martedì , 19 marzo 2024
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119. Recensione a: Carlo Altini, Una filosofia in esilio. Vita e pensiero di Leo Strauss, Carocci, Roma 2021, pp. 368. (Cristiano Barbieri)

Una filosofia in esilio: titolo interessante quello dell’ultimo libro di Carlo Altini che torna nuovamente a confrontarsi con il difficile pensiero di Leo Strauss. In effetti, Altini, attraverso questo titolo, vuole trasmettere ai lettori l’idea di un filosofo che si trova costantemente in esilio tanto dal punto di vista strettamente biografico quanto da quello teoretico. Strauss, ebreo tedesco della stessa generazione di Karl Löwith e Gershom Scholem, nato nel 1899 a Kirchhain, nella storica regione dell’Assia, fu costretto, come molti altri, a fuggire dalla Germania quando Adolf Hitler ascese al potere nel gennaio 1933. L’occasione gli si presentò sul finire degli anni ’30 quando riuscì a vincere una borsa di studio della Rockfeller Foundation per lo studio delle dottrine del filosofo inglese Thomas Hobbes, di cui il giovane pensatore divenne uno dei massimi esperti. Determinante per la vincita del concorso fu il sostegno di Carl Schmitt, di cui, seppur per un breve lasso di tempo, Strauss fu allievo e collaboratore. Da Parigi Strauss si spostò prima a Londra (dove strinse amicizia e collaborazione con Richard Tawney, che gli assicurò sostegno accademico per tutta la vita) e poi successivamente negli Stati Uniti, dove sarebbe morto nell’ottobre 1973, all’età di 74 anni compiuti, a causa di una polmonite. Strauss fece ritorno alla sua terra natia una volta sola, nel 1954, su invito di Gadamer, che lo invitò a Heidelberg a tenere una lezione su Socrate. In occasione di quella visita, Strauss fece visita alla tomba del padre Hugo nel cimitero di Kirchhain. La vicenda biografica di questo filosofo, suggerisce Altini nel volume, è strettamente connessa col suo percorso teoretico. Infatti, il pensiero di Leo Strauss è molto lontano dagli indirizzi e dalle tendenze dei suoi contemporanei. La cultura tedesca di fine Ottocento e inizio Novecento sarà sempre presente nella teoresi di Strauss ma gli esiti del suo percorso intellettuale sono molto lontani da quelli dei suoi contemporanei, tanto europei quanto americani. Insomma, l’esilio (inteso sia in senso metaforico che non), sostiene Altini, è la cifra unificante del percorso filosofico di questo autore.
All’inizio della sua opera, Altini spiega subito lo scopo del proprio lavoro: «Qui non si tratta di dare ragione alle argomentazioni di Strauss, né di difendere la sua opera dalle critiche, né di costruire un’immagine lineare, coerente o edulcorata del suo lavoro intellettuale, ma di cercare di comprendere i problemi che hanno guidato il suo studio e i contesti che ha incrociato, analizzando sia i momenti salienti della sua vita, sia i principali contenuti filosofici delle sue opere. Lo scopo del volume è dunque duplice. Da un lato, consiste nel fornire un contributo di conoscenza storica in merito alla sua biografia intellettuale; dall’altro, nel comprendere la natura dei problemi filosofico-politici attraverso la presentazione della sua posizione teoretica» (p. 16). Il volume di Altini ha il merito di ampliare notevolmente l’orizzonte della sua Introduzione a Leo Strauss del 2009. La biografia di Leo Strauss, che è esaminata nei minimi particolari, viene intrecciata alle questioni schiettamente teoretiche e politiche. Le opere sono analizzate una per una, senza tralasciare le novità e i dettagli che l’autore ha cercato di evidenziare in ciascuna.
Il volume si apre con l’infanzia e la prima educazione di Strauss. Affascinato dall’ebraismo (pur non essendo un «ebreo ortodosso», come scrive all’amico Karl Löwith in una lettera degli ultimi anni) e da Maimonide, da Nietzsche e da Schopenhauer, il suo punto di riferimento però, fin dalla prima giovinezza, è senza dubbio Platone. Lo testimonia una lettera commovente che Altini ha sapientemente riportato: «Al ginnasio conobbi il fascino dell’umanesimo tedesco. Di nascosto lessi Schopenhauer e Nietzsche. Quando, a sedici anni, a scuola leggemmo il Lachete, progettai il piano, o meglio, il desiderio, di vivere la mia vita leggendo Platone e allevando conigli, mentre avrei guadagnato da vivere facendo il postino di campagna. Senza esserne consapevole, mi ero molto allontanato dalla mia famiglia, anche senza esplicite rivolte» (p. 24). Dopo la laurea in filosofia dedicata a Jacobi, conseguita ad Amburgo nel 1921 sotto la supervisione del filosofo neokantiano Ernst Cassirer, Leo Strauss aderisce al sionismo politico, fondato una ventina di anni prima dall’austriaco Theodor Herzl. Su iniziativa di J. Guttmann, un attivista del movimento sionista, vede la luce la prima monografia straussiana del 1930, dedicata ad indagare la critica della religione nel pensiero di Spinoza. Del sionismo politico Strauss apprezza la critica all’assimilazionismo e all’ebraismo liberale di Hermann Cohen. Pochi anni dopo, il giovane filosofo si distacca dal sionismo perché insoddisfatto dalle «soluzioni tipicamente moderne alla questione ebraica offerte dal sionismo politico» (p. 47). Strauss è un filosofo antimoderno, questa è la caratteristica fondamentale del suo pensiero. Dalle pagine del volume di Altini, massimo esperto in Italia e, direi, in Europa del pensiero straussiano, emergono le ragioni che hanno condotto questo filosofo a rinnegare la propria epoca e a chiudersi in un perenne esilio filosofico-politico.
Il filosofo ebreo fu anche allievo di Martin Heidegger del quale, in seguito, rinnegherà gli insegnamenti fondamentali in quanto latori di nichilismo e relativismo. Strauss, non a caso, considera Heidegger lo storicista più radicale di tutti. Infatti, mentre per i filosofi greci “essere” significa “essere sempre”, per Heidegger “essere” significa “esistere”. Ne consegue che «poiché l’esistenza precede l’essenza, le verità e i significati sono fondati unicamente sulla libertà umana, mentre, dal punto di vista metafisico, c’è solo il nulla: l’essere umano è un essere finito incapace di conoscenza assoluta» (p. 59).
Critiche simili sono rivolte anche a Carl Schmitt, giurista e filosofo politico. Del decisionismo schmittiano Strauss apprezza la critica al liberalismo moderno ma ne condanna gli esiti relativistici e nichilistici (infatti, la decisione di cui parla Schmitt è fondata sul nulla). Schmitt, agli occhi del filosofo di Kirchhain, vorrebbe uscire dal Moderno ma, nonostante ciò, rimane intrappolato all’interno del paradigma liberale fondato da Thomas Hobbes sull’antitesi natura-cultura. Per questo, dice Strauss, coloro che intendano criticare seriamente l’essenza del pensiero liberale devono necessariamente confrontarsi criticamente con l’autore del Leviatano. Cosa che Leo Strauss fa, in un’opera destinata a ricevere l’apprezzamento di un importante filosofo come Hans-Georg Gadamer, The political philosophy of Hobbes (1936). Questo, come molti altri libri di Leo Strauss, è (purtroppo) quasi introvabile in Italia. Strauss considera Hobbes il fondatore del liberalismo e della morale borghese capitalista. Hobbes, infatti, ritiene che il summum bonum non sia il Bene (come i classici greci) ma la conservazione della “nuda vita”, per usare un’espressione di Giorgio Agamben. La pace diventa l’obiettivo del corpo politico che non deve più mirare, come suo fine, al Bene (come voleva Aristotele) ma all’industria e alla produzione. Da Hobbes a Heidegger-Schmitt, la filosofia ha smarrito la sua anima socratica fondata sullo scetticismo zetetico. Il pensiero straussiano, come ha correttamente evidenziato Altini nel volume, è fondato su un’azione teoretica di natura strategica che consiste nell’opporre allo scetticismo dogmatico radicale dei moderni lo scetticismo moderato zetetico degli antichi, di Socrate in particolare. L’ironia diventa il punto di svolta dell’architettura teoretico-politica di Strauss. I moderni sono fanatici perché, misconoscendo il rapporto conflittuale che intercorre tra filosofia e città, intendono la filosofia politica come perfezionamento del corpo politico. L’ironia di Strauss mostrata nelle critiche dei filosofi politici moderni è la medesima di Socrate. Gli antichi rifiutano il fanatismo perché sanno che il male non può essere sradicato dal mondo degli uomini e sono consapevoli della radicale distanza tra filosofia e città. La filosofia è conoscenza, la città invece vive di opinioni. Il rapporto tra questi due mondi non deve essere coincidente ma di reciproca opposizione.
Altini sottolinea la necessità, messa in evidenza da Strauss, di tornare al pensiero filosofico degli antichi e dei medievali. La celebre tesi straussiana della superiorità degli antichi sui moderni nasce in questo contesto di rifiuto della cultura storicistica e relativistica del Moderno. Il volume straussiano di Altini è molto utile per chi fosse interessato a conoscere un metodo ermeneutico alternativo a quello di Gadamer e dei “soliti noti”. Il filosofo di Kirchhain, negli anni Quaranta e Cinquanta, sviluppa un metodo ermeneutico antistoricistico per approcciarsi ai testi classici. La scrittura reticente è l’elemento fondamentale di questa nuova modalità di interpretazione. Strauss ritiene che i filosofi antichi e medievali abbiano scritto opere dotate di un doppio significato: uno essoterico destinato a rassicurare gli idoli del popolo e uno esoterico destinato ai pochi, ai filosofi che sono alla ricerca non del consenso (come gli uomini politici della città) ma della verità e della saggezza. I filosofi antichi e medievali hanno scritto le proprie opere, nell’ottica straussiana, dissimulando il proprio pensiero “tra le righe” al fine di non incorrere nella sorte di Socrate, la cui morte è l’emblema del rapporto conflittuale che intercorre tra filosofia e città, tra conoscenza e opinione. Dagli anni Quaranta alla fine della sua vita, scrive Altini, Strauss ha prodotto monografie, volumi e saggi dedicati all’esegesi di testi classici, tentando di individuare in essi il messaggio esoterico nascosto tra le righe. Maimonide, Al-Farabi, Avicenna, Averroè e Platone sono il fulcro di queste lunghe ricerche. Anzi, proprio il pensiero di questi filosofi medievali costituisce, agli occhi del nostro, un modello alternativo di razionalismo per sfuggire dalle grinfie del nichilismo e dal relativismo storicistico dei filosofi moderni: Hobbes e Maimonide sono considerati i rappresentanti di due modelli diversi di razionalismo (cfr. p. 100).
Sempre tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, Strauss ritorna sulla filosofia politica moderna assegnando il ruolo di fondatore del pensiero politico moderno non più a Hobbes ma a Machiavelli. Altini riporta questo importante passo nel quale Strauss ragiona sul proprio errore: «L’immediata e forse sufficiente causa del mio errore fu dovuta a una inadeguata riflessione sulla prima parte dei Discorsi di Machiavelli. Avevo imparato da Spinoza ad apprezzare il forte richiamo del cap. XV del Principe. Tuttavia, mi era stato insegnato da tutte le autorità che l’opus magnum di Machiavelli non è il Principe ma i Discorsi» (p. 253).
Nonostante il forte interesse di Strauss per il segretario fiorentino, egli non lo ritiene un esempio da imitare. Questo «maestro del male» (Machiavelli) è colpevole, per Strauss, di aver voluto realizzare la «coincidenza di filosofia e potere politico attraverso la propaganda» (p. 254) e attraverso il rifiuto del Bene e della Virtù intesa alla maniera della filosofia politica classica.
Il volume di Altini merita una valutazione positiva anche per un altro importante aspetto, cioè l’attenzione per gli scambi epistolari intrattenuti dal grande filosofo ebreo con i suoi amici Eric Voegelin, Karl Löwith, Gershom Scholem, Alexandre Kojeve, Hans-Georg Gadamer. Altini riporta nella sua opera molte lettere di Leo Strauss inviate a lui o da lui, che mostrano i lati quotidiani della personalità del filosofo preso in esame. Una costante che emerge dalle sue lettere è la preoccupazione per la situazione finanziaria. In molti scambi epistolari che il lettore troverà all’interno del volume emergono le comprensibilissime lamentele del filosofo ebreo per la sua precaria situazione finanziaria, sempre in un difficile equilibrio a causa della difficoltà di trovare una sistemazione accademica tranquilla e sicura.
Molto interessante è la ricostruzione tentata da Altini dei rapporti filosofici tra Strauss e Löwith. I due amici sono accomunati non solo dalla loro affinità culturale, dalla stessa età (Löwith è di due anni più anziano di Strauss) e dalla stessa passione ma anche dalla loro estraneità alle scuole e alle correnti filosofiche ufficiali. Insomma, sostiene Altini, i due amici sono pensatori difficilmente classificabili. Entrambi, inoltre, sono critici nei confronti dello storicismo che considerano il tratto filosofico fondamentale del XIX secolo e, più in generale, della modernità. Non mancano, tuttavia, gli attriti e le divergenze. Löwith rimprovera all’amico la sua radicalità: egli ritiene, infatti, che sia impossibile «accedere a una natura umana originaria priva di connotazione storica» (p. 242) poiché tutto ciò che riguarda l’uomo passa attraverso una inevitabile mediazione storica. Löwith ritiene che un ritorno ai Greci sia una via difficilmente percorribile perché, per uscire dal Moderno e dal relativismo storico, bisogna partire necessariamente dal presente, vale a dire dalla situazione determinata dal nichilismo e dallo storicismo. Strauss è più radicale di Löwith poiché non solo ritiene doveroso un ritorno ai Greci e alla loro modalità di fare filosofia ma arriva ad accusare il suo amico di storicismo, come testimonia una lettera: «Lei non prende abbastanza alla lettera il senso semplice della filosofia; la filosofia è il tentativo di sostituire le opinioni sul tutto con una conoscenza certa del tutto. Per lei la filosofia non è altro che l’autoconoscenza o l’auto-interpretazione dell’uomo; sia chiaro: dell’uomo storicamente determinato, se non dell’individuo. Questo significa, detto con Platone, che lei riduce la filosofia alla descrizione delle decorazioni interne della caverna di turno, della caverna (esistenza storica) che, di conseguenza, non può essere vista in quanto caverna» (p. 244). Nonostante questo disaccordo, Strauss e Löwith sono accomunati dal tentativo di andare oltre il Moderno. Per avere una visione complessiva dei rapporti tra i due amici, bisognerebbe integrare il volume di Altini con la lettura dell’autobiografia di Karl Löwith (La mia vita in Germania prima e dopo il 1933, Il Saggiatore, Milano 1988) in cui egli fa un accenno all’esilio di Strauss in Inghilterra e denuncia la precaria situazione materiale e spirituale degli accademici e degli studenti ebrei in terra tedesca. Un’altra interessante notizia biografica che Altini riporta nel libro è la reciproca antipatia tra Leo Strauss e Hannah Arendt: «Strauss e Arendt si erano conosciuti a Berlino alla fine degli anni Venti durante la loro frequentazione della Staatsbibliothek, ma tra loro non era sbocciata né amicizia né coinvolgimento emotivo. Tutt’altro. I modi bruschi di Arendt e il carattere permaloso di Strauss creano una miscela di reciproco sdegno e rancore che dura tutta la vita» (p. 237).
Il volume si chiude con la descrizione degli ultimi anni di Strauss. Alla fine del 1967, il filosofo lascia l’incarico di professore alla University of Chicago e si ritira nello studio e nella riflessione. Testimonianza delle ultime fatiche è il volume The Argument and the Action of Plato’s Laws, pubblicato postumo nel 1975 dal suo allievo e collaboratore Joseph Cropsey. Altini scrive che «il Platone di Strauss non è […] il teorico della metafisica il cui insegnamento – secondo i filosofi della crisi, da Nietzsche a Heidegger – sarebbe alla radice del nichilismo moderno. Al contrario, il Platone di Strauss è il filosofo della dialettica, della retorica socratica, della scrittura reticente e, soprattutto, del problema teologico-politico, le cui opere vengono lette, da un lato, attraverso la chiave interpretativa elaborata da al-Farabi; dall’altro lato, come il modello di riferimento per una critica radicale del moderno inaugurato da Machiavelli e Hobbes» (p. 309). L’ultimo lavoro di Strauss, dunque, è una riscrittura pedissequa, «quasi ossessiva», del testo platonico che mira a fornire un’interpretazione di Platone alternativa alla vulgata della filosofia della crisi. Le Leggi di Platone devono essere messe in rapporto alla Repubblica per comprendere il rapporto conflittuale tra filosofia e città, tra conoscenza e opinione.

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