello politico; riportando le categorie marxiste oltre il marxismo stesso, vengono problematizzate le questioni inerenti alla razza e al genere, che ad oggi costituiscono una delle tematiche più rilevanti nella nostra società.

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