giovedì , 18 aprile 2024
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79. Recensione a: Umberto Crocetti, Il dialogo. Paradossi ed opportunità, Agorà & Co., Lugano 2019, pp. 141. (Igor Tavilla)

Il dialogo. Paradossi ed opportunità di Umberto Crocetti, professore di filosofia presso il Liceo classico “G. Leopardi” di Aulla in Lunigiana, è una convincente e appassionata perorazione della prassi dialogica, colta nella sua duplice valenza agonistica e terapeutica, attraverso un inedito confronto a distanza tra i due “più grandi spiriti negatori della storia” – così l’autore definisce Socrate e Nietzsche. Il volume, uscito tra gli albi della collana “La casa dei sapienti” diretta da Alessandro Biancalani (Facoltà teologica dell’Italia centrale), che ne firma anche la prefazione, e accompagnato da una nota introduttiva di Adelino Cattani (Università degli Studi di Padova), consta di sette capitoli, scritti in una prosa colta ma scorrevole alla lettura, e un’appendice nella quale Crocetti presenta il progetto “Cultura del dibattito”, ne ricostruisce la storia e ne illustra le finalità didattiche.
L’autore prende spunto dall’affermazione secondo cui la filosofia sarebbe morta, per non essere riuscita a tenere il passo dei progressi scientifici, specialmente nel campo della fisica. È quanto hanno sostenuto Stephen Hawking e Leonard Mlodinow, autori de Il grande disegno (Mondadori, 2011). Crocetti raccoglie la provocazione e, a partire da un’attenta riflessione sullo statuto epistemologico della disciplina, riconosce nell’inutilità la cifra del filosofare e al tempo stesso la garanzia della sua perennità, della sua insuperabilità. Se è vero che i problemi filosofici non hanno una soluzione ma hanno una storia, è altresì vero che la filosofia ha da sempre fatto i conti con la propria inutilità, ben prima che gli scienziati ne costatassero il decesso. Più volte infatti si è assistito al tentativo della filosofia di oltrepassare se stessa nella direzione di un sapere epistemico, universale e incontrovertibile, attraverso l’adozione di un codice linguistico formalmente corretto, che in virtù della propria esattezza e univocità potesse raccogliere attorno a sé un consenso unanime, rendendo così superflua ogni discussione. Questo è il senso della lingua perfetta di Leibniz (il quale affermava che un giorno non si sarebbe più detto “adesso discutiamo” bensì “adesso calcoliamo”) e di Wittgenstein, ma – osserva Crocetti – “la discussione, lungi dall’essere fattore aberrante del filosofare, da cui emanciparsi (calcoliamo, non discutiamo), ne è elemento costitutivo, fondante” (p. 30).
Sulla natura del dialogo poi, l’autore sviluppa alcune suggestive considerazioni, a partire dall’etimo stesso del termine dialogos, composto dal prefisso “dia-” (attraverso) e dal sostantivo “logos” (parola, discorso). “L’espressione sembra rimandare a una particolare forma di parola capace di passare attraverso, di trafiggere” (p. 35). Nel suo significato originario, di probabile ascendenza eleatica, il dialogo consisterebbe dunque in una sorta di duello all’arma bianca in cui ciascuno dei contendenti cerca di affermare il proprio primato intellettuale a scapito dell’interlocutore. Questa vocazione polemica del dialogo sarebbe stata raccolta e portata a perfezione dai sofisti, attraverso le logomachie (battaglie di discorsi) e l’eristica, l’arte di riportare la vittoria in una discussione indipendentemente dalla validità degli argomenti addotti.
Il dialogo, inteso in questi termini, appare a Crocetti come una incarnazione di quella volontà di potenza che anima, secondo Nietzsche, ogni forma di vita, e che nell’uomo accresce esponenzialmente il proprio potere attraverso il sapere. La confutazione dialogica avrebbe dunque quale unico fine quello di prevaricare l’altro, di annetterlo a sé, affermando così se stessi e la propria superiorità. Socrate – fa notare l’autore – non fa eccezione a questa regola, anzi in lui la volontà di potenza raggiunge un vertice insospettato. “Socrate, formato alla scuola della dialettica delle origini, è mosso da intenti agonistici talmente radicali e potenti, che arrischia la sfida estrema, quella del confronto con Dio” (p. 78). L’intento che spinge Socrate a dialogare con coloro che in Atene avevano fama di esser sapienti è la volontà di smentire l’oracolo di Delfi, dimostrando così il contrario di ciò che il responso aveva affermato. “Egli ‘vuole poter’ confutare il Dio” (p. 78). Accade però che a forza di interrogare, Socrate risolva l’enigma del Dio (vero sapiente tra gli uomini è colui che riconosce i limiti del proprio sapere), senza per questo riuscire a smentirlo, senza cioè che abbia luogo quel ribaltamento dei ruoli tipico nelle dinamiche del confronto enigmatico, per cui la soluzione dell’enigma comporta la morte di chi l’ha formulato o, nel caso di una mancata soluzione, quella dell’interpellato. Si attua in questo modo una conversione radicale. Il “so di non sapere” socratico rappresenta dunque il punto di rottura, il contro-movimento, di una volontà di potenza che, prendendo coscienza di sé e del proprio limite, si converte paradossalmente nel proprio opposto, nell’abnegazione di sé, nella volontà di relazione. Si tratta di un’esperienza liberatoria, capace di redimere non tanto dall’ignoranza, a cui gli uomini sono inesorabilmente consegnati, ma “dall’ossessione del reciproco annientamento” (p. 80).
La figura di Socrate finisce perciò per uscire dal tracciato della dialettica tradizionale, in quanto profondamente diversa è la finalità che il dialogo socratico da ultimo persegue: non l’affermazione della propria areté, passando attraverso l’umiliazione dell’avversario, quanto piuttosto la cura dell’anima, propria e altrui. Il dialogo socratico si configura come una pratica terapeutica, consistente nel liberare se stessi, innanzitutto, e poi anche l’altro dalla presunzione di sapere. Di una duplice guarigione si tratta, come si evince dalla ben nota conclusione del Critone, in cui Socrate invita il discepolo a sacrificare ad Asclepio: “siamo debitori di un gallo…”. Socrate guarisce dalla tentazione di evadere dal carcere, Critone invece dall’ignoranza di chi considera un male ciò che è di per sé inconoscibile – la morte – e per paura di questa sarebbe disposto a commettere un’ingiustizia. “Entrambi dialoganti sono fuori della verità e entrambi, prima di tutto, devono rendersi conto della loro condizione, cioè comprendersi nella non verità” (p. 67). Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, questo presupposto fondante della prassi dialogica non conduce a un esito relativista (manifestando piuttosto il relativismo un atteggiamento autoreferenziale, al riparo da ogni possibile fallimento, in cui ogni dialogante tacitamente sa che il proprio punto di vista non potrà mai essere confutato), ma comporta l’apertura su un orizzonte di verità che trascende entrambe le parti contendenti, e che, per quanto esperibile in forma puramente negativa, rappresenta la condizione irrinunciabile di ogni autentico dialogare.
L’autore propone dunque il socratismo come antidoto efficace contro il dilagante nichilismo, cui la tecnica presta oggi una forza d’urto senza precedenti, e contro la riduzione del pensiero a esercizio strumentale, funzionale all’esigenze dell’apparato tecnico-produttivo. Il dialogo rappresenta “la possibilità più ampia a disposizione degli uomini per impedire la progressiva desertificazione spirituale del mondo, la sua riduzione a luogo di esclusivo conflitto tra atomi di Volontà di potenza” (p. 108). Da ciò traspare il valore umanistico e altamente politico del progetto ideato da Crocetti nel 2006 presso l’Istituto d’Istruzione Superiore Leonardo da Vinci di Villafranca in Lunigiana, oggi capofila di una rete di scuole.
In un contesto di vuoto pneumatico valoriale, di incuria della parola, e generale “spaesamento” nel senso heideggeriano di Heimatlosigkeit, promuovere la cultura del dibattito nelle scuole significa offrire alle giovani generazioni la possibilità di coltivare una comprensione critica del reale e insieme allenarle al confronto entro una cornice agonale disciplinata da regole. Come sottolineato da Adelino Cattani – titolare dell’insegnamento di Teoria dell’argomentazione presso la facoltà di Filosofia e Pedagogia dell’Università di Padova: “il dialogo è l’atteggiamento giusto per chi vive in comunità e deve convivere. La disputa polemica è l’atteggiamento giusto di chi vuole comprendere e vuole convincere” (p. 9).
In uno dei passaggi più avvincenti della sua argomentazione, che non ci è possibile riportare per intero, l’autore rileva l’impotenza strutturale di ogni volontà di potenza: “La volontà di potenza vuole che non ci sia altro che possa limitare la sua possibilità di potere. Vuole potere tutto. Tuttavia non può tutto. Se potesse tutto non potrebbe volere cioè desiderare di potere tutto” (p. 77). La volontà di potenza non può rinunciare a voler poter e per questo è condannata a non realizzare mai il potere che essa vuole. Lo stesso può dirsi, in definitiva, anche della filosofia. La filosofia è amore del sapere, e come tale condannata a non possedere mai il sapere cui essa aspira. In ciò risiede l’inconcludenza e l’inutilità della filosofia, che si assicura però, in questo modo, anche la propria perpetuità.
Che dire allora del necrologio di Hawking e Mlodinow? Ci sia consentito percorrere una volta di più l’Apologia di Socrate, al di fuori dei luoghi visitati da Crocetti. Dopo avere consultato politici e poeti, Socrate passa a interrogare gli “artigiani” (cheirotechnes), coloro che operano con le mani (ma non è la mano l’“organo degli organi”, lo strumento per eccellenza di cui l’intelligenza umana si serve per affermare il proprio dominio sulla natura? Non è la mano artefice di ogni demiurgia tecnico-scientifica?). Se rientrassero in questa categoria anche gli scienziati, le parole di Socrate avrebbero il sapore di una confutazione definitiva contro ogni pretesa scientista di esaurire in sé ogni sapere. Costoro, infatti – argomenta Socrate – per il fatto di riuscire bene nel proprio mestiere ritengono di essere sapientissimi anche in altri settori di grandissima importanza e – chiosa il più sapiente degli uomini – “mi sembrò che questo loro errore oscurasse la loro sapienza” (Apologia, 22d).

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