martedì , 19 marzo 2024
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39. Recensione a: Rocco Ronchi, Gilles Deleuze. Credere nel reale, Feltrinelli, Milano, 2015, pp. 144. (Pietro Terzi)

5964882Fra i grandi della sua generazione, Deleuze più di tutti è stato oggetto, in vita e in morte, di un asfissiante culto delle reliquie. Non è raro che la creatività linguistica e concettuale di un autore diventi canone per i suoi allievi e continuatori. L’instaurazione delle ortodossie filosofiche ha un decorso piuttosto noto: un movimento di pensiero viene cristallizzato nei suoi prodotti, brutalmente codificato in un lessico, tradotto in parole d’ordine che funzionano come piccoli totem attorno a cui radunarsi, dunque come alibi per non pensare veramente. Per molti decenni, la fortuna di Deleuze è stata legata alla sua feticizzazione. «Deterritorializzare», «fare rizoma», «pensare plurale», «concatenare», ecc., erano gli imperativi politici su cui giuravano i suoi adepti; «empirismo trascendentale», «immanenza», «ripetizione», «impassibilità dell’evento», ecc., i geroglifici di un sapere custodito solo da pochi iniziati.
Il bel libro di Rocco Ronchi ha un valore duplice, in quanto segna l’apice di un importante cambiamento avvenuto nella ricezione critica di Deleuze e, al contempo, ne rappresenta il superamento. Nell’ultimo decennio in particolare, ma in fondo già dagli anni Novanta, si è assistito infatti al formarsi di una solida tradizione di studi che, anziché guardare al cristallo del pensiero deleuziano come a un organismo autogeno, ricco solo in virtù delle sue connessioni interne, ne ha illuminato la genesi profonda e duplice, da un lato squisitamente francese, dall’altro problematicamente post-kantiana. Fin qui, però, si trattava di approfondire la linea di sangue tracciata dallo stesso Deleuze, che mai fece mistero dei suoi maestri diretti e indiretti.
Rispetto a questi importanti studi, Rocco Ronchi compie un passo ulteriore, che allontana il suo lavoro dall’inevitabile e pur sempre fondamentale storicizzazione critica: leggere Deleuze come un filosofo classico, che, nella generale sfiducia novecentesca verso la speculazione filosofica, scommette sulla capacità produttiva del pensiero, sulla possibilità non solo di descrivere il reale ma di credere in esso – di qui il sottotitolo –, cioè di potere in un qualche modo dire l’evento nel suo stesso prodursi, senza condannare l’attività della ragione alla solitudine di chi arriva troppo tardi. E qui non ne va solo dell’eredità di quella nota genealogia «minore» della filosofia a cui Deleuze si richiamava, quella famiglia di autori che, all’ombra dei loro «maggiori» (il criticismo, l’idealismo, la fenomenologia, l’ermeneutica), tentavano la formulazione di un’esperienza «pura», che fosse la precisa espressione del vivente come tale, al di là di ogni correlazione intenzionale e di ogni coscienzialismo. C’è di più, e sono proprio i momenti più alti del libro, quelli in cui l’autore scopre affinità inattese dislocando Deleuze su territori all’apparenza estranei: la teologia bizantina, l’attualismo di Giovanni Gentile, il pensiero di Cusano, la filosofia della natura e la cosmologia di Bruno – fino agli stessi Platone e Hegel (contro ogni evidenza: non intendeva forse Deleuze rovesciare il platonismo e sbarazzarsi della dialettica?).
Ecco dunque un primo dato: non abbiamo fra le mani un avviamento storico o un’esposizione diacronica. Secondo Ronchi, che si propone di lasciare sospesa la domanda «Chi era Deleuze?» per scrivere, dichiara, «un capitolo di pensiero contemporaneo» (p. 9), è venuto il momento di ripetere Deleuze, nel senso in cui la ripetizione, come voleva il filosofo francese, non riproduce ma produce, afferma una singolarità inedita. Il libro risulta così essere sì un’introduzione tematica al pensiero deleuziano – con i capitoli dedicati, nell’ordine, all’etica, al metodo, all’ontologia, al cinema e alla psicanalisi –, dove però questo non appare mai in prima battuta, bensì sempre in rapporto a temi perenni nella storia della filosofia, come fosse uno snodo nel processo infinito del pensiero, un punto fra i tanti di una costellazione che unisce Spinoza a Nietzsche, Sartre a Ruyer, Bergson a Whitehead.
Non contraddice quest’impostazione speculativa che la scena iniziale del libro sia la più diretta rivendicazione possibile del valore del maggio 1968, poiché essa non si svolge tanto sul piano storico ma su quello teoretico: l’«orda d’oro», per usare la celebre definizione di Balestrini e Moroni, avrebbe infatti rivelato che l’essere è univoco, che le differenze verticali e le gerarchie sono solo stati transizionali e mai naturali, dunque mai coestensivi all’essere stesso, che è infinita potenza morfogenetica in atto. Questa lettura non è priva di forzature, ma ciò che conta è che, da qui in poi, s’innesca nel libro un procedimento a ritroso, che va dall’implicazione politica al cuore della teoria, seguendo il filo di una domanda che, senza ricostruirne le articolate sfumature, può riassumersi così: è possibile una filosofia autenticamente copernicana? Può il soggetto che compie la svolta trascendentale rinunciare a se stesso come punto di fuga del pensiero e dell’essere? Troppo spesso si è dimenticato quello che qui viene invece ribadito oltre ogni possibilità di equivoco: «Per Deleuze la filosofia o è trascendentale o non è» (p. 102); solo, bisogna portarla oltre il suo ultimo dogma, quello antropologistico della finitezza, per tematizzare – ed è lo scandalo kantiano per eccellenza – l’assoluto, l’infinito e l’incondizionato, cioè un’esperienza che «basta a se stessa», che non necessita di un soggetto per avere senso, perché essa stessa è il senso.
Il passaggio da un’immagine del pensiero all’altra è controintuitivo, certo, ma reso e descritto in modo estremamente chiaro: dal mondo come orizzonte di manifestazione dei fenomeni per un soggetto al Reale come piano d’immanenza pura su cui risplende l’impersonalità del vivente come tale.  La posta in gioco, in questa sovversione della doxa, finanche dell’Ur-doxa husserliana, vale a dire del nostro immediato essere nel mondo preriflessivo e fungente, è in fondo questa: la parità realizzata dei senzienti, la loro proiezione egualitaria sulla superficie assoluta dell’essere in quanto Uno. È un pensiero del vivente – o dell’essente come tale, di ciò che «uomini, piante, ostriche, mosche, virus, stelle ed elettroni condividono “di diritto”» (p. 105) – che, come si è visto, è anche immediatamente un pensiero del politico, e dunque non per mera applicazione.
Ma che cos’è precisamente il Reale di cui parla Ronchi e a cui, con Deleuze, bisogna credere? Lo si comprende molto bene nel capitolo quinto, quello teoreticamente più rilevante per il confronto con la fenomenologia: il Reale è il residuo del mondo; beninteso: del mondo costituito fenomenologico, come orizzonte dei nostri atti tematici. E cosa c’è oltre il mondo? L’essere univoco in quanto «processo» morfogenetico infinito, privo di capi. Il Reale è laddove la coscienza è sorda; anzi, la relazione dev’essere rovesciata: è l’esperienza soggettiva a essere una piega nella superficie dell’esperienza pura, dove ogni ente è un punto di luce che non deve attendere lo sguardo umano per accendersi. Di questo rovesciamento ce ne viene offerta una descrizione straordinaria: sul piano infinito, «il mio corpo costituisce […] un punto particolarmente sensibile. Produce un fenomeno di perturbamento del piano, come la screziatura di un cristallo. Produce una specie di curvatura, come se in quel punto il piano si alzasse perpendicolarmente e si riferisse a lui, al mio corpo in azione, come al limite di quello stesso piano (si pensi al vertice di una piramide)» (p. 111).
A questo punto occorre assumere un atteggiamento più problematico e sollevare una serie di domande che qui possiamo formulare solo in modo rapido. Bisogna infatti chiedersi se quest’importante valorizzazione della singolarità – intesa come coincidenza dell’ente e della sua dynamis, come potenza già da sempre in atto nella cosa che semplicemente è – e questa tematizzazione dell’impersonale puro non si contrappongano in modo troppo netto alla prospettiva correlazionista. Naturalmente l’autore non è un ingenuo, e si è già detto che il libro ha anche un carattere programmatico, che consiste nel far emergere una corrente di pensiero misconosciuta per gran parte del Novecento. Quello che, al termine della lettura, rimane da comprendere, è come l’esperienza pura si rapporti a quella sua piega particolare che è la coscienza. Quello che in fondo il progetto fenomenologico intendeva mostrare, infatti, è che per dire o conoscere qualsiasi cosa io non posso che partire da una relazione intenzionale. Per nominare l’esperienza devo dunque muovere dalla correlazione, e lo stato di esperienza pura, che può essere descritto come la mera percezione o il mero fatto di esistere, è forse un attributo che dice troppo poco anche per gli organismi più semplici. La generalizzazione dell’esperienza pura come caratteristica propria del vivente in quanto tale, al di là o al di sotto delle sue specificazioni, non rischia di affogare tutto in una positività indistinta, annacquando l’essere anziché valorizzarne i processi genetici da un punto di vista descrittivo?
Poniamo la domanda diversamente: si dà davvero un’esperienza pura? Non è forse l’esperienza pura contaminata già dall’elemento che la tradizione fenomenologica husserliana potrebbe definire «spirituale» o, comunque, dalla possibilità della riflessione? O, per riprendere la distinzione kantiana, peraltro citata spesso dall’autore in questo e in altri interventi, non c’è forse nell’intuire cieco già qualcosa dell’intuire con concetti? Ma, se le cose stanno così, come si può dire che cosa fondi cosa? Qual è, in altre parole, il primum dell’esperienza, sempre che l’esperienza ne abbia uno e non sia, al contrario, sempre una continua sintesi e una continua mediazione? Ancora, per usare un altro linguaggio: e se il punto fosse quello di pensare non una contrapposizione fra l’Uno (dell’esperienza pura) e il Due (della correlazione), ma un Uno che è Due, che è scisso e non coincidente con se stesso? Qualunque filosofia dell’esperienza sarebbe d’accordo nel dire che l’essere (come totalità degli enti) è caratterizzato dal mero fatto di essere e il vivente dalla vita in quanto tale, e che l’essere come tale è infinito. Ma conservare il piano trascendentale barrando il soggetto costituente significa forse rendere la filosofia trascendentale qualcosa di diverso da una filosofia della conoscenza. Ronchi, non a caso, preferisce parlare di «veggenza», intendendo uno sguardo che, superando il consueto theorein, coglie l’inizio processuale, anonimo e solo secondariamente soggettivo dell’esperire. La vera sfida, però, sarebbe forse quella di comprendere che cosa si “edifichi” sul piano dell’esperienza pura e in che modo, cioè come l’esperienza si moduli. Su questo il libro tace, perché d’altronde parlarne non è il suo scopo; così facendo, però, l’esperienza appare un piano unidimensionale, impassibile e privo di grandi fratture.
Sono tutte questioni che, pur nella loro generalità, è bene porre come punti aperti per la problematizzazione di un discorso che, per merito dell’autore, scorre altrimenti senza pieghe. Esse, se non altro, fanno resistenza a una certa illusione “ideologica” in cui il libro può attirare nonostante tutte le avvertenze e le precauzioni, ossia credere a un conflitto fra, per così dire, vie della Mano Sinistra e della Mano Destra, ad esempio quando si legge: «La posta in gioco in ogni filosofia è […] l’instaurazione del “filosofico” […], la “selezione” di una linea propriamente filosofica all’interno del pensiero rispetto a quella che lo è solo in modo apparente» (p. 11; corsivi nostri).

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