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7. Recensione a: Maria Grazia Sandrini, La filosofia di Rudolf Carnap tra empirismo e trascendentalismo, Fupress, Firenze, 2011, pp. VI + 111 (Luca Guidetti)

Non è certo impresa da poco delineare, in una settantina di pagine, il percorso filosofico e scientifico di Rudolf Carnap senza ricadere in schematizzazioni manualistiche o sommariamente descrittive. Maria Grazia Sandrini – già curatrice, nel 1974, della splendida edizione italiana di The Philosophy of Rudolf Carnap, originariamente pubblicata nel 1963 nella Library of Living Philosophers, a cura di A. Schilpp – sembra essere riuscita a rendere, in tal misura, lo sviluppo e il senso delle posizioni carnapiane riguardo alla logica, all’epistemologia e, più in generale, alla visione del mondo complessiva che si accompagna ad esse. Il volume si articola in cinque densi capitoli (1. La teoria empiristica della conoscenza; 2. Dalla teoria della conoscenza all’analisi logica della scienza; 3. La semantica; 4. La conferma come concetto semantico e la teoria dell’induzione; 5. Dall’empirismo al trascendentalismo) a cui fa seguito un’Appendice che riporta la traduzione, corredata da un ampio commento a cura di Ernesto Palombi, dello scritto carnapiano Sugli enunciati protocollari, pubblicato nel 1932 sulla rivista «Erkenntnis».
Pur seguendo nella sua esposizione lo sviluppo cronologico della filosofia di Carnap – dal capolavoro giovanile La costruzione logica del mondo (1928) allo scritto su Empirismo, semantica e ontologia (1950), posto in appendice alla seconda edizione di Significato e necessità –, l’autrice non manca di soffermarsi sugli snodi fondamentali del suo pensiero, che affronta con taglio critico e problematico, senza indulgere a un loro facile inquadramento entro quella cornice neopositivistica e antimetafisica a cui spesso si è consegnata l’esegesi carnapiana. Il testo affronta così subito, senza inutili preamboli, il problema della “base”, cioè del campo di oggetti da assumere come fondamentali nella costruzione del sistema di costituzione, così come esso viene tracciato nell’Aufbau.
Si tratta infatti, per il giovane Carnap, di conciliare esperienza e logica, cioè i dati vissuti elementari, corrispondenti alle qualità sensibili, e le relazioni formali che strutturano tali dati, in modo da produrre i concetti e gli asserti scientifici. Che tale conciliazione non sia però un compito semplice, è testimoniato dal fatto che Carnap deve ricorrere a metodi d’indagine e di organizzazione dei dati empirici, come la «quasi analisi» o il «ricordo di similarità», che per definizione non sono analiticamente riconducibili alla ricostruzione razionale del linguaggio scientifico, ma richiedono l’accesso a un ambito del “senso” o del “valore conoscitivo” che oltrepassa la sfera del processo di riduzione logico-strutturale (pp. 2-4). Per la rilevazione delle proprietà strutturali non è infatti sufficiente isolare le proprietà formali dei vissuti e individuare, su tale base, un fondo comune intersoggettivo, dal momento che la dimensione “strutturale” non evoca la semplice forma, ma rappresenta anzi il prodotto della forma per la funzione, la quale richiede l’introduzione di un fattore sintetico. Dopo di che, o tale fattore è già analiticamente presente nell’esperienza immediata, e si tratta allora di rilevarlo con un linguaggio fenomenistico (che però non ha niente a che vedere con la semplice fenomenicità dell’esperienza vissuta); oppure dev’essere dedotto – come fa Carnap – da un «principio neutrale di fattualità» (p. 10) che tuttavia, proprio in virtù della sua pretesa universalità, si presenta come un residuo metafisico posto al fondo dell’esperienza costitutiva. A ragione, quindi, Sandrini osserva come la mancata convergenza di fenomenismo e principio di fattualità, «nel tentativo di fondare empiristicamente la conoscenza […], finisce per reintrodurre la metafisica dalla finestra, dopo averla cacciata dalla porta» (p. 13). Inoltre – nota l’autrice – pare fuori luogo anche la pretesa carnapiana che «la tautologicità della logica dissolva da sola ogni domanda relativa alla portata reale della logica stessa» (p. 14), e in particolare che la sua richiesta neutralità «conservi e trasmetta il valore di verità del dato vissuto elementare», poiché ciò significherebbe non solo ammettere l’esistenza di una sorta di logica “naturale” al di fuori di qualsiasi «stipulazione convenzionale», ma anche trasgredire quello che era stato l’insegnamento dello stesso Wittgenstein riguardo alla trascendentalità della logica, trascendentalità che, in effetti, tra i membri del Circolo di Vienna sembra «non aver trovato alcuna eco» (ibid.).
Alla luce di queste tensioni irrisolte, si spiega anche l’abbandono di Carnap, immediatamente successivo alla pubblicazione dell’Aufbau, del principio fenomenistico a favore del fisicalismo (pp. 15 sgg.). Ora, che non si tratti di un autentico abbandono, ma solo di una diversa accentuazione dell’esperienza logicamente prefigurata nel dato fenomenico, emerge dalla peculiarità “comportamentistica” del linguaggio protocollare. Ad esempio, nel protocollo: «[Il pensiero di x, verbalizzato alle ore y, era: (una macchia rossa è stata percepita da x)]» (p. 19), il comportamento – sia esso descritto o in qualsiasi modo raffigurato – implica senza dubbio la rinuncia all’introspezione psicologica o a una qualche metafisica della mente, ma, anziché sopprimere l’ambito fenomenico, lo riproduce a un diverso livello, mediante una sintassi fondata non sui qualia aggettivali, ma sulla primarietà semantica del nome sostantivo o di un segnale nominale sostitutivo. Ciò comporta che la prospettiva fisicalistica sia in un certo senso già contenuta in quella fenomenistica e possa esplicitarsi solo mediante una differente direzione tematica dell’esperienza. L’apparente dualismo tra fisico e fenomenico ha dunque ben poco a che fare con la classica contrapposizione tra oggettivo e soggettivo, a meno che non si voglia render conto anche di quest’ultima, colta dal punto di vista dell’esperienza pura, non come di un’antitesi, ma nella forma di un enantiomorfismo, il cui piano di simmetria sia appunto rappresentato dal vissuto immediato.
In tale prospettiva, si apre la strada per la definitiva rinuncia a un principio di verificabilità fondato su concetti osservativi (p. 29), allo scopo di approdare, invece, a una piena configurazione sintattica dell’esperienza. Sandrini nota come l’indagine carnapiana sulla Sintassi logica del linguaggio (1934), in tal modo concepita, non assuma alcuna qualificazione astrattiva o meramente formalistica, dal momento che essa deve al contrario consentire la tematizzazione più ampia possibile dell’esperienza. Tale «liberalizzazione dell’empirismo», nota anche come «principio di tolleranza», implica infatti la piena convenzionalità delle forme linguistiche, che vengono in tal modo a far parte in senso pieno del “commercio” umano col mondo e della sua possibilità di riproduzione logica (pp. 24-27). Si tratta di un punto di svolta fondamentale perché la sintassi logica, facendosi carico dell’originaria ma in sé inesprimibile forza connotativa del piano fenomenico, svuota di senso ogni riferimento ontologicamente pregiudicato alle cose o ai fatti, aprendo lo spazio per la presentazione, al loro posto, di un «linguaggio ordinario cosale, comune al linguaggio prescientifico e a quello scientifico, che fa parte del metalinguaggio» e che, nel rendere vana l’iniziale contrapposizione tra fenomenismo e fisicalismo, introduce le «condizioni intenzionali o di adeguatezza […] su cui si basa l’interpretazione di un linguaggio formale» (p. 41, corsivi ns.).
Ora, è proprio facendosi carico di quel senso formale che i segni assumono nelle loro sequenze regolari all’interno delle unità linguistiche che la sintassi, attraverso un linguaggio cosale in cui i simboli riferiti ad oggetti fisici rappresentano ormai solo un caso particolare, può delimitare il terreno su cui si fonda l’indagine semantica. Così, in Significato e necessità (1947), la natura semiologica del processo logico-conoscitivo – già prefigurata nell’Introduzione alla semantica (1942) – emerge in tutta la sua forza, rivelando al tempo stesso la duplice natura, intensionale ed estensionale, della designazione linguistica. Con un evidente recupero di implicite istanze stoiche che, all’interno della nozione semantica generale, distinguevano tra il senso denotativo del segno (semainomenon) e quello invece connotativo (lekton), Carnap separa i designatori enunciativi con la stessa estensione, che corrisponde al loro comune valore di verità (anche empirico), dai designatori a cui pertiene, al contrario, la medesima intensione, in quanto totalmente inclusi nel campo dell’analisi logicoconcettuale. In tal modo fa la sua comparsa, nello sviluppo dello stesso piano sintattico che regola la frase enunciativa, la proposizione in quanto designatum intensionale dell’enunciato, vale a dire come il «senso dell’enunciato in accordo con le sue regole semantiche», senso che non riguarda in prima istanza la verità, ma solo le sue condizioni (p. 44 sg.). Tutto ciò serve a cercare di eliminare i fraintendimenti che, già a partire dall’Aufbau, condizionavano il “principio di estensionalità” alla base della semantica metalinguistica dei linguaggi scientifici, fraintendimenti che risultavano poi indebitamente trasferiti nella dinamica “protocollare” delle determinazioni fisicalistiche. Infatti il metalinguaggio intensionale, e in particolare la sua specificazione isomorfica (per cui due espressioni hanno la stessa struttura intensionale non solo quando, nel loro insieme, sono logicamente equivalenti, ma anche quando vi è equivalenza tra le parti componenti), lasciano scorgere la possibilità di giustificare il senso logico-analitico della sinonimia. Ad esempio, i due termini “Pegaso” e “Folletto”, proprio in quanto designanti due classi vuote, appaiono estensionalmente identici pur avendo differenti significati; essi vengono dunque considerati sinonimi, mentre in realtà non lo sono. La loro differenza di significato viene invece rilevata in un metalinguaggio intensionale, «dove i due termini possono riferirsi a entità differenti pur mantenendo estensioni nulle» (p. 45). Ora – come ha osservato Donald Davidson (Il metodo dell’estensione e dell’intensione, in P.A. Schilpp, a cura di, La filosofia di Rudolf Carnap, ed. it. a cura di M.G. Sandrini, il Saggiatore, Milano, 1974, vol. I, p. 323) – ciò vale per numerosi casi, ma non per tutti quelli in cui si presentano forme di sinonimia. Anche l’’isomorfismo terministico-intensionale, che Carnap impiega per smascherare quelle apparenti sinonimie la cui imperfetta funzione d’identità sfugge all’intensionalità enunciativa (p. 46), si rivela a tal proposito insufficiente. Esso infatti si presenta da un lato come un criterio analiticamente troppo rigido, perché presuppone la corrispondenza uno-a-uno degli elementi semantici e, dall’altro, dimostra la sua ineffettualità sul piano dell’interpretazione, perché non copre i casi di sinonimia che non dipendono da determinazioni rigorosamente logico-analitiche, ma traggono anzi origine da stipulazioni conoscitive, sintetiche e in generale assiomatiche che anticipano quadro logico prestabilito o addirittura ne fuoriescono.
Di qui la necessità, sviluppata da Carnap in una serie di articoli nella prima metà degli anni Cinquanta, d’introdurre all’interno della struttura analitica della verità i cd. “postulati di significato”, che non sono altro che definizioni di corrispondenza tra i termini allo scopo di fissare univocamente il requisito della loro sinonimia. Senonché – rileva Sandrini – Carnap non sembra utilizzare tali postulati (evidentemente non logico-analitici) per stabilizzare il campo del linguaggio intensionale, richiedendo anzi una loro neutralità per quanto riguarda l’estensione del “mondo”, cioè l’insieme dei fatti che con essi vengono introdotti (p. 62). È ora evidente che qualsiasi determinazione di corrispondenza tra i significati debba riflettersi o, per conversione, trarre alimento dalla concezione del mondo e dagli elementi in esso contenuti, essendo impossibile separare la semantica da un qualche impegno in senso lato ontologico che riguardi le modalità stesse di presentazione dell’esperienza. Che poi tale impegno debba intendersi in direzione di una funzione costitutiva o “trascendentale” del linguaggio, oppure come un’assolutizzazione del significato dei termini osservativi facendo leva sul loro «significato corrente» (p. 66), ciò non incide sulla necessità di rimarcare l’inadempienza di una compagine analitica che intende aggiudicarsi uno statuto di purezza logica, peraltro smentito dalla stessa natura sintetica e intensionale del requisito – sempre presente nella filosofia carnapiana – di “empiricità” delle strutture formali. Ed è, in ultima istanza, Carnap stesso ad avvertire il bisogno di congiungere empirismo e trascendentalismo, facendo valere in tal senso non solo il livello teoretico della trascendentalità logico-linguistica, ma anche quello pratico della scelta dei valori e della ragione che deve guidare alla loro realizzazione, cosicché, conclude Sandrini, «il piano della prassi diviene condizione di senso della costruibilità dei linguaggi» (p. 70). Nato come critica radicale alla metafisica a favore di un inconcusso principio di verificazione empirica, il pensiero di Carnap sembra così convergere, nella sua fase finale, verso un umanesimo scientifico basato sulla riunificazione della sfera teoretica con quella pratica (p. 72), il cui scopo sarebbe «lo sviluppo di un’idea di razionalità non più esclusivamente conoscitiva». Che poi tale umanesimo – come vuole l’autrice – intenda tradursi in una sorta di immanentizzazione della vita, sorretta da un ottimismo segnatamente neo-positivistico nei confronti dei metodi e degli scopi della scienza, è una conclusione che forse appartiene più alla sua autorevole interprete che alle intenzioni più o meno palesi di Carnap stesso.

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