martedì , 19 marzo 2024
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110. Recensione a: Ludwig Wittgenstein, Lezioni di psicologia filosofica. Dagli appunti (1946-47) di Peter T. Geach, Mimesis, Milano-Udine 2019, pp. 190. (Federico Tinnirello)

Nell’anno accademico 1946-1947, Wittgenstein tenne a Cambridge un corso sulla psicologia filosofica, in continuità con la produzione manoscritta di quegli anni che poi confluirà nel postumo Osservazioni sulla filosofia della psicologia. Sul corso ci sono giunti gli appunti di tre allievi di Wittgenstein: Peter Geach, Kanti Shah e A.C. Jackson. Il primo gruppo tradotto in italiano è quello di Peter Geach, sui quali Luigi Perissinotto ha annotato che «nelle lezioni [di Wittgenstein] si può riconoscere qualcosa di aurorale o, per così dire, di “sperimentale”. È forse per questo che, nonostante le loro inevitabili oscurità, risultano più utili e suggestivi gli appunti più “caotici”, come quelli di Geach» (Introduzione, in Lezioni di psicologia filosofica, p. 12). Dunque, gli appunti di Geach – nonostante non siano stati approvati da Wittgenstein per un’eventuale pubblicazione – costituiscono, in realtà, uno strumento molto importante per la parte conclusiva della sua filosofia che prende il nome, per l’appunto, di filosofia della psicologia.
All’interno del corso, Wittgenstein si prefigge di indagare la grammatica dei concetti psicologici, ovvero la natura e il funzionamento dei concetti che compongono la psicologia. A differenza della tradizione filosofica occidentale, per il filosofo austriaco i concetti non devono essere concepiti in relazione a qualcosa di esterno ad essi, come la mente, lo Spirito o la soggettività trascendentale, ma piuttosto come la «tecnica per l’uso di una parola» (Lezioni di psicologia filosofica, p. 102). I concetti, dunque, ci «forniscono un modo di descrivere» (p. 99) il corretto uso dei fenomeni psicologici, attraverso una chiarificazione concettuale.
Questa esigenza chiarificatrice nasce da una maggiore attenzione verso temi su cui Wittgenstein aveva già iniziato a riflettere intorno ai primi anni trenta, nel periodo in cui era tornato ad occuparsi di filosofia dopo una lunga interruzione. Difatti, fin dai primi scritti successivi al Tractatus logico-philosophicus, Wittgenstein mostra un interesse verso ciò che lui chiama «linguaggio fenomenologico», ossia quella parte dell’indagine linguistica che non si occupa di oggetti fisici ma dell’esperienza immediata, come, ad esempio, le sensazioni o le percezioni. Tuttavia, dopo poco tempo, il linguaggio fenomenologico non si dimostrò più utile all’indagine sull’esperienza immediata, e Wittgenstein deciderà di occuparsi dei concetti di natura mentale e percettiva tramite l’analisi grammaticale. Una prima testimonianza di questa svolta è contenuta nel Libro Blu, nel quale «[l’] argomento di queste nostre ricerche […] [è] stata la grammatica delle parole che descrivono le cosiddette “attività mentali”: vedere, udire, sentire, etc. Ciò equivale a dire che noi ci occupiamo della grammatica delle espressioni che descrivono dati sensoriali» (Libro Blu e Libro Marrone, p. 95). Nel Libro Blu, dunque, inizia una riflessione più sistematica sui concetti psicologici, la quale continuerà nelle Ricerche filosofiche. All’interno delle Ricerche, Wittgenstein si occupa di moltissimi temi psicologici: le sensazioni, il pensare, il comprendere, il volere, le intenzioni, seppur dimostrando – rispetto alle Osservazioni sulla filosofia della psicologia – un atteggiamento non sistematico che prende forma in uno studio preparatorio non portato a compimento. L’importanza di queste lezioni risiede proprio nel tentativo di fissare delle precise coordinate nell’indagine grammaticale sui concetti psicologici, poiché, su questo punto, Wittgenstein viveva una tensione fra vecchie e nuove riflessioni: da un lato, gli obiettivi polemici della sua psicologia filosofica, e, dall’altro lato, il continuo e incessante lavoro su questi temi.
L’intera riflessione psicologica si è sviluppata in contrapposizione sia al mentalismo che alla psicologia sperimentale. Il mentalismo non è altro che quella concezione che pone i concetti psicologici come entità mentali che risiedono «nella mia testa [o] nella mia anima» (Lezioni di psicologia filosofica, p. 92). Possiamo chiarire questo importante passaggio affermando che «se chiedete a qualcuno la via per arrivare al cinema Regal, siamo interessati alla via, non al processo che si verifica nella sua mente quando sente la domanda» (p. 92). Per Wittgenstein, dunque, i processi psicologici non sono processi interni accessibili tramite l’introspezione; possiamo affermare, al contrario, che l’interesse di Wittgenstein riguardava non la natura di questi processi, ma l’uso che nella vita quotidiana facciamo dei concetti psicologici.
L’altro obiettivo polemico è la psicologia sperimentale, secondo la quale i concetti psicologici si determinano in relazione agli esperimenti quantitativi fatti in laboratorio. Pertanto, Wittgenstein è contrario alla tradizione che si è imposta alla fine del XIX secolo con Wilhelm Wundt non tanto per un rifiuto del metodo sperimentale in sé, quanto per l’impossibilità di trovare «negli esperimenti e nel metodo sperimentale la risposta a un problema di “natura concettuale”» (L. Perissinotto, Introduzione, in Lezioni di psicologia filosofica, p. 25). La confusione concettuale non può essere risolta con l’ausilio delle spiegazioni scientifiche, ma attraverso «il chiarificarsi di proposizioni» (Tractatus logico-philosophicus, p. 50).
All’interno delle lezioni Wittgenstein propone un modello alternativo su cui costruire la sua indagine psicologica, cioè la dimensione antropologica. Questa dimensione prende forma in un «metodo […] “antropologico”» (J. Bouveresse, Wittgenstein antropologo, in L. Wittgenstein, Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, p. 59), sul quale Wittgenstein ha lavorato nell’intera riflessione post-Tractatus; il nucleo centrale di questo approccio risiede nel vedere le parole, i concetti e gli usi come «strumenti per le nostre attività più comuni. Sono come strumenti molto semplici – pietre da lanciare, bastoni per battere, ciotole da cui bere. Sono dunque comuni a tutte le creature che conducono una vita grossomodo umana e solo creature che conducessero vite fondamentalmente differenti avrebbero concetti diversi» (Lezioni di psicologia filosofica, p. 103).
I concetti psicologici, dunque, hanno una loro peculiarità che proviene dalla «forma di vita» tipicamente umana. Il termine forma di vita è fondamentale nella filosofia di Wittgenstein, e designa, utilizzando le parole di Marco Mazzeo, «un gruppo concatenato di attività corporee e linguistiche» (Le onde del linguaggio. Una guida alle Ricerche filosofiche di Wittgenstein, Carocci, Roma 2013, p. 66). Dunque, la psicologia non va indagata attraverso il metodo sperimentale o mediante la metafisica mentalista, ma nell’insieme di attività linguistiche e prassiche che compongono una specifica forma di vita. Solo nella prassi è possibile, dunque, comprendere la natura e l’uso dei concetti psicologici. La dimensione antropologica prende forma solo in un processo di addestramento, il quale non è altro che la socializzazione verso una forma di vita: alle sue pratiche, ai suoi costumi e ai suoi riti. La stessa procedura avviene con il vocabolario psicologico, e infatti lo stesso Wittgenstein scrive: «diciamo che qualcuno ha imparato a usare tali parole solo quando si comporta come un normale essere umano. Se un bambino sembrasse raggiante dopo essersi fatto male o strillasse senza alcuna ragione apparente, non gli si potrebbe insegnare l’uso della parola “dolore”. Anche se gli insegnassimo a usarla al posto degli strilli, ciò non avrebbe comunque delle conseguenze come portarlo dal medico; sarebbe un uso nuovo. Non gli si potrebbe insegnare il nostro uso dei termini psicologici. Ancora una volta: dopo aver appreso la parola, il bambino la deve usare nel modo normale. Ci saranno eccezioni, ma il punto di riferimento è la vita umana ordinaria e, più ci allontaniamo dalla vita umana ordinaria, meno significato riusciamo a dare a tali espressioni» (Lezioni di psicologia filosofica, p. 85).
In questo passo Wittgenstein è chiarissimo. Si può essere addestrati all’uso dei concetti psicologici solo nella «vita umana ordinaria», e cioè solo all’interno della prassi impensata e immediata in cui ognuno di noi vive ogni giorno. Dunque, i concetti della psicologia possono essere adoperati e indagati solo ed esclusivamente nel «flusso della vita» (Osservazioni sulla filosofia della psicologia, p. 497), poiché la vita è il luogo naturale dell’Homo sapiens e nulla è possibile al di fuori di essa. La dimensione antropologica, inoltre, permette di rendere familiare il proprio oggetto di studio – in questo caso i concetti psicologici – mantenendo, al tempo stesso, quella distanza che permette al filosofo di porsi «nella giusta prospettiva per tematizzarli, cioè per assumerli consapevolmente e studiarne il significato» (M. Andronico, Antropologia e metodo morfologico. Studio su Wittgenstein, Città del Sole, Napoli 1998, p. 265).
Nel corso delle lezioni, Wittgenstein riflette sui principali concetti psicologici concentrandosi, in realtà, più sul fornire esempi che nel proporre definizioni. Questo atteggiamento può essere compreso se si tiene presente che fornire una definizione è più simile a fornire una spiegazione, il che è più affine al lavoro dello scienziato che a quello dell’antropologo. L’antropologo, a differenza dell’uomo di scienza, non ricerca l’esattezza dei fenomeni, ma la loro diversità messa a punto tramite l’immaginazione: «potete chiedere per quale ragione ci occupiamo di una tribù palesemente immaginaria. La ragione è che così possiamo essere condotti a comparare i fenomeni reali con quelli fittizi e, di conseguenza, a concepirli in modi diversi dal modo comune» (Lezioni di psicologia filosofica, p. 92). La ricerca psicologica – come quella antropologica – ha il compito di comparare «the use of words […] into activities of human beings», allo scopo di costruire una mappa di «these activities […] [as] part of human natural history» (P.M.S. Hacker, Wittgenstein: Comparisons and Context, Oxford University Press, Oxford 2013, p. 114); in questa ricerca, l’immaginazione gioca un ruolo centrale, poiché «gli umani si immaginano diversi da come sono e cominciano a fare uso diverso della propria vita, vale a dire differente impiego dell’intreccio tra natura e storia tipico della specie» (M. Mazzeo, L’allievo di Spengler. Wittgenstein e la storia naturale, in Immaginare forme di vita. Letture intorno e oltre il metodo di Ludwig Wittgenstein, a cura di A. Lutri, Villagio Maori Edizioni, Catania 2017, p. 87).
Dunque, fornire esempi, immaginare tribù differenti dalle nostre e inventari usi dei concetti ci permette, per un verso, di riappropriarci della nostra natura di Homo sapiens, e, per un altro verso, di comprendere che i nostri concetti non hanno bisogno di definizioni ma di usi concreti e specifici, ovvero «ciò che […] è specifico sono certi fenomeni della vita» (Lezioni di psicologia filosofica, p. 65). Infatti, solo con questa consapevolezza possiamo capire che il pensare, ad esempio, «è un’attività» (p. 44) e non un processo interno; oppure che, a differenza della filosofia moderna, il linguaggio verbale «is not a translation from language-indipendent thoughts in the world» (P.M.S. Hacker, Wittgenstein: Comparisons and Context, p. 92); infatti, «si può parlare senza pensare, per esempio se ripeto parole cinesi. Se potete parlare pensando o senza pensare, pensare sarebbe un accompagnamento (il motivo musicale)» (Lezioni di psicologia filosofica, p. 44). Il pensiero, dunque, non è una strana entità interna che accompagna il parlare o, più in generale, che sottende l’intero linguaggio, ma piuttosto è un’attività organizzativa, e il modo con cui concepiamo la nostra azione nel mondo. Il pensiero è l’insieme di strategie, di prove e mezzi con cui, ad esempio, il giovane Wittgenstein tentava di costruire il motore di un aeroplano.
Allo stesso modo il «comprendere non è un processo che accompagna l’udire. Comprendiamo un enunciato solo in un sistema» (p. 57). Il comprendere non è un processo interno o, per usare una tipica espressione fodoriana, un «modulo» che si occupa di tradurre l’enunciato in un linguaggio mentale; al contrario il comprendere si dà in un sistema linguistico che abbiamo già appreso. Pertanto, anche il comprendere è collegato all’azione, perché dimostriamo di aver compreso solo quando ho imparato una tecnica per fare qualcosa, infatti «comprendere un linguaggio significa essere padroni di una tecnica» (Ricerche filosofiche, p. 95). A questo proposito, anche comprendere il significato di una parola è paragonabile al padroneggiare una tecnica: ognuno di noi usa le parole come se stesse usando un martello, una lastra o una scala; dunque, affermare che il significato è il suo uso non è un mero slogan filosofico, ma piuttosto la consapevolezza profonda che l’intero linguaggio – e di conseguenza anche il suo uso – vanno letti alla luce del possesso di una tecnica specificamente umana.
All’analisi concettuale del pensare e del comprendere si affianca – nonostante la loro differenza categoriale – quella sulle sensazioni e le emozioni. In primo luogo, nonostante non citi mai in maniera diretta i suoi avversari, Wittgenstein non concorda con Moore e Russell sulla natura e il ruolo delle sensazioni. Per costoro le sensazioni – o bisognerebbe dire “dati di senso” – sono delle strutture logiche che compongono gli oggetti fisici. Per Wittgenstein, al contrario, le sensazioni non sono altro che dei fenomeni fisici e linguistici dotati di «a genuine duration […] qualitative mixtures, and they inform us about the external wold» (J. Schulte, Experience and Expression. Wittgenstein’s Philosophy of Psychology, Oxford University Press, Oxford 1993, p. 31), oltre a possedere un’intensità e una localizzazione corporea: «è essenziale che una sensazione sia da qualche parte e sia connessa con il mio corpo e che cominci, continui e cessi in un modo specifico» (Lezioni di psicologia filosofica, p. 126). Dunque, le sensazioni non sono entità mentali o logiche, ma entità corporee che ci informano sulla natura dei nostri movimenti e che differiscono fra loro per «intensità e qualità» (p. 155). La lezione wittgensteiniana su questo punto è molto importante, poiché si discosta totalmente dalla tradizione gnoseologica che vedeva nelle sensazioni il punto di partenza (empirismo) o il punto di arrivo (razionalismo) della conoscenza. La novità di Wittgenstein concerne il fatto che il mondo non è conosciuto tramite le sensazioni, giacché la realtà è immediata e il nostro primo contatto con essa non è di natura epistemologica, ma linguistica.
In secondo luogo, le emozioni rivestono un ruolo molto importante nella psicologia di Wittgenstein, poiché la maggior parte delle nostre azioni prendono forma in un contesto emotivo; su questo, Wittgenstein afferma che «le emozioni possono colorare i pensieri – un pensiero può essere pauroso, speranzoso, ecc.» (p. 161). Le emozioni rivestono i nostri pensieri – e dunque le nostre azioni – di una certa tonalità emotiva o, potremmo dire prendendo in prestito un vocabolo della fenomenologia, di una Stimmung, cioè di un’emotività fondante; quindi l’emozione va concepita come l’espressione di un modo tipicamente umano di stare al mondo e di organizzare l’agire.
Dunque, come abbiamo avuto modo di vedere, le lezioni sulla psicologia filosofica si presentano come un testo aperto, come una bottega in cui fra allievi e maestro c’è un rapporto paritetico: entrambi apprendono e pensano filosoficamente allo stesso modo. Ed è per questo che queste lezioni rappresentano un laboratorio di riflessione prassica sulla natura umana e sul modo in cui si in-forma la vita quotidiana; un laboratorio, insomma, dove impariamo a diventare e a restare umani.

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