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16. Recensione a: Alberto Giovanni Biuso, La mente temporale. Corpo Mondo Artificio, Carocci, Roma, 2009, pp. 272. (Lucrezia Fava)

Nella definizione heideggeriana dell’umano come Dasein, come “esser-ci”, la filosofia trova forse il riferimento più autentico a se stessa, al suo luogo proprio o d’origine. In quanto ente che ha da manifestare o presentare l’essere, ovvero ha da esserci, all’umano appartiene la comprensione dell’essere. O, meglio – premesso che con “esistenza” Heidegger indica il modo d’essere dell’ente che, essendoci, si cura del proprio essere – l’umano, esistendo, è un’essenza che si autocomprende e si autoprogetta. Esistenza e comprensione dell’essere coincidono, ed è sul terreno di questa corrispondenza che si radica la filosofia. Se infatti la filosofia è, ed è sempre stata, quel sapere che ricerca i significati delle cose focalizzando ciò che in esse è essenziale, necessario o assoluto, o la ragione per cui la realtà presenta determinate strutture, e che deve pertanto basare la validità delle sue spiegazioni sulla possibilità di comprendere l’essere degli enti nella sua generalità e universalità, questa possibilità umana va preventivamente riconosciuta come una determinazione ontologica, perché solo in quanto tale può fondare l’universalità e generalità del pensiero. La risoluzione ontologica della filosofia richiede però un passo indietro, a chiarimento della risoluzione stessa. La messa a fuoco di ciò che è essenziale/assoluto/necessario, o del fondamento delle strutture della realtà, denota il metodo della ricerca. Un metodo fenomenologico, in quanto analisi del modo in cui la realtà si dà nel processo della comprensione, analisi, quindi, del fenomeno; e in quanto fenomenologico, ermeneutico, perché dall’analisi del fenomeno la filosofia risale a una spiegazione della realtà, ricava il senso proprio del compreso. La condizione ontologica della filosofia, allora, sottende una specificazione fenomenica: è l’essere dell’ente secondo il modo in cui esso da se stesso si manifesta nel processo della comprensione. Se la filosofia è un riflesso della convergenza di esistenza e comprensione dell’essere, così, ovviamente, anche il suo metodo.
La mente temporale. Corpo Mondo Artificio di Alberto Giovanni Biuso è una densa ed efficace descrizione dell’umano nella pluralità e diversità delle sue strutture/funzioni, che dimostra come queste e l’umano che da esse è composto trovino senso all’interno di una spiegazione olistica dell’essente, e come la realtà, di riflesso, presenti la sua essenziale coerenza tramite la graduale spiegazione dell’umano. La mente temporale è un volume intessuto dal Tempo: la natura processuale e continuativa degli enti, che nel corso dell’analisi si conferma l’unico legame possibile tra il tutto e una sua parte, è l’unica relazione che unisca e conservi entrambi – identificandoli e differenziandoli –, è la soluzione generale e universale in cui disciogliere ogni forma di dualismo, riduzionismo o eliminativismo. È il tempo che avviene nella forma e nei limiti dell’ente umano. È «tempo incarnato e autoconsapevole» (p. 10). Tempo in quanto mente temporale o temporalità. L’analisi di Biuso, è chiaro, fa leva sulla consapevolezza che la comprensione della totalità temporale/essente per noi è possibile «perché non siamo solo sottoposti al tempo ma anche siamo tempo, tanto che la verità delle cose ci si manifesta soltanto quando torniamo a noi stessi, quando facciamo ancora una volta nostro l’invito delfico, socratico, agostiniano» (p. 211). Secondo la sua declinazione più adeguata – in accordo con le parole dell’autore – è una filosofia del significato o cronosemantica, perché nei significati riconosce la dimensione vitale della mente temporale: strutture, identità, forme, essenze in cui si unificano il dato e il pensato, in quanto è il tempo ad essere insieme dato e pensato, vissuto e saputo. Nella sua accezione generale e primaria, la dimensione semantica è la modalità relazionale in cui si danno l’io e il mondo, l’esserci e l’essere; è tempo che diventa significativo per il proprio modo di avvenire: temporalmente. Da questo punto di vista la semantica è garante dell’esistenza: nella significatività/temporalità del tempo l’esserci si autocomprende, ovvero avviene come tempo che comprende e spiega se stesso. L’esserci è una «macchina semantica», che deve al fatto della propria esistenza temporale una vita pregna di significati.
Se l’identità tra l’umano e l’essente si risolve nella natura processuale degli enti, dev’essere possibile dimostrare l’essenza processuale dell’ente umano e ricavarne la testimonianza del fondamento processuale del mondo ontico. L’elemento cardine della dimostrazione è la mente, almeno in un’interpretazione che sappia coglierne l’essenza processuale e tradurla nell’unitarietà donante senso a ogni struttura/funzione umana a partire dall’unitarietà del corpo-mente. Il corpo non è altro, infatti, che «lo spazio-tempo della mente, la dimensione che permette a ciascuno di collocarsi in un punto preciso nell’enigmatico e inarrestabile volgersi della materia» (p. 202). La mente incarnata è costituita – almeno in linea generale – dalla complessa organizzazione dell’encefalo, dal sistema senso-motorio dell’organismo e dalla continua interazione dell’organismo con l’ambiente, strutturato a sua volta nei livelli della physis, degli enti artificiali e dell’alterità umana. Uno sguardo sul corpomente rimanda quindi inevitabilmente a quello sul mondo con cui il corpo è in continua relazione, plasmandolo e plasmando di riflesso se stesso, e ai prodotti dell’interazione corpo-mondo: «La corporeità della mente non è riducibile alla dimensione puramente cellulare e biologica del corpo-materia ed è invece costitutiva apertura attraverso la materia del corpo alla relazione interno/esterno, alla comprensione degli enti che non siano la mente stessa, all’ambiente, nello scambio con il quale la vita della mente consiste» (p. 53). In quanto corpo-mondo, la mente si configura come un singolare luogo di convergenza della pluralità e differenza della materia. La sua natura non si esaurisce nella dimensione fisico-chimica, cellulare ed ecologica del corpo: anche le dimensioni in apparenza impalpabili e indistinte come la coscienza trovano nel loro legame col mentale un’essenziale risoluzione. I principali risultati della disamina storica dei modi di spiegazioni della mente, incentrata sulla questione del rapporto body/mind e su quella della coscienza e dei qualia, ne confermano lo statuto. Da un lato una realtà mentale autonoma rispetto al corpo, dal punto di vista ontologico e/o epistemologico – dalla res cogitans cartesiana alla più recente mente computazionale dei funzionalisti – sarebbe priva di senso e di fatto insussistente, dato che la mente risulta essere la generale capacità (ontologica ed epistemologica) del corpo di agire, pensare e comunicare secondo un cosciente sistema di autocorrezione/autopoiesi, funzionante sulla base della costitutiva unità d’interazione e di scambio informativo dell’organismo con l’ambiente. Dall’altro lato, la mente è irriducibile alla fisicità del corpo e nello specifico al sostrato cerebrale – secondo tesi che vanno dal meccanicismo di Hobbes al connessionismo neurale dei Churchland. Anche la migliore analisi e il monitoraggio più preciso dell’attività del cervello non spiegherebbero infatti di per sé l’inesauribile ricchezza e complessità della vita umana. Ad esempio, non potrebbero spiegare l’evento determinante la dinamica cerebrale ripresa in una ƒMRI, o perché uno stesso evento venga compreso e vissuto diversamente da vari soggetti – dato che non potrebbe certo chiarirlo una differenza quantitativa dei dati dell’analisi. Se la conseguenza da trarne è l’esclusione della possibilità o necessità di questa spiegazione, allora si rinuncia alla comprensione non solo dell’evento dell’attività neuronale ma anche dell’ente umano inteso nella sua generalità e universalità. Una mente osservata, invece, nella sua differenza dalla materia cerebrale, si presta a questo scopo. Ed è l’essenza temporale della mente a segnare la differenza.
Il significato di un evento affonda in un continuo processo/eventuarsi di enti ed eventi, ossia di strutture permanenti e percepibili coi sensi, e di accadimenti o mutamenti circostanziali relativi a determinati enti. Se la mente può spiegare un evento va da sé che ne comprenda il processo. Abbiamo già detto che la mente è l’unità dell’interazione corpo-mondo, ma ora specifichiamo: l’unità del corpo-mondo si dispiega come unità semantica/mentale di una relazione eventuale; è il corpo che riconosce se stesso nell’eventuarsi del mondo ontico, nei significati dischiusi dalla comprensione degli enti e degli eventi.
L’eventuarsi del corpo-mondo emerge soprattutto dall’analisi di strutture/funzioni dell’umano quali l’intenzionalità, la coscienza, la memoria, il linguaggio, la volontà, l’azione, nel momento in cui queste trovano con l’ausilio della fenomenologia una limpida spiegazione temporale che rimanda all’essenza eventuale di enti ed eventi e perciò ai significati della mente.
L’intenzionalità contraddistingue gli atti mentali come costante direzione della mente verso qualcosa. Ciò che viene intenzionato è a sua volta «un ente diventato significativo per una mente. Una cosa che sta lì, da qualche parte nello spazio/ambiente, che non è ancora e non è essenzialmente un oggetto. Essa diventa tale quando acquista rilevanza per qualcuno in grado di attribuire significato alla cosa stessa, cioè per una mente» (p. 109). L’intenzionalità, allora, «presuppone la specifica trascendenza dell’esserci rispetto al semplice stare, al sussistere, al subire il tempo» (p. 211). E questo rimanda al circolo heideggeriano di avvenire-essente stato-presentante: l’esserci è un potenziale di eventi a venire che si attualizza e trapassa irreversibilmente nell’essere-stato degli eventi accaduti con l’avvenire di una nuova presentificazione; un potenziale progettato dall’esserci a partire dal proprio essere-stato, motivo per cui la presentificazione dell’esserci va intesa come attualizzazione della possibilità di mutamento/differenziazione del passato. La trascendenza è la relazione tra gli enti e il circolo estatico e finito secondo cui essi avvengono: è il corpo che riconosce nel mondo ontico l’eventuarsi di se stesso, ed è questo riconoscimento che qui decliniamo come mente temporale. Ora dovrebbe essere chiaro perché l’intenzionalità presupponga la trascendenza: la mente è diretta a una realtà ontica che è il presente risultante dell’avvenire-essente stato-presentante di se stessa. E inoltre, perché essa sia garante dei significati: nell’avvento della realtà ontica intenzionata, la mente infatti si autocomprende come condizione trascendentale di ciò che intenziona, inclusiva della totalità semantica dell’avvenire (potenziale di enti ed eventi attesi, desiderati, immaginati, ricercati) e della totalità semantica del passato (potenziale di enti ed eventi vissuti, ricordati, amati, rimpianti). Significati, dunque, fondati dalla mente nell’atto di cogliere e memorizzare la propria specifica situazione spaziotemporale, vale a dire: fondati da un’irreversibile differenziazione. La mente infatti intenziona la realtà presente distinguendo ciò che di essa ha da venire e ciò che di essa è stato, ossia comprendendo il proprio presente secondo l’irreversibile differenziazione dell’avvenire-essente stato che lo compone.
La coscienza è una struttura intenzionale, essendo sempre coscienza di (o diretta a) qualcosa, ed è coscienza del modo in cui si dà ciò che è intenzionato, per cui essa è insieme cognitiva e fenomenica – coscienza sia del “che cosa” intenzionato sia del “come” di esso. La coscienza è il nucleo vitale dell’ontologia: è coscienza dell’essenza eventuale degli enti, di ciò che si dà come eventuarsi della coscienza stessa. Riferendosi a essa Biuso parla di flusso di temp-ora: in ogni “ora” si è consapevoli di ciò è che ha da essere, di ciò che è appena stato e del percepito che è, per cui ogni ora è l’unità degli atti intenzionali di aspettazione-ritenzione-presentificazione; dato che ciò che ha da essere va accadendo come ora e muta in ciò che non è più perché accade un altro ora, ogni ora risulta essere un’unità consapevole del proprio fluire, un fluire costituito, appunto, di temp-ora. «L’ora in cui si verifica questo flusso consapevole è ciò che chiamiamo coscienza» (p. 180). La coscienza è allora l’unità immanente e semantica del flusso trascendente che la alimenta: il processo ontologico secondo cui il mondo ontico si eventua è trascendente rispetto all’ente umano in quanto condizione di possibilità del suo avvenire, ed è immanente ad esso perché l’identità umana (che rende possibile) è il manifestarsi del processo come fondamento processuale di enti ed eventi, è tempo che si dispiega e spiega nel suo senso: è temporalità.
Il Sé è il continuo stratificarsi dei vissuti del corpomente: è memoria corporea in atto. La memoria corporea si mantiene integralmente: il corpo non dimentica, ma in ogni istante è la totalità fisica, emotiva, pratica, logica del tempo avvenuto. La massa crescente dei vissuti intorpidisce e aggrava sempre di più il corpo corrispondendo al progressivo esaurirsi delle sue forze vitali. Ma il Sé è anche selezione, cancellazione e reinvenzione del già stato: è una dinamica coscienziale di ricordo/oblio determinata dalla temporalità e ad essa necessaria. La coscienza infatti deve dimenticare perché ciò che ricorda sia funzionale alle esigenze di un presente sempre differente, e quindi per garantire la significatività dei continui mutamenti della corporeità – nella prassi, nel pensiero/linguaggio, nel parlato. L’atto del ricordare-dimenticando che rende significativi i giorni è l’atto stesso del corpo come memoria corporea: «Il mio corpo non possiede ricordi di eventi passati come possiede la camicia che indossa ma è la memoria vissuta di tali eventi, che quindi sono in esso presenti come engrammi fisici e ricordi mentali» (p. 143). In sintesi, la memoria è la permanenza di un vissuto sempre aperto alla possibilità di differenziarsi, è quindi permanenza dei significati e dell’irriducibilità di ogni individuo a chiunque altro, come prova l’impossibilità di agire in modo sensato e di riconoscere se stessi in caso di progressiva perdita della memoria.
È anche per questo che il linguaggio è «una forma primaria dell’abitare umano, e produce i significati» (p. 66), perché è la struttura/funzione con cui gli umani dimostrano e raccontano a se stessi la necessità delle azioni e degli accadimenti, costruendone il significato nel dialogo pubblico e interiore; esso testimonia dunque l’impossibilità per noi di esserci se non in modo tale da riconoscere il nostro senso in questo stesso esserci. È forse la prova più semplice da constatare – vista la sua traduzione in segni condivisi pubblicamente – dell’irriducibilità del mentale al cerebrale, dell’infondatezza di una mente soltanto computazionale o sintattica, della temporalità della mente. Basta qualche esempio: al silenzio attribuiamo sempre un motivo, e questo non lo si risolve nell’attività cerebrale di chi tace ma nella plausibilità di un evento che lo riguarda; la modalità di comprensione di uno stesso testo presenta un’incolmabile diversità da un lettore all’altro, ma cambia anche per lo stesso lettore a qualsiasi distanza di tempo, dipendendo dalla situazione spaziotemporale in cui avviene la lettura, dalla pluralità sempre rinnovata degli enti e degli eventi in cui prende forma il paradigma interpretativo e la memoria di ciascun individuo; il significato di ogni parola dipende dal predicato a cui si associa e anche la veridicità di un enunciato è condizionata dalla temporalità – oggi è vero che “sono iscritta all’Università di Catania”, ma non lo era anni fa.
La volontà è una sorgente di motivi e logiche di modalità d’azione. Il corpomente elabora una giustificazione per le azioni che effettua e garantisce così il senso di se stesso, ricavandolo non dal fine dell’azione ma dall’effettuazione del fine: la volontà ci restituisce il senso del nostro esserci, non lo determina. È la via per comprendere – anche inconsapevolmente, anche per negazione – l’essenza della finitudine nel succedersi delle nostre produzioni, simboliche e materiche: «La finitudine radicale di tutto ciò che viene all’esistenza impone che per comprendere l’essere sia necessario intendere il limite costitutivo di ogni cosa, di ogni soggetto, di ogni evento […] Le civiltà con il loro immenso fluire di energia, di manufatti, di bellezza e di orrore costituiscono anche il tentativo da parte del nodo di tempo che ogni essere umano è di sfuggire alla propria finitudine» (p. 148). Una fuga in cui si compie «“la teleologia della vita essendo: durare”» (ibidem, cit. da E. Mazzarella, Sacralità e vita. Quale etica per la bioetica?, Guida, Napoli 1998, p. 45.). Una volontà al servizio della condizione ontologica della specie.
L’azione è l’esito ultimo della temporalità: l’esserci nella modalità dell’effettuazione e fatticità quotidiana, del presente che avviene portando con sé il proprio passato. Ad agire è sempre un corpo isotropo: schiusura, costruzione e comprensione del mondo avvengono dalla prospettiva spaziotemporalmente situata del corpo in movimento. Azione e spazializzazione combaciano. Se il tempo è il potenziale degli enti e degli eventi che va attualizzandosi, lo spazio è l’atto, la permanenza della struttura ontica nel suo divenire, la materia che nel presente percepisce se stessa. «Come la materia, quindi, è energia posta a basse temperature – i fisici dicono “localizzata” –, così lo spazio è la potenza del tempo raffreddato che si coagula in forme materiali percepibili» (pp. 189-190). Agire significa allora commisurare le proprie possibilità d’azione rivolte agli enti nello spazio comprendendole sulla base della propria attualizzazione/spazializzazione. Ma l’azione è anche tecnicità/forza-lavoro: capacità di progettare e approntare macchine e strumenti necessari alla vita nell’ambiente, con i quali vivere in simbiosi. È anche esperienza, formazione, gioco, arte, scambio e creazione di cultura, costante impegno in qualcosa che possa soddisfare i nostri istinti e bisogni e che rispecchia la nostra vita vissuta e aperta al futuro. L’azione è la totalità dinamica del corpomente vincolata all’attrito dello spaziotempo.
Nella mente incarnata, intenzionale, rammemorante, linguistica, desiderante, agente e cosciente di sé, si profila l’Ereignis come temporalità, vita mondana che transita e tramonta secondo il proprio necessario cerchio ontologico identificandosi con la pluralità e differenza ontica immanente al cerchio; relazione semantica tra la totalità naturale e processuale e le parti di cui si compone; materia fertile dei significati che affluiscono dal proprio modo di estendersi, moltiplicarsi, conservarsi, trasformarsi.
L’essenza onnicomprensiva del tempo si presta ad essere decifrata almeno in nove modi. Tempo cosmico: logica all’origine dell’ordine e della necessità del mondo che miti e religioni tentarono di spiegare. Tempo fisico: spazio commisurato in rapporto agli oggetti in esso coesistenti e al movimento dei corpi, dal quale derivano i caratteri della reversibilità, omogeneità, simultaneità e misurabilità dello spazio: uno spazio, quindi, in apparenza autonomo dalla temporalità (irreversibile, differente, necessaria). Tempo convenzione: strumenti di misura creati dall’uomo per calcolare la durata degli eventi o gli intervalli tra di essi, così da poter organizzare di conseguenza le sue attività. Tempo sociale: meccanismo regolativo della durata della società, l’autocostrizione dell’individuo alla produzione e istituzionalizzazione delle pratiche necessarie al funzionamento e mantenimento delle collettività. Tempo psicologico: percezione soggettiva del corso degli istanti, o anche coscienza della peculiare tonalità del corpo proprio presente, del suo scenario interiore di intenzioni, attese, ricordi, consapevolezze. Tempo somatico: il pulsare del cuore, il fluire dei liquidi, il dinamismo neuronale, i trampoli proustiani che si alzano con il trascorrere degli anni. Tempo genetico: memoria del vissuto dei corpi da cui proveniamo, ereditata e conservata nel gene emozionale nel nostro DNA; traumi, sentimenti di angoscia o di gioia, che appaiono indistinti e immotivati, possono risolversi negli eventi di altri corpi, a conferma dell’unione radicale di tempo e corpo. Tempo antropologico, una prima sintesi delle forme già elencate: in un’accezione soggettiva, la vita dell’individuo, un plesso di scelte, azioni, esperienze simili ma anche irriducibili a quelle di chiunque altro; in due accezioni oggettive e universali, la forma a priori del tempo di Kant, una categoria concettuale propria della specie umana, e la teoria dell’eterno ritorno di Nietzsche, un’istanza etica a operare secondo una modalità tale che ogni accadimento sia un risultato desiderato. L’ultima forma del tempo è quella, già presentata, del tempo fenomenologico, che ingloba ogni altra possibile decifrazione del tempo: è il corpomente che intuisce la forma trascendentale della propria durata; è infatti, in quanto durata, un darsi di enti ed eventi che fonda la coscienza immanente di se stesso, in cui si dà, si autofonda e autocomprende, come durata trascendente. «Il tempo è soprattutto e costitutivamente il modo in cui la coscienza rende possibile se stessa» (p. 170).
Una filosofia del significato pone al centro limiti e possibilità dell’esserci. Il limite della finitudine della corporeità umana, della perdita di ciò che avviene, dell’ignoranza del futuro, dell’attrito del possibile con la realtà fattizia e spaziale. La possibilità dell’oltre del limite data dall’avvenire – e mai del tutto effettuata –, del ritorno di ciò che è stato in forme differenti, dell’affermazione del Sé nel divenire necessario di se stessi. È una filosofia che si pone alla base di ogni sapere e produzione, nella misura in cui questi nascono da noi e per noi e non possono pertanto prescindere dalla questione antropologica. Lo si afferma con chiarezza ne La mente temporale in riferimento all’ambito di ricerca dell’Intelligenza Artificiale (IA): un’ontologia del computazionale e degli enti artificiali dev’essere anche un itinerario verso la migliore comprensione filosofica di noi stessi, se non vuole precludersi la possibilità del proprio obiettivo: ovvero riprodurre l’intelligenza umana creando strutture artificiali in grado di autoregolazione e adattamento al contesto in cui operano. Una preclusione più che plausibile: se il programma debole dell’IA è infatti di tipo solo operativo e strumentale (dotare l’uomo di dispositivi in grado di simulare la sua intelligenza, per quei settori in cui non basta la forza meccanica), il programma forte guarda invece alla possibilità – anche se ancora non attuabile, ma non da escludere – di creare menti artificiali – dotate di una qualche forma di coscienza – autonome dalla struttura biologica del nostro corpo e implementabili in supporti differenti. Alla base dell’IA forte sta la convinzione che l’intelligenza sia la capacità di una mente solo logico-algoritmica, che opera su rappresentazioni simboliche secondo programmi prestabiliti e in modo, quindi, esclusivamente sintattico. Se fosse vero dovremmo negare quanto abbiamo sostenuto fin dall’inizio: la mente non è un calcolo che avviene su dati in archivio, estraneo al contenuto dei dati e fine a se stesso, ma è la comprensione del dato grazie all’esperienza vissuta di esso, e per questo memorizzata; è il corpo che accade come percezione, emozioni, relazioni e prassi e va intessendo il suo linguaggio/pensiero grazie al proprio modo di accadere, per cui solo in rapporto a questo si dà comprensione; è semantica, e non pura sintassi, autoprodotta da un’identità coscienziale, biologica e mortale. Pertanto, «un cervello artificiale non dovrebbe limitarsi a eseguire programmi ma dovrebbe produrre eventi mentali tramite processi di tipo neurobiologico» (p. 226), ossia: dovrebbe essere corpo e non soltanto possedere un corpo in cui essere implementato. L’esclusione della corporeità o di una dimensione della corporeità esclude in modo diretto comprensione e coscienza. Detto ciò, possiamo distinguere gli studi dell’IA in due tipologie di ricerca. La prima, già accennata, disconosce l’identità umana fortificando se stessa all’ombra di un sogno metafisico, qual è quello di un’autonoma sostanza computazionale, o comunque di un’entità mentale che possa prescindere dall’autocoscienza, dall’essere nel mondo e dalla corporeità: dalla finitudine esistenziale. La seconda adegua il proprio obiettivo all’orizzonte di senso dell’umano, ossia al fondamento eventuale della sua identità. Ne è un esempio la soluzione indicata da Biuso: innestare nel corpo umano gli elementi artificiali atti a potenziarne, ad esempio, la memoria, la percezione e l’insieme delle risposte all’ambiente, in accordo al fatto che l’identità umana è per costituzione nomadismo e alterità. L’umano è la prima forma di un cyborg: un’identità costretta alla contaminazione con elementi posti al di fuori del suo corpo organico, di per sé insufficiente alla sopravvivenza nell’ambiente; un’identità insieme biologica e protesica, in grado di conservarsi evolvendosi in simbiosi con i suoi prodotti – così fin dalla creazione della prima protesi cognitiva, l’alfabeto unito alla simbologia dei numeri, con cui è avvenuto lo spostamento all’esterno del corpo dell’essenziale facoltà della memoria. «Il corpo ibridato con le macchine che da esso stesso sono scaturite costituisce pertanto la vera identità della mente umana. Un’identità sempre cangiante e costantemente molteplice come cangiante e molteplice è il corpo. Privarsi di tale molteplicità significa rinunciare al senso. Accoglierla vuole dire comprendere e vivere la differenza fra noi e il tutto e nello stesso tempo la nostra identità con l’intero – naturale e artificiale – del quale siamo parte, vuol dire trasformare il labirinto in cui ci muoviamo nella ragnatela dei significati che il nostro corpo intesse e con i quali cattura la gioia. Questo è la filosofia, lasciare che la Mente/Corpo fluisca nel Mondo in una varietà di espressioni, incontri, ibridazioni, nelle molteplici forme naturali-artificiali di cui si compone. Lasciare che il Sé pulsi di ciò che lo intesse, la forza dell’Aiòn, del Tempo» (pp. 266-267). Così il libro si conclude.

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