martedì , 19 marzo 2024
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35. Recensione a: Renato Curcio, L’IMPERO VIRTUALE. Colonizzazione dell’immaginario e controllo sociale, Sensibili alle foglie, Roma, 2015, pp. 112. (Alberto G. Biuso)

l'impero virtuale Al di là di ogni contrapposizione tra ‘apocalittici’ e ‘integrati’, l’analisi che questo libro dedica alle dinamiche più profonde delle società contemporanee e dei loro strumenti di controllo si avvale di alcuni dispositivi concettuali che di tali processi rivelano con chiarezza significati, origini e sviluppi. Internet è, infatti, tante e diverse cose: «Uno sviluppo del capitalismo globale, una tecnologia innovatrice, un nuovo panottico di sorveglianza, una possibilità di controllo a distanza dei lavoratori, una produzione di identità virtuali, un’opportunità per mille operazioni di hackeraggio benefiche e malefiche, una possibilità di velocizzare e ampliare le nostre comunicazioni orizzontali e tante, tantissime altre cose ancora» (p. 8).
Il primo dato è dunque che il Web costituisce certamente un’innovazione ma non è una rivoluzione, essendo la Rete «l’espressione estrema dell’espansione capitalistica, la più pervasiva, non l’irruzione di istituzioni che ne modificano i presupposti» (91). Internet è il più recente dei miti alienanti generati dal modo di produzione capitalistico, ponendosi esso in continuità con la società dei consumi e con la società dello spettacolo.
Dalla rete militare-accademica Arpanet (1969) alle piattaforme più recenti (Facebook 2004, Google 1998, WhatsApp 2009, Twitter 2006), capitalismo e Rete condividono almeno tre elementi: la struttura gerarchica costituita da «una nuova oligarchia economica esperta nell’esercizio del potere digitale» (9); l’orizzonte planetario -il metacontinente virtuale fatto di connessioni digitali globali; l’intenzione totalizzante di occupare tutto il territorio del tempo e dell’immaginario.
Il principale dispositivo analitico di questo libro è pertanto la colonizzazione dell’immaginario. Le antiche forme di colonizzazione culturale – le Crociate e in generale l’attività di proselitismo della Chiesa papista – e territoriale – l’imperialismo europeo- conquistavano, depredavano e sfruttavano ma non riuscivano a raggiungere il loro obiettivo più ambizioso: entrare nei corpimente degli assoggettati e possederne l’interpretazione del mondo e della vita. È questo, invece, ciò di cui sono capaci le istituzioni e le aziende che hanno dato vita al più invisibile e pervasivo sistema di controllo delle persone, delle loro scelte, delle intenzioni, dei comportamenti: «La materia più preziosa al mondo non è il petrolio, né l’oro e neppure l’energia. No, più prezioso di ogni altra cosa, come aveva già intuito il Papato ai tempi delle prime Crociate, è l’anima degli umani, il loro immaginario. L’impero virtuale non è che la storia recente di questa appropriazione, di una nuova e più insidiosa strategia di colonizzazione dell’immaginario» (16). Si tratta della «schiavitù mentale» della quale parla Chomsky, «la schiavitù di cui sono vittime gli entusiastici abitanti dell’impero» (68), il quale si presenta «come una società della trasparenza identitaria; una società degli alias digitali accreditati e domiciliati in account, con-vinti e attivi, ma sempre trasversalmente monitorati senza alcuna pausa» (100-101).
Questa forma di trasparenza totalitaria si accompagna ad altri cinque fenomeni principali: «L’iperconnessione, la schiavitù mentale, l’app-dipendenza, l’alienazione della memoria, il furto dell’oblio, e il deterioramento della sensibilità relazionale» (10).
Si tratta di fenomeni interrelati tutti tra di loro. L’iperconnessione, ad esempio, è una coazione al contatto virtuale che diminuisce drasticamente -e a volte annulla- i legami in presenza. È esperienza comune e diffusa vedere delle persone insieme ma distanti. Distanti perché mentre sono in compagnia del soggetto A sono in contatto virtuale con il soggetto B oppure sono immerse nell’utilizzo dei loro reciproci cellulari. La «distinzione tra legami sociali e connessioni» (62) è uno dei nuclei teoretici ed empirici dell’analisi di Curcio: «Mentre i legami in presenza si generano, si consolidano e si sciolgono attraverso parole e messaggi non verbali che i corpi si scambiano reciprocamente, le connessioni elettroniche si affidano alle immagini morte, ai filmati, ai simboli e alla scrittura, vale a dire ai tipici sistemi di segni ai quali, da sempre, ricorrono i linguaggi dell’assenza» (63-64). Obiettare che la dimensione simbolica e la distanza hanno sempre caratterizzato i legami sociali non tiene conto del fatto che quello che sta avvenendo è altro, è un vero e proprio mutamento antropologico fatto di «parole finte, contatti virtuali spacciati per legami amicali, maschere intercambiabili e ologrammi in marcia nelle piazze vuote» (99), tra le cui conseguenze si staglia una progressiva difficoltà ad affrontare relazioni dirette, a comprendere la potenza materica del mondo naturale, a interagire in maniera profonda ed equilibrata con i corpi che siamo. L’avatar, il nome nella Rete, l’alias virtuale, sono infatti tutte forme di disincarnazione, di deterritorializzazione, di annullamento della corporeità, vale a dire dello spaziotempo fisico nel quale ci costituiamo e che siamo.
Nel mondo virtuale tutto sembra in movimento ma già la metafora stessa del ‘navigare’ rimanendo in realtà immobili davanti a uno schermo mostra che si tratta di un moto apparente. Le pagine e i format delle più diffuse piattaforme virtuali – come facebook – sono uguali per tutti e rimangono sempre identiche a se stesse, pur se riempite di contenuti effimeri la cui stessa identità consiste nel dover al più presto dileguare per lasciare spazio ad altro, destinato anch’esso a una veloce sostituzione. La paradossale staticità di queste immagini consuma e dissolve il dinamismo dell’immaginazione, imprigionata e immiserita in schemi già dati e stabiliti entro le gabbie grafiche dei social network. In essi tutto è familiare e miserabile, allo stesso modo del cibo familiare e sempre uguale che viene servito nei McDonald’s di tutto il pianeta.
Nulla di questo tempo statico -vale a dire di questo tempo finto– viene dimenticato dai server nei quali si deposita la scrittura e la vita degli umani in Internet. Se «per ogni agire ci vuole oblio» (Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, § 1, trad. di S. Giametta, in «Opere» III/1, Adelphi 1976, p. 264), l’accumulo indistruttibile delle memorie nella Rete rischia di paralizzare il nuovo, il suo immaginario, il suo avvento.
«Affidando i nostri ricordi alle implacabili memorie esterne, queste memorie ricorderanno di noi anche quello che noi non ricordiamo più o di cui ci siamo liberati. Figlie del pensiero quantitativo esse ignorano l’arte sottile e benefica dello scarto e dell’abbandono: esse ricorderanno per sempre anche quanto noi non vorremmo più ricordare. Ricorderanno nonostante noi e la nostra volontà, e saranno soltanto esse, infine, a costruire, giudicare e decidere quale debba essere il significato dei nostri trascorsi dimenticati.
Va detto ancora che la memoria senza oblio è anche una memoria senza storia, una memoria ‘morta’, rigida come un cadavere e patologicamente dissociata. È una memoria ‘cattiva’ che genera malessere. Tutto ciò che essa conserva ‘dorme’ fino a che l’oligarchia non ritenga di doverlo risvegliare per una sua qualsiasi ragione; dimora in un obitorio dell’impero in attesa di essere un giorno oscenamente scrutata da algoritmi curiosi in cerca di sempre nuove e imprevedibili associazioni». (77)
La memoria non è soltanto costituzione del passato e dell’accaduto ma è anche condizione del nuovo e dell’inedito. Il declino della memoria attraverso strumenti che la sostituiscono in ogni occasione e circostanza -gli strumenti offerti dalla Rete- rischia di impoverire l’immaginazione e rendere pallido il futuro.
Quali le ragioni, quali le cause e gli obiettivi di tutto questo? Si tratta di spinte e scopi di natura ancora una volta politica ed economica. Ma qual è e come si genera il meccanismo di arricchimento – enorme – di società che offrono servizi in apparente e totale gratuità? Come fanno Google, facebook, twitter a generare i propri astronomici profitti se non fanno pagare nulla agli utilizzatori dei loro servizi?
Si tratta di una raffinata forma di valorizzazione del Capitale, nella quale il lavoro volontario e non retribuito diventa addirittura inconsapevole – efficacemente mascherato con la formula della gratuità dei social network – e i soggetti che producono valore sono oggetto di offerte commerciali che essi stessi hanno contribuito a creare. Possiamo dunque

«raffigurarci l’utilizzatore della piattaforma come un lavoratore-consumatore che opera volontariamente per un’azienda produttiva senza percepire alcun salario; che produce con il suo lavoro valore, ma lo fa gratuitamente, volontariamente, e nella maggior parte dei casi senza esserne neppure consapevole; e che, infine, riceve nei suoi strumenti digitali inviti mirati all’acquisto di prodotti ai quali in qualche modo si è interessato (un volo, un libro, un tablet, un’auto, un appartamento). Ricordando che il popolo irretito nell’impero virtuale raggiunge attualmente circa tre miliardi di persone non stupisce che il gruzzolo finale raggiunga cifre astronomiche». (36)

Tutto questo rappresenta anche e soprattutto una radicale esperienza di controllo collettivo, attuato con la fattiva collaborazione del corpo sociale stesso, il quale costruisce da sé la propria schedatura mediante la miriade di fotografie (‘libro delle facce’), immagini, riferimenti anagrafici, nomi, tag, contrassegni dei quali i singoli riempiono le proprie pagine e con esse la Rete. La carota è il ‘mi piace’ da ottenere e moltiplicare: «Un ‘tweet’ qui e un ‘mi piace’ là. Un messaggino e uno scambio di fotografie. Esorcismi contro la solitudine, ma anche angoscianti domande. […] Il numero e non la qualità. Questo è lo specchio di qualunque Narciso virtuale. […] Nell’ordine di realtà virtuale a cui Narciso si consegna, la sua gloria e il suo destino dipendono dall’aritmetica» (70). Il bastone è l’insignificanza della quale si viene minacciati se non ci si sottopone a tali riti; di più: è l’inesistenza stessa, che dal piano di un’ontologia materica è passata a quello di un’ontologia digitale che sta a fondamento dell’impero virtuale.
Vengono in questo modo confermate le intuizioni heideggeriane sulla natura non neutrale della tecnica, sul suo costituire l’espressione di una struttura ontologica che si incarna in opere e manufatti ma non è a essi riducibile; vengono confermate le tesi sul pericolo che la tecnica rappresenta quando il suo sviluppo è lasciato a se stesso o, per meglio dire, agli interessi politici che lo muovono.
Per quanto difficile appaia e sia, è comunque possibile affrancarsi da tale pensiero unico del «contesto digitale» che «cancella dal pianeta gli immaginari stessi del cambiamento e della discontinuità. Come se il modo di produzione capitalistico e le istituzioni dei suoi poteri tentacolari non fossero più neppure discutibili» (9). Esistono soggetti e comunità che operano affinché le chiavi d’accesso alla Rete siano aperte e non proprietarie, affinché gli scambi restino riservati e sicuri, invece che controllati e trafugati. Internet è certamente «dentro il mondo, ma il mondo non si riduce a Internet. Il futuro passa anche dall’esterno di questa ragnatela e fuori dalle sue ossessioni» (98).
Proprio per la sua natura virtuale e deterritoralizzata, l’impero virtuale è molto diverso rispetto agli altri sinora esistiti e tuttavia possiamo condividere la parole con le quali questa analisi si chiude: «Stando all’evidenza storica tutti gli imperi esistiti sono anche crollati. Non vedo perché proprio questo dovrebbe fare eccezione» (101).

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