martedì , 19 marzo 2024
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114. Recensione a: Carmine Di Martino, Roberto Redaelli, Marco Russo (a cura di), Trasformazioni del concetto di umanità, Inschibboleth, Roma 2020, pp. 464. (Alessio Rotundo)

Il volume Trasformazioni del concetto di umanità offre un rinnovato tentativo di riflessione comprensiva sul significato del termine “umanità”. Se la questione sulla humanitas dell’umano si presenta come caratteristica della modernità, i contributi di questo volume ci orientano sul modo in cui la questione antropologica si ripropone nei variegati contesti di dibattito odierni, da quello scientifico e tecnologico a quello socio-culturale e politico. Ne risulta un confronto, a tratti serrato e originale, con tesi tradizionali e con approcci ancora in via di sviluppo sul tema dell’uomo.
Il saggio di Joachim Fischer apre il volume con un’analisi orientativa molto preziosa che mette subito in risalto il presupposto metodologico fondamentale della riflessione moderna sulla differenza antropologica. Questo presupposto è specificato nel paradigma comparativo dell’antropologia filosofica (cfr. pp. 15-18). Alla luce di questo paradigma, Fischer propone una sistematizzazione dei dibattiti moderni e contemporanei sul concetto di uomo. La sua proposta è quella di un sistema comparativo tripartito che al confronto uomo-animale e uomo-uomo integri quello uomo-macchina. Tale sistematizzazione dell’indagine antropologica mantiene tuttavia un carattere pluralistico, in quanto le tre serie base rimangono irriducibili le une alle altre, ma anche aperto, in nome della natura filosofica e comprensiva dell’antropologia filosofica che non esclude l’integrazione di serie comparative ulteriori (cfr. pp. 46-47).
La sistematizzazione dell’indagine antropologica proposta da Fischer è di natura esplicitamente metodologica in quanto si propone di prescrivere il compito futuro dell’antropologia filosofica. Essa comporta tuttavia un approfondimento di contenuto. L’aggiunta della relazione comparativa tra macchina e uomo ha l’effetto di stimolare una riflessione ulteriore sulle serie comparative classiche uomo-animale e uomo-uomo. Questa reciproca influenza tra metodo e contenuto comporta per la questione antropologica un fruttuoso approfondimento dell’essenza dell’umano, specialmente alla luce dell’obiezione alla concezione essenzialista quale punto focale della critica al concetto di umanismo del secolo scorso.
La diffidenza verso un modello antropologico essenzialista più o meno esplicito è giustificata da Caterina Resta con riferimento alle pratiche di discriminazione, esclusione e infine disumanizzazione legate alle politiche di cittadinanza. L’obiezione essenzialista, che Resta muove in particolare nei confronti della definizione dello status di apolide offerta da Hannah Arendt, è interessante in quanto mette l’accento non tanto sull’aspetto dell’essere umano dell’uomo quanto verso la possibile “essenzializzazione” del non-umano nell’uomo (la sua vita biologica o “nuda vita”) che la concezione arendtiana del bios politikos comporterebbe (cfr. pp. 66-73).
Più che possedere un risvolto essenzializzante, la definizione arendtiana della vita politica come dimensione propria dell’umano si inscrive per António Martins nel contesto di una situazione politica concreta. La questione che Arendt solleva, osserva Martins, è piuttosto quella della facilità in cui “gli Stati si arrogano il diritto di revocare la cittadinanza ai propri cittadini troppo facilmente” (p. 296). Martins rimanda all’umanismo di stampo etico-realista di Bernard Williams per sottolineare che la questione dei diritti umani si pone al livello di una rinnovata teoria dello stato di natura la quale però non ha alcun termine in un contratto definitivo ma piuttosto richiede una continua riformulazione e dunque sempre nuove soluzioni storiche (p. 297). È dunque a partire da problemi politici e storici concreti che può essere problematizzata tanto la definizione dell’uomo come bios politikos, quanto, aggiungiamo noi, la possibile “essenzializzazione” della sua controparte, ovvero l’apolide. Secondo Martins, l’umanismo etico di Williams rimanda a questa problematizzazione dell’umano che Arendt inaugura tramite un confronto serrato con la problematica e molto spesso aporetica dimensione politica della vita umana. L’affermazione di un concetto universale di umanità che è concepito da Resta nei termini di risultato storico “sempre provvisorio e modificabile” e “risultato di faticose conquiste” (p. 86) appare dunque non così alternativo rispetto a quello che emerge dall’analisi di Arendt.
D’altro canto, il saggio di Martins ci invita a considerare come l’interrogazione arendtiana della relazione tra dimensione politica e umanità possa divenire strumento di critica efficace nei confronti delle tendenze essenzialiste delle teorie che si basano sul codice normativo illuminista. Quest’ultimo, come illustra molto bene Marco Russo, non è immune da un “modello antropologico essenzialista” (p. 147). Russo sottolinea come il progetto di un rinnovato umanesimo antropocentrico che tenga conto dell’ambiguità, conflittualità e aporeticità dell’uomo si proponga piuttosto come ausilio necessario per la difesa e sviluppo dell’universalismo illuminista come conquista storica. All’aspetto normativo della ragione, della libertà e dei diritti illuministici non si è dunque abdicato, nonostante l’abbandono della proiezione ontologica di una natura umana (cfr. pp. 147-148).
Se il contributo di Russo verte sulla proposta di un umanesimo antropocentrico che ne rinnovi le caratteristiche riflessive e positivamente scettiche (cfr. pp. 149-150), il saggio di Etienne Bimbenet interpreta le tendenze egalitarie delle teorie animaliste così come le tendenze utopiche post-umane in chiave di un’“antropocentrismo esteso” (p. 336). Da una parte, le teorie animaliste pongono l’uomo come essere che non si distingue essenzialmente dall’animale. Dall’altra parte, le teorie post-umane pongono le macchine come esseri essenzialmente distinti dall’uomo. In entrambi i casi, come illustra Bimbenet, siamo di fronte alla possibilità di una eteronomia di stampo pratico, ovvero quella di una “servitù volontaria” (p. 344) dell’uomo nei confronti dei suoi strumenti tecnologici e della sua conoscenza scientifica. Tale eteronomia richiede dunque una risposta di tipo pratico e in ultima analisi di tipo politico. Ciò significa che la relazione con gli animali e le macchine è una relazione che ci riguarda essenzialmente e che dunque chiama in causa la nostra decisione e capacità di azione consapevole: “Un antropocentrismo espanso considera sempre l’umano come il proprio punto di partenza. Siamo pienamente responsabili dell’espansione del nostro corpo e dell’espansione della nostra comunità morale. La decisione è pienamente nostra” (p. 338).
Le interpretazioni basate su un antropocentrismo rinnovato o esteso ci restituiscono dunque un’idea di umanità che si costituisce e ricostituisce storicamente e politicamente in un processo sempre aperto e senza garanzie normative ultime. Questa idea può essere riassunta e chiarificata in riferimento a due tesi tratte dall’antropologia filosofica di Helmuth Plessner che ritroviamo nel saggio di Fischer. Per prima cosa, Plessner individua nel comportamento politico dell’uomo la “costante della situazione umana” (p. 45). In secondo luogo, questa costante è tuttavia da comprendersi a partire dalla “posizionalità eccentrica”, ovvero a partire dal rapporto differenziale dell’uomo rispetto a se stesso (cfr. pp. 24-25). L’eccentricità dell’umano in relazione a se stesso, al proprio ambiente naturale e agli altri esseri viventi ha però un aspetto positivo in quanto è nella produzione di differenze e novità rispetto alla sua situazione naturale piuttosto che nell’identità con il suo ambiente che l’uomo perviene a conoscere se stesso.
La dimensione della praxis storica e politica emerge dunque in vario modo come uno dei nodi chiave per una ridefinizione e rivalutazione dell’antropocentrismo. Il volume approfondisce questa linea orientativa esplorando proprio l’aspetto riflessivo e potremmo dire speculare della natura umana. Quest’ulteriore nodo tematico viene indagato su fronti diversi che però trovano un filo conduttore comune nella rinnovata riflessione sulla questione moderna dell’autocoscienza.
Pezzano presenta questo tema come centrale per una definizione dell’antropologia filosofica in quanto investigazione delle forme in cui l’uomo si aliena in varie immagini di sé (cfr. pp. 229-230). La storicità dell’uomo consiste dunque nel processo di trasformazione e integrazione delle immagini che l’uomo produce di sé nel corso della sua storia. La proposta di Pezzano è che la coscienza umana contemporanea è caratterizzata da quella che potrebbe essere definita, ricorrendo a un termine della tradizione, come una sorta di “appercezione trascendentale”. Nelle parole di Pezzano, “a divenire esplicito ovvero parte integrante dell’immagine di noi stessi, con tutte le ambiguità e le difficoltà che questo comporta, è esattamente il fatto che ci facciamo immagini” (p. 233). Ciò che è particolarmente interessante è però l’operazione che mette in relazione questa prospettiva con l’“appercezione empirica” – per ricorrere di nuovo a un termine tradizionale – che l’uomo ha di sé nella contemporaneità. L’immagine di sé come essere relazionale e in divenire (cfr. pp. 234-235) si confronta con l’immagine che l’uomo ottiene di sé con l’avvento del mondo delle tecnologie informatiche (cfr. pp. 242 sgg.) Questo confronto mette in luce una tensione fondamentale tra la tendenza alla riduzione a unità commensurabili propria dell’informazione, da un lato, e la relazionalità e processualità del pensiero propriamente umano, dall’altro lato. In questo senso la conclusione di Pezzano che richiama a un “umanesimo digitale” (p. 253) è difficilmente riconciliabile con la premessa riguardo alla capacità trascendentale dell’uomo come essere che produce immagini di sé e che in questa relazione all’oggetto – che ne costituisce il tratto veramente trascendentale – rimane però in sé irrappresentabile. Se le tecnologie informatiche sembrano giungere a riprodurre processi che si credevano inizialmente appannaggio dell’interiorità e coscienza umane, non si può però semplicemente far coincidere questa versione della “dimensione antropogenetica della tecnologia” (p. 248) con l’operazione mediatrice e relazionale del pensiero umano come vera “differenza che fa la differenza” e dunque da considerarsi sempre più fondamentale di ogni operazione di computazione e deposito di dati. Questa considerazione critica però non vuole offuscare l’aspetto rivelatore che Pezzano attribuisce al progresso informatico e che per l’autore richiede un’integrazione trasformativa all’interno dell’immagine che l’uomo ha di sé, della sua esperienza e coscienza della realtà così come delle sue modalità di conoscenza.
La questione dell’autocoscienza come rappresentazione di sé dell’uomo in quanto essere la cui essenza è quella di rappresentare è posta da Martin Heidegger al centro della sua interpretazione della metafisica moderna. Luca Bianchin illustra il ruolo centrale del fenomeno dell’autocoscienza nell’impostazione heideggeriana del problema dell’uomo. Secondo Bianchin, negli anni successivi a Sein und Zeit la riflessione di Heidegger traccia un percorso interpretativo che tematizza il valore di manifestazione implicito nei tratti totalizzanti dell’epoca della tecnica. È solo quando il dispiegamento della tecnica e dunque l’annullamento della differenza ontologica tra essere e ente diventano totali che l’oblio dell’essere è completo. Ma è dunque solo allora che l’ente per cui l’essere stesso è un problema si trova nella situazione di poter rivelare l’essere in tutta la sua problematicità. È infine ancora a questo punto che il problema dell’uomo può essere finalmente posto al di là della moderna “volontà suprema del soggetto” (p. 277), che essa appaia nella forma di una volontà di certezza assoluta (Cartesio) o in quella di una volontà di potenza (Nietzsche). Bianchin mette bene in evidenza come questa lettura si ripercuota specularmente sulla prima lettura critica che Heidegger offre della metafisica della “presenza”. L’analisi critica della metafisica non si propone dopo Sein und Zeit di mettere in moto un suo superamento secondo un ulteriore paradigma basato sul soggetto e la sua volontà di questo o di quello. Essa intende piuttosto gettare luce sull’indefinibilità e dunque problematicità dell’esser-ci proprio in quanto luogo – il “frammezzo” (p. 274) – di manifestazione dell’essere come presenza e dunque allo stesso tempo come luogo di chiusura dell’essere (cfr. p. 267). L’uomo allora non è più ipso facto da identificarsi con l’esser-ci ma quest’ultimo è definito come la dimensione in cui l’uomo si pone finalmente come radicalmente problematico.
La comprensione di questa problematicità che caratterizza “l’uomo nell’esser-ci” (p. 275) diviene allora l’exemplum crucis per una nuova riflessione sul problema dell’uomo all’interno della storia della metafisica. Una tale comprensione non può però che comportare una profonda trasformazione del significato moderno di autocoscienza.
Un approfondimento in questo senso ci è offerto dal saggio di Roberto Redaelli, il quale offre una lettura della funzione rivelatrice, ma anche quindi auto-rivelatrice, che il linguaggio assume in Heidegger. In particolare, Redaelli si propone di rivalutare l’attualità dell’analisi heideggeriana della morte come fenomeno a cui l’uomo ha accesso in modo speciale rispetto al resto dei viventi e nel quale dunque l’uomo riconosce se stesso in modo eminente. Nella strategia di Sein und Zeit, la relazione dell’uomo alla morte, come alla possibilità della pura impossibilità dell’esistenza, è volta a indicare la differenza ontologica dell’essere umano rispetto al resto dell’ente. Contro le critiche di antropocentrismo metafisico mosse a questa analisi, Redaelli riconduce la funzione rivelatrice del fenomeno della morte alla fondamentale relazione simbolico-linguistica che l’uomo intrattiene con la propria fine: “noi abbiamo accesso alla morte mediante il segno, la parola, nel suo rimandare ed indicare a quel nulla che ci è con-costitutivo” (p. 386). Redaelli offre una disamina precisa di un tema complesso quale la traiettoria del pensiero heideggeriano sul linguaggio, disamina che merita di essere elogiata per chiarezza espositiva e concisione. Alla luce della tesi di una “svolta linguistica” del pensiero heideggeriano, proposta da Carmine Di Martino e avallata da Redaelli, sarebbe però interessante approfondire la funzione rivelatrice del linguaggio su un piano prettamente metodologico. In questo senso, Sein und Zeit e, invero, già gli studi che anticipano e preparano quest’opera, riconoscono che l’articolazione concettuale e linguistica dell’unicità e finitudine ontologica dell’esistenza umana (della sua “situazione ermeneutica”) può solo “indicare” in modo anticipatorio e dunque non definitivo le strutture ontologiche di questo ente. Per questa ragione Heidegger descrive la concettualizzazione anticipatoria di Sein und Zeit nei termini di una “indicazione formale”. L’incedere metodologico di Sein und Zeit, al di là delle dichiarazioni esplicite sulla natura del linguaggio in quest’opera, riconosce dunque appieno il carattere del segno come puramente anticipante e dunque rivelatore di qualcosa che rimane in principio assente.
In conclusione, sia la questione dell’essenza dell’umano che quella dell’autocoscienza fanno perno sulla questione centrale di come comprendere la speciale relazione con l’altro da sé che definisce l’uomo. Il volume affronta questo aspetto secondo un ulteriore nodo tematico, legato alle teorie dell’analogia e dell’empatia, e dunque solleva il problema della relazione tra umanismo e etica, altro punto focale di critica del concetto di umanismo nel ventesimo secolo. Se l’essenza dell’uomo è caratterizzata dall’inessenzialità, ovvero dal fatto che ogni determinazione di contenuto dell’umano deve rimanere inessenziale per una sua definizione, e se l’operazione dell’autocoscienza è pensata come davvero trascendentale, ovvero come operazione che rimane irrappresentabile, questi risultati che appaiono negativi sono messi a frutto nel trattamento della questione etica all’interno dell’antropologia filosofica contemporanea.
A partire dalla questione particolare della responsabilità intergenerazionale, Ferdinando G. Menga articola le implicazioni teoriche della critica al primato della presenza in ontologia per l’elaborazione di una radicale etica dell’alterità (cfr. pp. 166-168). Menga mostra che le moderne teorie etiche si basano su un’impostazione presenzialistica che rende impossibile risolvere la questione della responsabilità intergenerazionale (cfr. pp. 156-160). L’obiezione presenzialistica conduce invece a ribaltare il rapporto di fondazione tra ontologia e etica e esibisce quest’ultima come fonte primaria e dunque determinante per ogni ontologia futura dell’umano.
Se la proposta di Steffi Hobuß, volta a rinnovare la matrice relazionale dell’idea di umanismo (cfr. pp. 438 sgg.), si allinea con l’approccio di Menga, agli antipodi di queste “etiche dell’alterità” si pone il contributo di Agostino Cera, il quale mette l’accento su un tratto più pessimistico dell’ingiunzione etica contemporanea. Ripercorrendo alcuni momenti salienti della diagnosi della società contemporanea proposta Günther Anders, Cera mette in luce il risvolto morale legato alla pervasività del fenomeno della tecnica. Questo risvolto morale consisterebbe nell’ipostatizzazione del sentimento di inadeguatezza, antiquatezza e inferiorità che l’uomo ha di sé di fronte alle macchine che lui stesso produce. Dalla patologizzazione di questo sentimento come colpa risulta un imperativo etico che è alla base di una dinamica di prestazione che definirebbe paradigmaticamente l’umanità contemporanea (cfr. p. 217). Da un punto di vista della relazione con l’altro, l’ingiunzione etica della prestazione si rivela piuttosto come una chiusura totale in quanto il progressivo auto-annullamento dell’uomo come tale diviene in questa analisi la sola soluzione prospettata alla propria inadeguatezza.
Le teorie postumane odierne così come la loro lettura che le rivela come utopie anti-antropologiche (cfr. p. 215) fanno perno sull’impatto di un mondo altamente tecnologizzato sull’uomo. Carmine Di Martino, Luca Guidetti e Guido Cusinato interrogano invece le varie semantiche legate all’ontogenesi, all’identità e al superamento dell’uomo a partire dai contributi della psicoanalisi, dell’epistemologia e della psicologia dello sviluppo. Di Martino e Cusinato affrontano la questione della relazione con l’altro da sé mettendo a frutto i risultati relativi all’esperienza in prima persona plurale in psicologia e nella psicoanalisi per le riflessioni dell’antropologia filosofica. Questa esperienza del “noi” che le scienze tematizzano per via sperimentale e teorica emerge come fondamentale per la formazione e comprensione della propria individualità. Qui mi limito semplicemente a rilevare il punto di approdo focale a cui a mio avviso questi approcci sembrano condurre. La prospettiva di una logica solidaristica proposta da Cusinato (cfr. pp. 117-121), così come la ricca analisi del ruolo dell’altro nel processo di soggettivazione nell’infante offerta da Di Martino (cfr. pp. 398-435), sembrano a mio giudizio confermare una fondamentale correzione delle teorie intersoggettive dell’analogia e dell’empatia basate sui processi di imitazione e identificazione con l’altro. La relazione con l’altro richiede non l’annullamento della differenza e l’immedesimazione, ma piuttosto comporta una differenziazione progressiva dell’umano. Le semantiche dell’umanizzazione e del superamento dell’umano appaiono in questa prospettiva non più alternative o contrastanti ma complementari se non addirittura equivalenti. Così Cusinato interpreta l’idea di un superamento dell’umano nei termini di una “conversione periagogica” che caratterizza da sempre le forme di umanizzazione e di trasformazione di sé dell’umano e che consiste nel “trasformare la propria esistenza e la propria forma mentis in modo da guardare le cose in una prospettiva diversa” (p. 100). Cusinato articola questa tesi sulla base del comportamento fondamentale di emotional sharing come principio di individuazione delle unità sociali e personali (cfr. p. 120). In altre parole, la tesi è che la singolarizzazione del sé equivale alla moltiplicazione delle differenze che si manifestano nei rapporti di condivisione. Se Cusinato rileva questo principio già a partire dalla gestazione e dalla prima infanzia (cfr. pp. 102, 120), Di Martino offre una dettagliata analisi della relazione tra ontogenesi dell’individuo e alterità nel corso dello sviluppo dell’infante. Il punto di partenza del processo di singolarizzazione è infatti già una molteplicità che è indice di una differenza. L’infante non è originalmente un’unità monadica ma piuttosto si identifica in pieno con l’unità relazionale che lo lega a chi se ne prende cura (cfr. p. 398). Da questa analisi emerge in modo esplicito che il processo di umanizzazione dell’infante, inteso come un’elevazione di sé all’umano, richiamando qui il detto di Herder, è quindi caratterizzato dall’inizio da una dinamica differenziale che definisce l’umano come continua elevazione a e verso l’altro.
Il saggio di Guidetti rende espliciti i presupposti epistemologici per giungere a una descrizione adeguata di questo risultato. La questione che guida il lavoro di Guidetti è dunque quella della possibilità di descrivere la plurivalenza della realtà all’interno della comprensione umana dell’essere (cfr. p. 308). In una strategia che pare ricalcare quella della Logica formale e trascendentale di Edmund Husserl, Guidetti chiama in questione i limiti dei principi della logica formale classica per una determinazione ontologica ultima e adeguata degli oggetti dell’esperienza umana. La sua proposta è dunque quella di una distinzione tra la logica classica, che fa corrispondere in modo biunivoco il segno significante e gli oggetti significati (cfr. pp. 304-306), e una logica trans-classica che tiene conto dell’aspetto posizionale o intenzionale-operativo dell’identificazione (cfr. p. 309). La nozione di identità dell’oggetto come “oggetto isolato, atomico e in ultima istanza assoluto” (p. 304) viene ampliata e modificata nella direzione di una forma relazionale di identità (cfr. pp. 318 sgg.). I contributi di Cusinato, Di Martino e Guidetti si rivelano essere dunque molto preziosi per un approfondimento, specificazione e sistematizzazione delle variegate etiche contemporanee dell’alterità.

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